Santi, Navigatori, Poeti (e Produttori di Vino)

Santa dei Mari, Negroamaro, Merica.


Una bella etichetta, originale nel design, sia pure dedicata a un "semplice" Igt. Ma si sa che a volte la semplicità nasconde tesori. Esempio di "modernità nella classicità", dove la grafica è dinamica e stilizzata ma il tema, il concept, "pesca" nelle tradizioni e nei riti locali, in questo caso legati al mare e ai pescatori. Vino del Salento, regione di costa. Forse l'unico stridore sta nel fatto che il Nagroamaro non si presta di certo a piatti di pesce, ma la poetica dell'etichetta è così pregnante che si può soprassedere. Veniamo al nome "Santa dei Mari", originale, attenzionale, nella sua religiosa stereotipia. Vale la pena di citare la definizione/commento che l'azienda produttrice pubblica nel proprio sito: "Ognuno ha la sua Santa dei Mari. Se la può cucire in un taschino segreto e invocarla quando il mare diventa gigantesco e spaventoso, che quasi par di vedere i mostri marini. Succede poi che la può ringraziare con l’allegria nel cuore quando tocca terra, e poi riprende a navigare." Ce ne fossero di esempi come questo, di "accompagnamento poetico" di un vino, negli italici siti internet e in generale nella comunicazione delle aziende vitivinicole. Putroppo accade molto di rado: vedere un nome e un'etichetta concettualmente coerenti, e ricevere un "rational" intrigante (insomma una ragionevole spiegazione del nome e dell'etichetta).
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Etichette, in un Certo Senso, "Celebrative"

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Omomorto, Durella Spumante, 
Giovanni Menti.

etichette grafica marketing immagine comunicazioneProbabilmente, come tutti, questo spumante vuole celebrare la vita, la festa, la vitalità, con le sue bollicine e la sua freschezza. Lo farà sicuramente grazie anche alla sua qualità che le particolari uve "durella" coltivate su terreni vulcanici a Gambellara, possono dare. Particolare la scelta del nome: "Omomorto" che anche chi non conosce il dialetto veneto (omo sta per uomo) può interpretare per quello che di fatto è: un riferimento chiaro a un... cadavere, diciamo così. Il design dell'etichetta, nero, "a lapide", rafforza il concetto, ma non rasserena gli animi. Vengono in mente certe pubblicità dove, per farsi notare a tutti i costi, fotomodelle ignude, o bizzarrie varie, rischiano di varcare il confine del buon gusto e quindi di ottenere il risultato opposto a quello intentato. Non sappiamo cosa ha spinto l'azienda ad adottare un nome così provocatorio: può essere anche molto attenzionale, molto memorabile, certo, ma questi due elementi non devono andare in collisione con aspetti legati alla suscettibilità di ognuno, chi più sensibile, chi meno. In fin dei conti portare in tavola un "Omomorto" pensiamo sia piacevole per nessuno.

Una Barbera con la Barba

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Ampelo, Barbera, Colle del Bricco.

L'ampelografia è una scienza molto importante per la viticoltura. Si tratta (Treccani) della "disciplina che descrive, dal punto di vista della morfologia esterna, i differenti vitigni e li classifica secondo determinati criteri sistematici. I caratteri diagnostici più importanti (che si raccolgono in particolari schede ampelografiche) sono quelli dei germogli (colore, tomentosità, forma), delle foglie (grandezza, forma, tomentosità, dentatura, nervatura ecc.) e dei grappoli (grandezza, forma, compattezza; colore, grandezza e sapore degli acini; epoca di maturazione). Tra i sistemi di classificazione italiani sono da ricordare quelli di G. di Rovasenda e di G. Molon." L'origine del nome di questa Barbera, quindi, risiede nella definizione "Ampelografico" o "Ampelografia". Si tratta di una troncatura, che si trasforma in "Ampelo". Ma questa parola, questo nome, così formulato fa apparire in tutta la sua negatività la particella semantica "pelo". Difficilmente non verrà "intercettata" dalla mente e dalla percezione, anche inconscia, dei fruitori, sia in lettura che in pronuncia vocale. Ecco perché "Ampelo" può risultare come nome "colto", scientifico, di estrazione concettualmente valida e sinergica con la viticoltura, ma anche dotato di una sfumatura fastidiosa. Per quanto riguarda il design, mentre la "forzatura" cromatica della "p" rossa risulta peggiorativa, forse una accentazione grafica sulla "A" avrebbe potuto ovviare in parte al problema.

Moscardelli e Moscardini

Moscardello, Moscato Spumante, Citra.

packaging marketing storytellingChissà se questo vino spumeggiante, che si presenta con un'etichetta invero originale e che attira l'attenzione, potrebbe essere abbinato ai moscardini? Tra le bizzarre evoluzioni degli "chef da palcoscenico" forse ci potrebbe stare. Wikipedia fornisce questa erudizione: "Il moscardino (Eledone Moschata) è un mollusco cefalopode appartenente alla famiglia Octopodidae. Simile al polpo, presenta una testa più piccola del corpo con occhi sporgenti. Gli otto tentacoli hanno una sola fila di ventose". Mentre il produttore fornisce come definizione e rational di Moscardello (nel sito web): "è l’antico nome dialettale dato a questo delizioso vino dolce". Moscardello non c'entra con moscardino, dirà qualcuno. E' vero, ma c'è una sia pur piccola possibilità che il suffisso "moscard..." crei un cortocircuito mentale orientando la percezione verso il "pescato". Le tradizioni, ben rappresentate dalle forme dialettali, devono essere salvate e portate in palmo di mano nella comunicazione, soprattutto nell'Italia delle tante regioni e delle mille espressioni. Ma sempre con attenzione verso gli aspetti fonetici e semantici dei nomi.

Olio all'Olio e Vino al Vino

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Oliva, Riesling (Renano), Cà di Frara.
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D'accordo, il sito dove ha dimora il vigneto si chiama "Oliva Gessi", per storia, cultura, tradizione, eccetera. Valori che valgono davvero nel mondo del vino. Ma chiamare un vino "Oliva" ed enfatizzarlo in etichetta ponendo tale nome in grande evidenza sembra proprio un errore di tipo psico-gustativo. L'abbiamo già detto molte volte, occhio e cervello sono meccanismi di un medesimo, complesso, "edificio". Quanto l'occhio legge "oliva", il cervello riceve un segnale che è inevitabilmente vittima dell'esperienza pregressa, del "conosciuto". E il conosciuto riguardo le olive è tutto in una direzione: gusto e sensazioni legati al frutto dell'ulivo, sia esso in salamoia o in spremitura extra-vergine. La grafica in etichetta pone in parte rimedio a questo cortocircuito comunicazionale, proponendo una sintetica mappa della zona di produzione e mostrando che Oliva Gessi è un luogo. Ma a parte l'essenzialità un po' scarna del design, il problema permane con quel grande nome "Oliva" in primo piano. Il cortocircuito Oliva-Riesling è forte, anche a causa delle "contaminazioni" commerciali che spesso portano le aziende vitivinicole a proporre anche bottiglie di olio prodotto nelle proprie tenute. Ecco perché la comunicazione dovrebbe essere sempre chiara: scevra di possibili fraintendimenti, anche di tipo "sottocutaneo". E non chiamiamoli "particolari", se non nel senso di "aspetti che richiedono particolare attenzione".

Etichette che Parlano una Lingua Semplice

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Sui Lieviti, Pignoletto Frizzante, 
Orsi - Vigneto San Vito.

packaging grafica marketing comunicazioneBizzarro il vino, insolita l'etichetta. Di fatto a una prima occhiata non si capisce quale sia il nome: Orsi? Sui Lieviti? Ma Orsi (Vigneto San Vito) è il produttore. E "Sui Lieviti" è una specifica "tecnica" e organolettica più che un nome. Ma procediamo. L'etichetta non è eclatante, diciamo equilibrata e graficamente abbastanza gradevole. Si fa notare per alcune orginalità, questo sì. L'illustrazione al centro riporta la Folaga (Fulica Atra), segno, diciamo così, "distintivo" dell'azienda, visto che anche sulle altre etichette dei vini in gamma appaiono specie ornitologiche. Agli attenti osservatori di etichette non sfuggirà una piccola frase in fondo, alla base, in dialetto e quindi tradotta in italiano: "E' un vino fitto come la nebbia d'inverno". Questa la poetica e coraggiosa affermazione del produttore, che collima con le effettive caratteristiche, riscontrabili alla mescita, del vino. Nel sito infatti viene ben specificato al riguardo, che "Non viene fatta sboccatura, dunque il vino si presenta naturalmente torbido, 'Sui Lieviti', che ne salvaguardano la longevità" e poi ancora: "Istruzioni d’uso: il vino può essere servito senza scuotere la bottiglia o caraffandolo se si desidera separarlo dai suoi lieviti presenti sul fondo. Oppure suggeriamo di agitare leggermente prima di stappare per gustarlo appieno con tutti i suoi lieviti" Davvero insolito come prodotto e come descrizione. Insolita anche la "comunicazione" in etichetta. Emerge la volontà di un contatto diretto, senza fronzoli, con i clienti bevitori. 

La Doppia Vita di Nomi Illuminanti

packaging etichette grafica comunicazione storytellingBrilla, Cococciola, Marchesi de' Cordano.

Il "caso" di questo vino (a sinistra) è interessante. Si tratta già in partenza di qualcosa di particolare, tanto è raro trovare il vitigno Cococciola in purezza. Un autoctono che in pochi hanno riscoperto e valorizzato. Questo produttore abruzzese l'ha fatto. E non si è limitato a questo: ha cercato e trovato un nome "sfaccettato" come un diamante, che "Brilla". Il riferimento è certamente al colore rilucente del vino e ai riflessi di luce dei suoi flutti. La sensazione è di chiara lucentezza, quindi di freschezza. Insomma un vino "scattante" e dinamico. Non può sfuggire ai più attenti anche un secondo significato di questo nome, e comunque non sfuggirà all'inconscio di ognuno: "Brilla" nel senso di "Ebbra", dolcemente inebriata, riferito alla Cococciola stessa, forse in quanto inebriante, oppure in considerazione di qualche gentile fanciulla che potrebbe pensare di servirsi generosamente del nettare agrumato. Un vino che brilla, quindi, e che "fa brillare" chi lo mesce. Nulla da segnalare, invece, per il design dell'etichetta, abbastanza "normalizzato". Sono invece da notare alcuni altri nomi di vini di questo produttore, come Santinumi e Trinità (Montepulciano d'Abruzzo), Diamine (Pecorino), Santità (Passito). Una ricerca volta a proporre originalità con un pizzico di sorridente ammiccamento.

Divinità per Sbaglio allo Sbaraglio

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Ops Consiva, Spumante, Campi Valerio.

Come un nome colto si può trasformare in uno sbaglio? Facile. Proponendo una divinità dell'Antica Roma che è anche una espressione onomatopeica da fumetto: "Ops". Certo, per l'occasione ci sentiamo di "calcare un po' la mano", anzi la tastiera, su questo "qui pro quo". Lo facciamo per portare un esempio di come a volte con i nomi si possa trasmettere sensazioni e "vissuti" diversi, a volte inaspettati. Ma torniamo al concept colto di questo nome: il produttore, nel proprio sito web riguardo Ops (Consiva) parla di "Divinità romana dell’opulenza associata nel culto a Saturno e a Conso (da cui la denominazione Consiva), proteggeva la copia del grano una volta riposto nel granaio. Le furono dedicati due santuari a Roma, uno sul Campidoglio e l’altro sul Foro. Sono state ritrovate dediche a Ops Consiva negli scavi del santuario di Pietrabbondante nel Molise". E' colta e classica anche la grafica in etichetta, con giusta e logica sinergia comunicativa. Oro e preziosità vanno di pari passo con uno spumante vieppiù dolce, dedicato alle situazioni festanti (l'azienda produce anche la versione brut con sfondo cromatico argento). Il design quindi è di buona realizzazione. Rimane il dubbio sul questo nome, che oltre a poter generare qualche battuta sarcastica, non brilla in fonetica "mnemonica": vale sempre la solita regola "Ho bevuto un ottimo spumante ieri sera..." "E come si chiamava?" "Mi sembra.. Op, Ops, Ups, Corsivo, Coltivo... qualcosa del genere".

Mille Colori, a Volte Sbagliati

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Millè, Franciacorta Brut Millesimato, 
Villa Crespia (Arcipelago Muratori).

La confezione colpisce. Non c'è dubbio. Si tratta di capire dove colpisce. Quale target. E se aveva effettivamente intenzione di colpire proprio quel bersaglio. A nostro parere l'obiettivo punta lontano, verso le sconfinate lande della Russia Bianca (o meglio verso gli sconfinati averi di alcuni facoltosi moscoviti, giacché nella tundra sono ancora fissi sulla vodka). Una bottiglia luminescente, dai toni turchesi, con inserimenti rosa e argento, un tripudio di sfarzo "diamantato" che quasi infastidisce gli occhi, quanto meno quelli eleganti e poco affini alle esagerazioni. Forse non arriviamo al kitsch ma non manca molta strada. I mercati esteri plaudono, si pensa. In italia chissà. Va tenuto in buon conto (dovrebbe averlo fatto anche il produttore di questo spumante lumineggiante a base Chardonnay) che il Franciacorta (in generale) vende davvero poco all'estero: il suo mercato per ora si sviluppa in gran parte nel territorio italiano dove, è vero, si è fatto spazio con una ottima attività di marketing. Possiamo allora parlare di modernità, considerato anche lo snello e "scattante" nome attribuito al prodotto: "Millè". Non male come sintesi: punta direttamente a comunicare il "Millesimato", con accento francesizzante e occhiolino evidente. Mille ottimi auspici quindi a questo nuovo parto della Franciacorta, anche se la perplessità sul design rimane.

Canzoni, Nomi, Emozioni

packaging comunicazione storytelling etichetteAlba Chiara, Passito di Glera e Incrocio Manzoni, Pizzolato.

camunicazione etichette marketingE nato prima l'uovo o la gallina? E' nata prima la nota canzone di Vasco Rossi o questo passito? Non lo sappiamo. Ma poco importa se consideriamo che entrambi (il cantautore emiliano e il produttore trevigiano) si sono ispirati alla magia del sorgere del sole. Probabilmente d'estate visto che si tratta di una alba "chiara" (per l'azienda di vini) e probabilmente riferito a una ragazza di nome Chiara (per quanto riguarda la canzone). A questo punto, ad oggi, per questo vino, la contaminazione risulta molteplice: la magia e l'emozione generate nell'evocare l'alba, si mescolano (per alcuni) al ricordo di una canzone che è ben inserita nel percepito e nel conosciuto italiano. Forse i simpatizzanti di Ligabue potrebbero non concordare, ma in generale si tratta di stimoli molto forti e indiscutibilmente validi: sia l'alba in quanto tale, sia la bella canzone di Vasco Rossi. Dal punto di vista del design in etichetta dobbiamo notare un utilizzo dei caratteri di scrittura che non riescono a convincere: né classici, né modernizzanti, come forse era nelle intenzioni della proprietà. La modalità di scrittura del nome di questo vino sembra più adatta alla testata di una rivista di fumetti, piuttosto che alla bottiglia di un passito. Notare anche l'evoluzione delle etichette: da un'alba "contrastata", in chiaro-scuro (in alto a destra), ad una versione (attuale, in alto a sinistra) più luminosa, limpida e... chiara!

Santi, Pupe e Profani Danzanti

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SantaPupa, Montonico, Vini La Quercia.

design grafica vino comunicazioneL'azienda, abruzzese, di Morro d'Oro (bel nome per questo paese), provincia di Teramo, propone una linea di vini "giovani" e "gustosi", con nomi ed etichette particolari. Il nome "SantaPupa" colpisce per originalità e per quel pizzico di sacro e profano che "naturalmente" attiene e contiene. Di santi in Italia ce ne sono tanti e anche molte sagre e feste di paese che li celebrano. E anche di belle Pupe il Bel Paese è ricco, non è mistero. Forse in questo senso "viaggia" il significante conscio ed inconscio di questo nome. In particolare il produttore fornisce una propria "versione dei fatti": il nome, dice, "richiama una caratteristica imprecazione abruzzese e insieme la principessa danzante e ardente delle feste tradizionali". Un buon modo per mettere il piede in due scarpe: l'àmbito sacro, salvifico e sempre preservato nelle tradizioni dello stivale, e l'aspetto festaiolo che ugualmente caratterizza le serate degli italiani e dei molti stranieri che, anch'essi, decidono di goderne. A proposito della grafica dell'etichetta, infine, Vini La Quercia precisa che "al tutto abbiamo unito un’etichetta che esplicitasse attraverso i colori e le scritte le sensazioni gustative che il Montonico evoca al palato". Cromatismi "giovani", come si diceva all'inizio, e scritte "subliminali" sul fondo colore dell'etichetta (allegro, piacevole, gioviale, fresco), non propriamente eleganti come pulizia di design, ma accettabili dal punto di vista comunicativo. E probabilmente efficaci nel definire le note peculiari del vino e nell'invogliare alla beva.

Unicità che Potevano Essere Sfruttate Meglio

packaging grafica marketing comunicazione storytellingBine Longhe di Costalta, Soave Classico, Tessari.

Partiamo dalla grafica in etichetta. Colore di fondo da vino rosso più che da vino bianco, classicità generale un po' forzata, leggibilità subito compromessa (anche se la scelta cromatica del nome è valida: bianco su fondo scuro). Sul colore e il design dell'etichetta si potrebbe discutere a lungo ma alla fine diventerebbe, come spesso accade, una questione soggettiva. Sulla leggibilità di questo lungo nome invece emergono elementi oggettivi: il carattere di scrittura utilizzato non è dei più indovinati. Inoltre il nome composto da tre elementi semantici (Bine, Longhe, Costalta) non facilita la memorizzazione. Se aggiungiamo che si tratta di fatto di una forma dialettale, ben nota solo in Veneto, ecco la che la frittata è fatta. E veniamo ai fattori positivi (anzi, molto positivi): l'unicità del significato. Infatti, come specificato dal produttore nel proprio sito web, "Bine Longhe deve il suo nome alle caratteristiche del vigneto: i filari di Costalta hanno una lunghezza di 300 metri". Non facili da trovare dei filari così lunghi. Una particolarità che dal nome porta alla "fisicità" del vigneto e quindi evoca il territorio. Molto bene. Caratteristiche del genere (unite ad altre unicità come il terreno lavico e la surmaturazione in vigna) avrebbero potuto probabilmente essere "giocate" meglio sul "piatto" della comunicazione: ad esempio enfatizzandole a livello di illustrazione (dove invece appare una anonima dama che versa vino). E soprattutto creando un nome non solo più leggibile ma anche più facilmente intelleggibile (senza la necessità di una "traduzione").

Cani Sciolti (e altri Animali da Etichetta)

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Iastemma e Turrumpiso, Falanghina e Aglianico, Canlibero.

Siamo abituati a vedere cani e gatti sulle etichette dei vini. E anche per quanto riguarda gli uccelli, la casistica del packaging "ornitologico" è innumerevole. Qui siamo di fronte a un caso eclatante: il cane in etichetta viene enfatizzato al punto da essere raffigurato come assoluto protagonista. Anche il nome del produttore, ancora più visibile dei bizzarri e dialettali nomi dei vini, conferma la dinamica comunicativa: un cane libero, forse un pittbull ("Canlibero" è in omaggio al cane dei produttori, di nome Brando e al patrono del paese dove ha sede l'azienda, San Liberato, Benevento), a simboleggiare un vino "senza guinzagli". Per la cronaca i nomi propri dei vini significano "bestemmia" (Iastemma) e nel caso dell'aglianico il riferimento è a una zona vinicola chiamata "Turrumpiso". Ma torniamo all'aspetto animalesco che, come detto prima, prevale e prevarica: l'abbinamento con la fauna (di qualsiasi genere, anche il merlo per il Merlot) a nostro parere non fa bene al vino, alla sua immagine, alla pre-percezione del suo gusto. Certo, la "pipì di gatto" è diventata un segno distintivo del Sauvignon (ma molti si rifiutano di citarla per "rispetto organolettico"), forse nella falanghina di Canlibero si può ritrovare un certo aroma di "cane bagnato"? E' una battuta, naturalmente, solo per spiegare che gli animali in etichetta portano la mente e la percezione di molti, verso àmbiti rischiosi (tranne per i rispettivi amanti di gatti e cani, che adorando le bestiole, traggono l'aspetto simpatico di queste etichette; ma i proprietari di cani e gatti sono tutto sommato una minoranza). Ben venga la libertà del vino e l'anticonformismo di alcuni nomi, ma l'attenzione per la comunicazione in etichetta dovrebbe riguardare tutti gli aspetti psicologici coinvolti nel processo: alla ricerca di un contatto empatico con il mondo esterno alle dinamiche aziendali e famigliari. Farsi notare a tutti i costi ha un costo, spesso in termini di efficacia. E queste etichette, anche dal punto di vista grafico, sono un valido esempio di rischio incalcolato.

Nomi (e Vini) che Nascono in Modo del Tutto Naturale

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Quartara, Fiano dei Colli di Salerno, Lunarossa.

Il nome di questo vino nasce da evidenze territoriali storiche, cioè da strumenti di lavoro che vengono trasmessi da generazione in generazione, "all'uso dei luoghi". L'Azienda Lunarossa, nel proprio sito web, racconta una storia che unisce la pratica alla tradizione, spiegando aspetti interessanti della produzione. Ecco il testo: "La fermentazione delle uve avviene all’interno di otri di terracotta (quartare) interrate nella bottaia della cantina.
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Si approfitta così del naturale controllo della temperatura e della vicinanza con le forze naturali che d’inverno sembrano ricoverarsi nel sottosuolo. Le quartare da circa 250 litri vengono riempite con uva diraspata e, una volta partita la fermentazione naturale, richiuse con coperchi di terracotta che permettono la fuoriuscita dell’anidride carbonica fermentativa." La "Quartara", il nome del vino, proviene quindi dal processo che porta il vino stesso in bottiglia, quindi sulla tavola di clienti e degustatori. "Quartara" sembra essere comunque un termine semi-dialettale (o di tale derivazione). Curioso osservare che Treccani fornisce un'altra definizione: "Quartara s. f. [der. di quarto]. Antica unità di misura di capacità per il vino, usata in Italia prima dell’adozione del sistema metrico decimale: valeva in Sardegna 4,48 litri, in Sicilia 17,19 litri". Insomma l'Italia delle tante regioni e delle mille tradizioni è un grande serbatoio di vino, idee, parole, emozioni.

Dialettiche Dialettali di Etimo Sconosciuto

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Pistìn, Barbera d'Alba, Giacomo Grimaldi.

La "soluzione" di questo nome è semplice: la spiega il produttore, in breve, nel proprio sito web raccontando che Nonno Ernesto diceva sempre che "bisogna essere pistìn (pignoli in piemontese) per fare la barbera buona". Storia e tradizione, costume e territorio, tutto in una parola, dialettale, che per fortuna in questo caso è semplice, breve e foneticamente valida. Quindi "accessibile" in un certo senso, anche a chi piemontese non è. Suscita infatti simpatia con quel tal senso di diminutivo ammiccante. Insomma "suona bene". Quale occasione migliore per approfondire quel'aspetto dei nomi (in Italia soprattutto) che pesca a piene mani nella cultura regionale e contadina in generale? Basti pensare che le origini dell'accezione "pistino" sono tutt'altro che conclamate. Certo, ci sono numerose testimonianze che in Piemonte venga tutt'ora utilizzato per indicare una persona precisa, in senso positivo, pignola quindi, che fa le cose per bene, come è bene fare con il Barbera (diceva appunto Nonno Ernesto). Qualcuno dice che "pistìn" è una variante del toscano "pestino" da cui "pestinoso" (selvatico, che ha sapore forte, e quindi di carattere, per una persona che sa il fatto suo, che sa far valere le proprie ragioni). Mentre a Verona l'espressione corrispondente è "pilumino" (persona che cerca il pelo nell'uovo). Il web riporta anche che in Monferrato "pistà" è il sale grosso ridotto in fino e il mortaio con annesso pestello si chiamava "pistin", da questo il sospetto che il non lasciar uscire nemmeno un grano di sale (anticamente molto prezioso) era operazione da "pistìn", da precisini, insomma. 

L'Estetica della Fonetica

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Limonte, Grignolino d'Asti, Braida.

Questa nota e premiata azienda piemontese che pure ha creato vini dai nomi simpatici e diventati celebri (e quindi certamente indovinati) come La Monella, Bricco dell'Uccellone, Il Bacialè, nel caso della "nominazione" di questo grignolino ha forse preso un inciampo. La nostra sia pure velata critica muove attorno alla fonetica ed alla percezione che se ne può ricavare. "Limonte", che il produttore nel proprio sito web giustifica affermando che " i nostri vigneti sono molto ricchi di limo (da qui il nome del vino)", può certamente ricordare (assonare) con "limone". Un frutto con un carattere molto forte e con un sapore che tutti conoscono e possono facilmente richiamare alla mente. Un sapore che niente ha da condividere con il vino, anzi, se anche solo vagamente presente in qualsiasi nettare degli Dèi, rappresenterebbe un difetto.
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Questo non per dire che dentro al grignolino di Braida vi sono eccessive acidità, il vino sicuramente è di ottima qualità. Il fatto è che se chi legge il nome in etichetta viaggia con la mente fino al gusto del limone, la percezione diventa negativa, può "far storcere il naso" e di conseguenza privare dell'attenzione necessaria il prodotto. Inoltre, il colore "gialloso" del carattere utilizzato per il nome "Limonte", di certo non aiuta. Del resto l'intenzione è intuibile e valida: dal limo (costituzione geologica) al Limonte, forse unendo limo+monte. Probabilmente sarebbe stato possibile ovviare a questo "problema" utilizzando "limo" a valle del nome e non a monte: tipo Buonlimo, Collimo, Grignolimo, etc etc. E per concludere con ironia (delle parole), notiamo che in provincia di Cuneo c'è una località turistica che si chiama Limone Piemonte!