Niente che Non Va, Tutto da Rifare

packaging grafica comunicazione storytellingLinea Vini, Cantina del Terraglio.

Materia difficile e affascinante il packaging. Semplice e complessa al tempo stesso. Cosa c'è che non va in queste etichette? Nulla a priori. Molto per gli "intenditori". Soprattutto intenditori di design. Perché il vino, dicono in molti, si vende da sé. Senza bisogno di orpelli grafici (tra l'altro costosi, lamentano i produttori di vino, come pagare un designer o ordinare una carta satinata o goffrata o dorata e così via). Ma torniamo al "giudizio universale" di queste etichette (prendiamo come esempio il Merlot della gamma). C'è tutto, dicevamo: il logo in alto, accampanato in una volta (la sommità dell'etichetta), il nome dell'azienda al centro (certo manca il nome del vino, surrogato dal nome del vitigno "Merlot"), poi l'illustrazione di un bel grappolo d'uva e quindi l'indicazione valorizzante della "Marca Trevigiana" alla base. Fatto. Finito. Venduto (si spera). La sensazione però è di inadeguatezza. Un certa semplicità che estro creativo non è: diciamo che il "problema etichetta" è stato risolto, con logica e ordine grafico. Ma i "ma" sono molti. Le etichette ben riuscite, emozionali, sorprendenti, sono altrove. E buon ultimo ci sarebbe da rifare anche il nome della cooperativa, quel "Cantina del Terraglio" che per assonanza fa molto "serraglio".
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Al Lupo! Al Lupo! (Ululò la Duchessa)

Urlo di Lupo, Vitigni Rossi Toscana, Tenuta Maria Teresa (Duchessa di Lucca).

"C'era una volta una dolce fanciulla a cui tutti volevano bene specialmente la nonna, la quale non sapeva più che cosa regalarle. Una volta le regalò un cappuccetto di velluto rosso e poiché le stava molto bene e non voleva portare niente altro, fu chiamata solo Cappuccetto Rosso. Un giorno la madre le disse: "Va', Cappuccetto Rosso, eccoti un pezzo di focaccia e una bottiglia di vino, portali alla nonna, che è ammalata e debole e le farà bene...". L'incipit della famosa fiaba dei fratelli Grimm ci serve per introdurre, giocosamente, l'argomento "lupo", tanto caro a molte aziende e vicende toscane. Forse perché in quelle lande gira ancora qualche esemplare di "canis lupus" con fare losco e minaccioso. L'azienda della "Duchessa di Lucca" decide di appellarsi all'ululato di un lupo per comunicare il proprio blend di rossi toscani. Urlo di luna piena, forse, urlo di battaglia, urlo di allarme per il branco... certo destinato a destare allarme anche nelle umane percezioni, tanto ancestrale è la sua matrice. Breve, nonostante composto, il nome di questo vino: foneticamente compatto e musicale. Ululante di suo: basta recitarlo per rendersene conto. Allarme suscita il lupo cattivo, anche nell'illustrazione in etichetta: nei confronti di un vignaiolo spaventato che sembra mettere in salvo i grappoli della sua uva, oltre che la propria incolumità. Davvero curiosa la "scenetta": si è sempre parlato dei cinghiali come danneggiatori di vigne, ora anche i lupi sembrano destare sospetto. E quel cappello a mezz'aria, del vignaiolo in fuga, comunica una sensazione di sospensione e al tempo stesso di dinamico racconto. Stride il carattere aggraziato e nobile delle scritte soprastanti ma in tutta somma l'etichetta colpisce, azzanna la memorabilità alle caviglie e raggiunge così il suo obiettivo.

Rabbuiati da Sensazioni "Dark"

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Valle Buia, Sangiovese e Colorino, Fattoria Sardi.

"Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita..." canta il Sommo Poeta. E il nome di questo vino (blend di rossi con prevalenza di Sangiovese) riporta sicuramente e direttamente a qualcosa di oscuro, come l'assenza di sole, se non ad altre accezioni mistiche e recondite. Ma perché chiamare un vino "Valle Buia"? Quando anche i meno esperti sanno che l'uva, la vite, la vigna in generale ha bisogno di luce più di ogni altra cosa? E perché scrivere questo ombroso nome in modo che graficamente riporti ad una umida nebbiosità? (anch'essa molto negativa per le uve) Il potenziale acquirente potrebbe legittimamente porsi il problema: se questo vino è frutto di grappoli cresciuti in una valle buia e nebbiosa forse non sarà molto buono. Insomma si ha la sensazione che il produttore in questo caso sia partito con il piede sbagliato, forse volendo onorare il nome locale di una zona determinata, ma che esprime un concetto negativo per il prodotto e che rischia di mettere sotto una "cattiva luce" l'azienda nel suo complesso. I nomi degli altri vini della gamma sono normali, non rabbuiati da parole oscure, ma questo in particolare non trova razionale spiegazione. Speriamo solo che all'apertura della bottiglia, all'assaggio vero e proprio, la sensazione di piacevole solarità possa compensare il nome e le sensazioni iniziali fornite dalla sconcertante comunicazione in etichetta.

Finestre Tecnologiche sulle Etichette

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MMXI, Fiano di Avellino, Vigne Guadagno.

grafica illustrazione azienda narchio brandQuesto produttore campano dall'evocativo nome (il cui logo è bucolico e molto "terreno": una finestra soleggiata) decide di aprire una finestra molto tecnologica attraverso il QR Code in etichetta. E lo fa, questa la novità, sul fronte (normalmente l'escamotage digitale viene collocato sul retro insieme alle altre informazioni su vino e azienda). Utilizzando questo QR Code il rimando è direttamente al sito internet di vendita: molto commerciale ma indubbiamente veloce e pratico (per un target adeguato ed attrezzato, naturalmente). Siamo quindi qui di fronte a un caso che unisce praticità e design (se possiamo definire un QR Code come parte del design). Lo "sgorbio" che compone graficamente questi codici è un incomprensibile reticolo di punti neri alternati a punti "vuoti" che se vogliano può avere la sua eleganza, certo ci vuole molta elasticità mentale. La decisione di porre il magico quadratino sul fronte come protagonista dell'etichetta è una scelta discutibile dal punto di vista del design, ma molto utile dal punto di vista commerciale. In questo caso l'etichetta vende davvero il vino, non solo con la propria identità comunicativa ma anche come traccia di un sentiero tecnologico che porta direttamente allo shop on-line. Ai posteri l'ardua sentenza!

Sapore di Etimo

La Sapa, Mosto Cotto da Malvasia, le Corti dei Farfensi.

Il nome di questa "crema di mosto d'uva" è breve e compatto, proprio come la bottiglia. Forma non  insolita per una categoria di prodotto "gourmet" come quella dei mosti cotti e degli aceti balsamici. E' interessante il fatto che l'azienda (che principalmente vino) dedichi spazio e molte parole per commentare questo nome pur essendo riferito a un prodotto di nicchia, come nel caso del mosto cotto. Ecco un estratto della spiegazione del nome "La Sapa": "Ludovico Ariosto offre una sintetica ma efficace raffigurazione di alcuni elementi propri della cucina cinquecentesca. In particolare il sostantivo femminile "sapa", che è la continuazione del latino sapa, è a sua volta da connettersi, probabilmente, con sapere > "aver sapore" e sapidus > "saporito" e indica un particolare tipo di mosto, cotto e concentrato... etc...". Si nota una piccola incongruenza quando il produttore nel proprio sito chiama il prodotto "Sapa" (senza articolo) mentre in etichetta vine riportato "La Sapa". Difficile per chi non è latinista ricondurre a qualche nesso Sapa o peggio ancora La Sapa: quest'ultimo potrebbe addirittura far pensare alla forma dialettate per chiamare un diffusissimo utensile agricolo!

Aquile, Marchesi e Grappoli

grafica packaging branding comunicazioneMarchese del Grappolo, Montepulciano d'Abruzzo, Rocca delle Aquile.

Parafrasando il celebre film sul Marchese del Grillo, impersonato dal grande Alberto Sordi, l'azienda vitivinicola Rocca delle Aquile chiama il proprio Montepulciano d'Abruzzo "Marchese del Grappolo". Non sfugge un senso di ironia (crediamo voluta da parte del produttore), quel senso di accolita enogastronomica che celebra la vita a colpi di bicchiere. Certo "marchese" è anche parola di nobile accezione, se vista sotto questo aspetto. Il nome, composito, contiene allora due anime: quella nobilizia dei latifondi antichi e delle coccarde familiari e quella "terrena", della gleba, alla quale il frutto della vite appartiene per destino e natura. È nata così una composizione gradevole e memorabile, seriosa e giocosa al tempo stesso. Ma tutto sommato con una vena di quella simpatia che sa ridere di se stessa. O meglio, è capace di non prendersi troppo sul serio. Piuttosto banale la risoluzione grafica, di design, dell'etichetta, classica e barocchevole, se non fosse per quel'idea di rappresentare un grappolo d'uva con la parola che lo definisce. Operazione che a livello visuale è riuscita molto bene, salvaguardando una sufficente leggibilità, fornendo la percezione del grappolo con efficacia. Soprassediamo sul logo aziendale, ma nel complesso l'etichetta, grazie proprio alla modalità con la quale è stato "giocato" il nome del vino, risulta piacevole e dotata di un certa originalità e quindi visibilità a scaffale.

Etichette Extraterrestri (di Germania)

packaging grafica marketingpackaging branding graficaET, Riesling Spätlese, Weingut Steffen Prüm.

Un vino extraterrestre, senza dubbio. Si tratta di piccole produzioni di grande qualità. Ma in questo caso la sigla "ET" in etichetta in tedesco significa "Erdener Treppchen", dal nome del celebre vigneto di provenienza delle uve, uno dei più famosi della Mosella. Una tendenza questa, possiamo dire anche una modalità, quella di chiamare i vini con delle sigle, che si muove in favore della sintesi e della memorabilità. Facile da percepire, facile da ricordare, facile da riferire (con il passaparola, spesso più utile di qualsiasi altra forma di pubblicità). Ancora meglio quando la sigla in questione riporta ad un significato preciso e se possibile concettualmente valido e pregnante. Questo appassionato e qualitativo produttore della Mosella ha recentemente rinnovato la serie delle proprie etichette (visionabili qui) optando, graficamente, non solo per una sintesi "letterale" (le sigle riguardano anche altri vini dell'azienda come "No.1", logicamente la punta di diamante della gamma, e poi, ad esempio, "SL" che sta per "Riesling Selektion") ma anche per una sintesi di design che coraggiosamente esce dagli schemi ricorrenti in quella zona vinicola, densamente popolata di etichette superclassiche con cornici, stemmi, caratteri arzigogolati e immagini seppiate di antica memoria. Nelle nuove etichette di Steffen Prüm vige una pulizia estrema, per quanto riguarda il nome, gli acronimi di cui stiamo parlando, e anche per quanto riguarda l'impaginazione degli elementi in etichetta. È una vecchia diatriba quella che contrappone la pulizia, un po' sterile, del design sobrio (che "taglia" anche le emozioni) e la ridondanza, la ricchezza espressiva, di certe etichette, magari disordinate ma certamente esuberanti. Diciamo che in questo caso l'esuberanza la fornirà il vino, al naso e in bocca, con la forza espressiva che solo un vitigno "nobile" come il Riesling, soprattutto in Mosella, può donare.

Etichette come Infografiche?

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Colto Vitato, Gutturnio (Barbera e Croatina), Romagnoli.

E' possibile (diciamo consigliabile) realizzare etichette come fossero un'infografica? Le questioni in campo sono due: l'efficacia della comunicazione e l'emozione della percezione. Un'etichetta molto informativa, come quella che vediamo qui in analisi, è certamente efficace dal punto di vista della comunicazione "diretta". Ma è carente dal punto di vista emozionale. Basta vedere "l'effetto che fa" il carattere "sfrontato", di impatto immediato, di questi grandi numeri, delle lettere in verticale, grassetti imbolditi, parole graficamente "gridate": un effetto attenzionale molto commerciale, poco gentile, tipicamente aggressivo. Di fatto l'emozione il produttore cerca di trasmetterla con il racconto collocato alla base dell'etichetta (poco leggibile cromaticamente) che celebra e spiega il nome del vino. A dire il vero con non molta chiarezza anche di significato, oltre che di leggibilità. Insomma, altri mondi vengono evocati con etichette graficamente "pulite", o che "portano" simboli e sensazioni con pochi e centrati (concettualmente) elementi. La poesia contro la grevità. Si tratta di modalità diverse, come già detto, ognuna con la propria efficacia e il proprio bagaglio di colpevolezze e consapevolezze.

Comunicare nella Torre di Babele

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Pluminus, Vermentino e Chardonnay, Ferruccio Deiana.

Prendiamo questa etichetta di un noto e stimato produttore sardo per proporre un esempio di "comunicazione di confusione". Osservando in prima battuta (e anche osservandola meglio, con calma) la grafica di questa etichetta si ha una sensazione di smarrimento generale. Gli elementi, dominati dal grande sole giallo al centro, disorientano. Il nome innanzitutto non è facilmente leggibile (sembrerebbe semplice: oro su giallo non si legge, come se pretendessimo leggibilità da marrone su nero, o da ocra su marrone, e via dicendo) e questo disturba subito la percezione, la fruizione, il piacere di guardare l'etichetta, che tutto sommato è la faccia del vino che stiamo per gustare. E' come se il viso di una persona con la quale vogliamo parlare avesse gli occhi chiusi... o la bocca storta o il naso colante... il nostro approccio sarebbe problematico. La "faccia" di questo vino è quindi poco interpretabile a partire da nome (anche come significato, forse riconducibile al latino Plus Minus che significa "così cosà", chilosà). Sullo sfondo la traccia (anch'essa poco intelleggibile) del perimetro della Sardegna. Cornici dorate a linea continua e tratteggiate delimitano gli elementi su sfondo nero, tra i quali un enigmatico marchio rosseggiante con una D e una F inserite in un ovale verticale. Come già detto, a parte il sole raggiante, unico elemento di spicco e graficamente sensato e gradevole (ma rovinato dalla disposizione e dalla cromìa degli altri elementi) siamo di fronte ad un classico esempio di etichetta "nè carne, né pesce", anche se il vino in questione, molto apprezzatto da schiere di intenditori, con il pesce ci va a nozze!

Nomen Omen nelle Terre d'Alfieri

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Moschetto, Arneis, CT Vini.

design naming brandingCerto che se una persona si chiama "Tino Torchio" ha già scritto nell'anagrafe il proprio mestiere. Sulla carta di identità non può che leggersi "viticoltore". Se poi nasce e vive sulle colline dell'astigiano, il destino è compiuto. Ebbene l'azienda "CT Vini" riconduce a Claudio e Tino Torchio rispettivamente figlio e padre, nell'ordine delle due iniziali che caratterizzano anche il logo di questo produttore delle Colline Alfieri. Logo a dir poco essenziale. Forse nato negli anni '60, ipotizziamo, per lo stile "letteralmente asciutto", visto che protagoniste della grafica sono le due lettere già citate, C e T. Per quanto riguarda il nome dell'azienda (CT Vini, ufficialmente) peccato non aver valorizzato il Torchio (o il Tino). Insomma si potrebbe fare di meglio, il materiale concettuale c'è. Per quanto riguarda le etichette, anch'esse accusano un design molto parco, tipografico, austero, giusto per trovare delle possibili definizioni. Nessuna concessione alle emozioni. Quello che si vede è quello che è. Si può fare packaging anche così, nessuna legge lo vieta, naturalmente.

Ammirabile Sintesi Storico-grafica

18/70 - Vermouth - Dogliotti

Curiosa e storicamente intrigante la storia del "Vermouth" o "Vermut" o "Wermut" che dir si voglia. Ma andiamo con ordine. Il "Vermouth" (dicitura francese, ma l'invenzione è di un italiano, un piemontese, Antonio Carpano, nel lontano 1786) è un vino liquoroso aromatizzato ottenuto da vini bianchi dolci (come il Moscato d'Asti) con aggiunta di alcool, zucchero (talvolta) e piante aromatiche, tra le quali principalmente l'Artemisia Absinthium (Assenzio Maggiore) che in germania si chiama "Wermut" (da qui origine del nome). Dogliotti, azienda vitivinicola della zona d'elezione del Moscato d'Asti, ne produce e commercializza una versione "moderna", diciamo "rivisitata". Rispettando la ricetta di base ma togliendo lo zucchero (aggiunto) e con nuovi riferimenti aromatici. Ma naturalmente è l'etichetta che vogliamo commentare in maggior ragione: un'ottima sintesi grafica, creativa, comunicativa del mondo "antico" del Vermouth, rivisitato con stile moderno. Anzi, con uno stile di mirabile sintesi, al punto che non si riesce a giudicare se "vecchio" o se "nuovo". Ed è proprio questa la sua forza comunicativa. Certo sorprende, richiama l'attenzione, gratifica l'occhio e la mente. In una parola attrae. Diversi elementi, ottimamente "mescolati" in modo equilibrato (l'equilibrio nel design è tutto), figurano in questa etichetta che "veste" la sinuosa bottiglia: un cilindro, un monocolo, dei baffoni, una data, il logo aziendale, naturalmente. Certo il Vermouth non è più "di moda", ma questa etichetta fa tornare la voglia di (ri)provarlo.

L'Annosa Questione del Brand

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Logo Aziendale, Rocche dei Vignali.

Il caso di questa azienda della Valle Camonica (Lombardia) può rapprentare un esempio della gestione dell'immagine e della comunicazione nel mondo del vino. A fronte, infatti, di etichette (dei vari vini proposti in gamma) di buona fattura e in parte con valenze artistiche (il top di gamma "Camunnorum", ad esempio), abbiamo un marchio aziendale che "lascia a desiderare". Il giudizio è pur sempre soggettivo ma vi sono anche alcune notazione tecniche che possono evidenziare i suoi difetti. In primo luogo la forma ovale che racchiude il marchio è da ritenersi desueta e appartenente a un certo modo di "fare loghi" del passato. Ma questo
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potrebbe attenere a una moda, quindi soprassediamo. Il nome "Rocche dei Vignali" (che in sé è abbastanza originale) viene rappresentato nel logo con una "R" e una "V": la "R" molto percepibile, mentre la "V" (che va a formare una specie di vigna a pergola) troppo nascosta, graficamente, alla vista. Dalla V "a pergola" pende un grappolo d'uva (forse l'elemento meglio riuscito del tutto, sia pure elementare come realizzazione). In basso, con un carattere graziato, rubato ai font "di default" del PC, il nome "Rocche dei Vignali". Nel complesso abbiamo: una piccola idea concettuale (il grappolino che pende dalla "V") e una inefficacia generale. Il logo infatti risulta poco visibile, quindi poco impattante; poco interpretabile, quindi poco memorabile; devvero poco emozionale, quindi poco efficace. Eppure un logo andrebbe pensato (e pesato) bene prima di perdere tempo e risorse nel realizzarlo: è destinato infatti a durare (a "maturare", a dare i propri frutti) a lungo nel tempo. Ed è una base fondamentale per l'immagine di un'azienda.

Brancolare nel Buio della Comunicazione

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Capobranko, Blend di Bianchi, Branko.

grafica marketing branding conceptSenza dubbio il logo aziendale riportato qui di fianco non si può certo definire un gioiello di equilibrio grafico e di design. Presenta evidenti problemi nella distribuzione di forme e "pesi", a parte la discutibile idea di rappresentare il nome "Branko" con una "B" e una "K", sovrapposte appunto in modo problematico (anzi, verrebbe da dire "problematiko"). Ma passiamo ai nomi. Intestazione aziendale, Branko, che riporta a valenze negative, spesso citato dalla cronaca nera: "il branco". Nome duro, evoca alterigia, qualcosa sì di selvaggio, e se vogliamo anche di naturale e genuino, ma con un tono duro, sprezzante, preoccupante. Di certo non rilassante: le asperità della lettera "K" già complicano tutta la questione, la semantica fa il resto. E vediamo quindi che uno dei vini della produzione aziendale si chiama "Capobranko" o "Capo Branko" che dir si voglia (ma in etichetta si legge sostanzialmente quasi solo "Capo" per fortuna). Capo branco ha un significato di comando e autorità che forse meglio si sarebbe adattato a un vino leader di gamma, invece qui siamo di fronte a un blend di bianchi, tipico prodotto secondario e "di rimedio". Ma a parte questo, Capo Branko, conferma e complica ulteriormente le sensazioni citate in precedenza e legate al nome aziendale. Anche se preso, questo nome, unicamente come "Capo", l'alterigia non demorde e non crea simpatia e clima rilassato. Ognuno è creatore del proprio destino. Anche un Capobranco, logicamente. 

Lampi di Genio a Ovest di Conegliano


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Lampo, Capifosso e Belgelso, Borgoluce.

Il nome di questa azienda agricola "a tutto spettro", che produce vino ma anche olio, miele, salumi e altro, è già molto significativo: "Borgoluce". In una breve parola, sia pure composita, risiedono molti significati. Da "Borgo", la storia, la cultura, la "struttura" delle campagne italiane, a "Luce", elemento essenziale per la vita in generale e per la vite in particolare, con tutte le altre, infinite, sue valenze. Il nome aziendale "Borgoluce" viene accompagnato in logo da una raffigurazione che potrebbe assimilare al sistema solare, quindi un richiamo al sole e comunque all'energia dell'universo. Pochi i vini prodotti, ma significativi i nomi. Tra questi scegliamo Lampo, Capifosso e Belgelso. Nell'ordine un Prosecco, un vino rosso da Merlot e Cabernet e un vino bianco da Chardonnay, Sauvignon e Tocai. Lampo, accompagnato da una grafica in etichetta che ne sostiene il significato e il concetto, sembra fare il verso al nome aziendale: un Lampo nel Borgo della Luce... dalla luce del sole a quella, nella notte, di un fulmine temporalesco. Energia che si sprigiona, in ogni caso, e che si ripropone nei fermenti vinosi e nei nettari con essi ottenuti. Bello anche "Capifosso", nel suo significare nulla in particolare, ma richiamante immagini e sensazioni rurali, con una fonetica simpatica e suadente, non estremamente memorabile, ma "funzionante" nella sua finzione (e funzione) neologica. E infine Belgelso, omaggio alla bellezza della natura e probabilmente a un fusto d'antan nei pressi dei vigneti. I nomi evocano, il palato invoca: il risultato finale è propizio.