Parafrasando con Passione

Gioè, Amarone della Valpolicella, Santa Sofia.

Nell'appassionato testo di accompagnamento alla pagina di questo vino, nel sito dell'azienda, si legge: “Cinquant’anni fa, nel 1964, ho avuto l’idea di produrre un vino di qualità realmente superiore, che abbinasse ad una stoffa poderosa i profumi più eleganti e la morbidezza del gusto. Da allora, solo 17 volte si sono ripetute le condizioni stagionali e microclimatiche indispensabili alla maturazione delle uve che danno vita al Gioè”. Il nome “Gioè” indica la parte superiore del colle Monte Gradella, zona di produzione storica dove l'azienda coltiva i propri vigneti. Siamo quindi di fronte a un caso come molti altri, dove la toponomastica perde il "topo" e diventa "nomastica", cioè, a parte gli scherzi, diventa nome di un vino. A volte questo succede in dialetto, a volte andando a riprendere nomi di luoghi che ormai conoscono solo gli anziani del paese, a volte scrivendo semplicemente nomi di frazioni o paesi dei quali l'Italia enogastronomica è ricca. In questo caso ci sta anche una piccola critica (oltre al fatto che chiamare un vino con il nome di una località è spesso limitante): Gioè somiglia molto all'intercalare popolare "Cioè". Anche in lettura, naturalmente. Cioè (appunto) osservando l'etichetta da lontano, oppure sentendo questo nome pronunciato sfuggevomente e prendendo quindi un "Gioè" per un "Cioè". Niente di male. "Cioè" potrebbe essere anche un nome simpatico. Un po' sminuente per un Amarone, ma simpatico. Sta il fatto che qui l'intento del produttore potrebbe essere deviato da una problema di comprensione (G vs C) e quindi di "diffusione".

Vini (Famosi) che Fanno "Splash"

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L'Incanto, Bolgheri Superiore, 
Tenuta dell'Ornellaia.

Atteso ogni anno da molti appassionati di vino, il Bolgheri dell'Ornellaia, dal 2009 viene celebrato dall'azienda con edizioni speciali di bottiglia ed etichetta. Così è avvenuto per questa edizione 2012 in uscita nel 2015. Si tratta di elaborazioni che vengono affidate ad artisti "di grido" di livello internazionale. Questa volta è toccato allo svizzero John Armleder che nella circostanza dichiara: “Quando ho assaggiato Ornellaia 2012 sono stato come catapultato in un’atmosfera sognante. Con la mia opera ho voluto ricreare l’emozione che ho provato in quel momento, fermandola nel tempo”. Nasce così l'idea di coprire la sommità di alcune magnum con una colatura di vetro per "fermare (e firmare) l'attimo". Per quanto riguarda le bottiglie "normali", l'artista ha pensato di rappresentare la
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scultura (di vetro) con uno "splash" color del vino. Ed ecco, su carta, una macchia, come di getto, al centro dell'etichetta. L'artista a tal propostio dichiara: "Sulle etichette ho scelto di rappresentare quello splash che ricorre in molti dei miei dipinti, e non ho resistito all’idea di riempire la sagoma con questa tonalità purpurea”. Il nome destinato a questa edizione di Ornellaia è "L'Incanto", che ben si sposa con il prestigio dell'azienda e con il magico territorio che la ospita in maremma. Nome che non collima molto con lo "splash" d'artista, a dire il vero. E forse (e anche) viceversa. Il risultato potrebbe evidenziare (limitatamente ad un numero chiuso di etichette) una certa dicotomia, certamente "sdoganabile" grazie alle dovute concessioni all'arte contemporanea e all'estro, liberamente espresso, dell'artista.

Quando il Nome fa Personaggio

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marketing etichette comunicazione brandTittibello e Giramondo, Spumanti Dolci, Montelvini.

I nomi di questi due spumanti (due "cuveé", una da uve bianche, l'altra da uve nere) di una nota azienda veneta ricordano, per similitudine e bizzarro abbinamento, un'altra coppia famosa, in questo caso letteraria: Narciso e Boccadoro. Dove Tittibello fa la parte del giovane studioso erudito, con un nome decisamente "narciso", e Giramondo fa la parte dell'avventuriero e inquieto Boccadoro della celebre opera di Hermann Hesse. A parte le citazioni storico-filosofiche i due nomi sono simpatici, originali, "spumeggianti". Si fanno notare per una certa allegria e questo collima con lo spirito di un vino frizzante, per di più dolce, come nel nostro caso. I nomi (Tittibello soprattutto) possono risultare di difficile pronuncia all'estero (mercato importante per la tipologia di vini in esame) ma compensano con una vivace attenzionalità: Tittibello foneticamente è un continuo saltellare (della lingua sul palato, nel parlato) che simula efficacemente le bollicine. Giramondo, più rotondo, morbido e suadente, colpisce comunque per il significato e la simpatia da "globetrotter" che si porta dietro. In generale sono due ottime finalizzazioni, aiutate anche da un design in etichetta chiaro ed evidenziante.

Il Raboso che ci Mette la Faccia

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Faccia di Botte, Raboso, Fasol Menin.

branding immagine comunicazione marketingSiamo di fronte a un nome certamente insolito e originale anche se non perfetto sotto tutti i punti di vista. L'idea, ottima, è quella di umanizzare la "facciata" di una botte e farla diventare volto. Progetto artistico che crea in questo caso una illustrazione giocosa, in parte anche misteriosa, arcaica, magica. Come se, nell'immaginario onirico, di notte, in cantina, le botti prendessero vita e personalità. Quella personalità che poi cederanno al buon vino in esse contenuto. "Faccia di Botte" quindi è un bel progetto, concettualmente, semanticamente. Pecca solo dal punto di vista fonetico, dove la durezza di "accia" e "otte" reca qualche fastidio. Anche le parole stesse "faccia" e "botte" che possono ricondurre ad altri significati, disturbano parzialmente la percezione, ma queste sono considerazioni molto tecniche e anche un po' pignole, giusto per fornire una analisi completa. Rimane il fatto che il nome in questione è coraggioso, giocoso, sfrontato, immaginifico. Il risultato è l'attenzione che il potenziale consumatore presterà alla bottiglia e all'azienda in generale. Proprio quello che si prefigge la comunicazione in etichetta e il branding nel suo complesso. Tutte le etichette dell'azienda Fasol Menin sono tratte da opere dell'artista Roberto Bertazzon.

C'è chi Osa con la Prosa

Difetto Perfetto, Prosecco, Sorelle Bronca.

La caratteristica principale di questo vino a base glera (un Prosecco, per i più) è quella di accumulare dei residui sul fondo. Alcuni lo definiscono infatti "Valdobbiadene Docg Col Fondo", dove "Col" non è sinonimo di "colle" o "collina", bensì serve a spiegare agli avventori che questo vino "ha il fondo". È il risultato di una lavorazione "all'antica" che prevede di lasciare i lieviti nel vino, che alla fine si depositano sul fondo della bottiglia come particelle visibili. L'azienda vinicola in esame, Sorelle Bronca, con un colpo di coda creativo, decide di enfatizzare questa caratteristica che molti clienti potrebbero vedere come negativa, evocando il "difetto" nel nome stesso del vino: "Difetto Perfetto". Ottimo esempio di "negative approach" all'italiana, con aggiunta di rima. Un Difetto Perfetto quindi, quello di cui è "dotato" questo vino e che viene dichiarato apertamente, anzi "giocato" nel nome, creando un effetto simpatia e anche attenzionale di sicuro ritorno. Complimenti al coraggio. Peccato che i cromatismi scelti per la grafica in etichetta (decisamente insoliti e non totalmente condivisibili) non pongano in evidenza il nome che risulta poco leggibile.

Giochi di Parole ma non di Lettere

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Recioto (e Valpolicella Ripasso), Vigneti di Ettore.

etichette brand marketing comunicazioneParliamone. Di questa "mania" di giocherellare con il lettering (si tratta del "carattere", i tecnici lo chiamano "font", lo stile grafico con il quale si decide di scrivere un nome). Allora ecco qui (ad esempio): si prende un'etichetta rettangolare, si decide un bel colore di fondo uniforme (in questo caso i colori sono belli, "vinosi", ci sta) e si scrive il nome della denominazione o del vino o del produttore, "giocando" con la grafica delle lettere. Cambiando sfumature di colore, dimensioni, direzioni, maiuscole e minuscole. Semplice da fare, veloce, ad effetto. Ma qual è l'effetto che fa? Leggibilità non certo facilitata. Confusione ottica. "Rigidità" grafica tipicamente svizzera. Risultato: emozioni zero. Sicuramente le emozioni le regala il vino (cioè, si fa per dire, il vino si paga) una volta versato nel bicchiere e poi in bocca, giacché, dicono, si tratta di un ottimo prodotto. Ma per quanto riguarda l'etichetta a nostro modesto e personalissimo parere si poteva (doveva?) fare di più e di meglio. Mutatis mutandis!

Dolcemente e Soavemente Sbagliato

packaging grafica branding comunicazioneDulcis e Suavis, Fiano e Greco, Fosso degli Angeli.

wine grafica etichette brand storytellingLe etichette, se non fosse per la scelta di "disassàre" le lettere del nome, potrebbero anche passare la censura ottenendo un 6 (meno, meno). Ma i nomi no. Sui nomi non possiamo soprassedere. La ragione è semplice e facile da comprendere: questi due vini sono secchi e non dolci. In modo particolare il Fiano che si chiama "Dulcis" si presta a un clamoroso equivoco, cioè al rischio che potenziali clienti non intenditori (l'80% del mercato fatica a conoscere e capire la differenza tra un Fiano, uno Zibibbio, un Greco o un Gold Muskateller) non acquistino il prodotto in questione (perché pensano che sia un vino dolce) oppure lo acquistino per questo specifico motivo (pensando che sia dolce) e ne rimangano alfin delusi (perché pensavano di abbinarlo a un determinato cibo e invece non hanno potuto farlo). Deludere un nuovo potenziale cliente è la peggior tregenda che possa accadere a un'azienda (fa anche rima). In generale la linea di naming del produttore in esame non è malvagia: fa riferimento a termini latini come Maior, Ver Sacrum, Silvis, Safinim, con origini e storytelling "nobili" e coerenti con il mondo del vino (soprattutto nella zona di produzione in questione: la Campania) ma in particolare questi due vini, "Dulcis" e "Suavis", rischiano di essere fuorvianti nella maggior parte dei casi. Qualche dubbio anche sul nome aziendale "Fosso degli Angeli", dove "fosso" non è semanticamente parola tranquillizzante. Una sfumatura, certo, ma che può portare aspetti emozionali negativi.

Onestà Intellettuale e Produttiva

Capo degli Onesti, Prosecco (Glera), Bastìa.

Un nome che è già uno "statement", diretto, deciso, onesto (nella semantica, tanto per iniziare). Ha attirato la nostra attenzione così come, siamo certi, la può attirare nel "mercato". Si tratta quindi di "buona comunicazione", di quella coraggiosa, senza fronzoli, che si può anche definire creativa, se non altro perché di fatto la nominazione in questione risulta certamete originale. Ma perché questo Prosecco (Vin col Fondo, in menzione locale) si definisce il "Capo degli Onesti", ci siamo chiesti. E lo abbiamo chiesto anche al produttore che, in aggiunta alla sintesi dedicata a questo vino nel sito web, ci ha fornito spiegazioni più dettagliate. Il Prosecco "col Fondo" ha una lavorazione "tradizionale" diversa dal metodo Martinotti (fermentazione in autoclave) e dal Metodo Classico (rifermentazione in bottiglia con sboccatura), in quanto  si tratta di una fermentazione in bottiglia dove i lieviti vengono lasciati lì, ad agire e infine a depositare. Caratterizzando il vino con un "fondo" di bottiglia che non nuoce (se non esteticamente, per alcuni puristi) e che può essere eliminato scaraffandolo. Ora, questo metodo di produzione di un vino "frizzante" viene ritenuto dal produttore il più "onesto" tra quelli menzionati, in quanto: con il Martinotti il vino è facilmente "controllabile" (leggasi correggibile), e con il Metodo Classico la sboccatura di fatto modifica lo stato "naturale" del vino. Quindi il "Capo degli Onesti", cioè il Prosecco prodotto in questo modo, è il più veritiero, perché "dà quello che ha", senza modifiche, correzioni, adattamenti. Il concetto, difficile da trasmettere perché un po' tecnico, è però interessante e coinvolgente. E ha una base di storia, cultura e tradizione che senza dubbio è in grado di costruire consenso tra appassionati e non. Design in etichetta non eclatante, sia pure moderno, pulito, impattante. Il nome "Capo degli Onesti" forse potrebbe essere valorizzato ulteriormente (in impatto, in lettura) con un carattere meno graziato o con una ripartizione diversa da quella su due righe. Comunque viene da dire: "Chapeau al Capo"!

Nel Breve Spazio di un'Idea

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packaging grafica branding storytellingA'mami, Carricante e Chardonnay, Vivera.

Ecco una felice intuizione, semplice d'accordo, ma con simpatia. Insomma ecco un'idea. Che genera un nome in grado di farsi ricordare per diverse e articolate ragioni. Vediamo una breve analisi. Il nome A'mami, dedicato a un vino bianco siciliano, dietro una prima impressione votata all'amore, all'amare, a quello che può sembrare un affettuoso invito, nasconde una precisa interpretazione, della quale il produttore ci fornisce notizia: "A’mami, primo vino imbottiglianto dall’azienda, è dedicato a mamma Armida che, come il vino, da Corleone prende i profumi intensi del sole e dall’Etna l’eleganza longeva e memorabile". Una tenera e storica dedica alla mamma! Come può non commuovere ed essere quindi memorabile una simile risoluzione? Può essere tacciata di "ruffianaggine italiota", d'accordo, la mamma in Italia è una istituzione più che in altre parti del mondo, ma qui siamo di fronte molto probabilmente a una dedica "di cuore", che diventa nome del vino. E che, come detto all'inizio, si trasforma (e comunica) in amore. Il cerchio si chiude e le sensazioni sono positive, senza dubbio. Anche la fonetica giunge in aiuto a questo nome: la presenza di due "a" e di due "m", ammorbidisce il tutto, lo rende "mammesco" più che "mammone". Grafica moderna con inflessioni arabesche. Peccato che in etichetta sia nettamente protagonista il nome del produttore (spezzato in modo criticabile) e non il nome qui appena commentato. Scelte di equilibri comunicativi che devono essere sempre ben soppesati.

Avere i Numeri non Significa Darli

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Lot 96, Petite Sirah, Foppiano.

Certe etichette danno i numeri... del lot. Capita spesso di vedere grandi cifre sulle etichette estere e italiane. Vengono così tracciate, celebrate, sottolineate le "mappature" dei vigneti. È un modo di affermare la territorialità, sicuramente, ma è una modalità non molto creativa e che rischia anche di risultare, in fin dei conti, anonima. Perché alla fine il consumatore fa confusione, con i numeri. Il sospetto è che i produttori in mancanza di storie, di "colonne" territoriali vere, e soprattutto in mancanza di fantasia, ricorrano, o meglio, rimedino, con i numeri dei mappali, o degli anni di coltivazione, o delle botti, o comunque enumerando qualcosa di relativo (appunto: relativo) all'attività vitivinicola. Il caso qui esposto è solo un esempio di come un numero può diventare nome, o cercare di farlo, e comunque essere protagonista di un'etichetta. Graficamente qui abbiamo anche un'idea carina e coinvolgente (il 9 che aggancia il 6), ben realizzata, originale e moderna (con una foto "antica" sullo sfondo: ottima contrapposizione), ma pur sempre con quel 96 assoluto protagonista. La matematiche non è un'opinione, ma i nomi ben riusciti sono su un'altro pianeta.

Etichette Letteralmente Attenzionali

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Anteprima, Lambrusco di Sorbara, Cantina Garuti.

packaging storytelling grafica comunicazioneIl caso, molto evidente, di questa etichetta si presenta con una cromìa d'impatto (tra il rosso e il fucsia, forse imitativo del colore del vino) e soprattutto con una grande lettera, "A", come Anteprima, il suo nome. Il carattere della "A" è piuttosto "sovietico", imponente, aguzzo, forte nel suo modo di presentarsi. Anche il resto della grafica è sostanziale e diretto. Ma tornando al nome, cosa comunica "Anteprima"? In primo luogo fa venire in mente il Novello, cioè quel periodo stagionale quando tutti i produttori spingono il nuovo vinello, autorizzato dalle normative relative a questa tipologia, ad uscire precocemente sul mercato. Questo essere "Anteprima" tipo Novello, non giova, visto che qui stiamo parlando di Lambrusco, un vino certamente "novello" come stile, ma che si stacca dal Novello normalmente inteso. Si tratta per di più di un Lambrusco Dop, di qualità, quello di Sorbara. Diciamo quindi che la "grande A" non aiuta nella comprensione e nella comunicazione. Il nome nel suo complesso neppure, e la grafica anche, porta la percezione verso "altri lidi", quelli relativi a vini "moderni" ma anche modesti, quindi intesi in senso negativo, vini giovani, spigliati, sbarazzini, insomma di cui sbarazzarsi presto.

Dentro alle Vigne di Nome e di Fatto

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Azienda Agricola Antonio Introvigne.

Impossibile resistere alla tentazione di commentare questo nome aziendale che è tratto (quasi non sembra vero, cioè sembra inventato) dal cognome del proprietario e quindi dalle origini della sua famiglia. Antonio Introvigne si è trovato "tra le mani" un cognome che già "tracciava il solco". Si può proprio dire che sarebbe stato un delitto fare un altro mestiere. Il logo raffigura un galletto stilizzato (che poco c'entra con le vigne, a questo punto) e che riporta il cognome in esame. Questo il commento nella sezione "Azienda" del sito web aziendale: "Introvigne è un cognome veneto: di antiche origini tardo latine che significava 'dentro le vigne'. Appartiene ad un gruppo di famiglie originarie della pedemontana Trevigiana le quali risiedevano in un borgo circondato da vigne che essi stessi coltivavano. La nostra famiglia ha fatto da sempre viticoltura con passione serbando le antiche conoscenze, arricchite dai nuovi studi e tecnologie". Il concetto è nel nome stesso, la storia pure. Un ottimo punto di partenza, una base assolutamente solida sulla qualce costruire l'immagine aziendale. Per chi produce vino, la vigna come punto di riferimento è un argomento di grande forza comunicativa.

Fonetica Problemica

Trìuri, Trigora, Treori, Dario Montobbio.

Un'azienda vinicola piemontese, che produce uno dei vini di punta di quella regione, il Gavi, ci offre l'occasione di parlare dei nomi assonanti. Si tratta di un problema di comunicazione quando l'assonanza "risuona troppo". Nella gamma dei prodotti di Dario Montobbio troviamo molti vini "senza nome" cioè qualificati solo con il vitigno del quale sono costituiti. Vini che rischiano di risultare "anonimi", l'abbiamo già detto, ma questo vale per tutti quei produttori che decidono di appellare il propri vini con il nome del vitigno (mettendo quindi in evidenza, in etichetta, solo quel nome, con l'aggiunta del solo nome aziendale, spesso più defilato). Nella gamma del produttore che stiamo prendendo in esame i vini di punta vengono giustamente valorizzati, chiamandoli con un "nome proprio". Ed eccoli: Trìuri (un Barbera), Trigora (un Dolcetto) e Treori (un Cortese). Facile notare la somiglianza letterale e fonetica di questi tre nomi. Due iniziano con "Tri" e uno con "Tre", per terminare, nell'ordine, con "uri", "gora" e "ori". Quasi uguali, alla memoria intellettiva. Foneticamente creano un corto circuito che rischia di mandare in tilt la percezione. Generano quindi una comunicazione confusa, equivoca, destabilizzante, sia pure, crediamo, nel tentativo di generare una "family" di prodotti "fratelli". È un errore quindi tentare di "fare famiglia" di prodotti con nomi attinenti e somiglianti foneticamente: meglio agire sul format grafico delle etichette o su appartenenze etimologiche che non generano conflitti interpretativi del tipo descritto sopra.
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