Contaminazioni Enolinguistiche

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Modén Blanc, Pignoletto Brut, Cleto Chiarli.

Le contaminazioni sono il "sale" delle gastronomie regionali. E anche per il vino, ben vengano le invasioni: come quelle con le quali gli Antichi Romani hanno sparso vitigni in tutta Europa. Ma la contaminazione che vogliamo sottolineare in questo caso riguarda le parole. Innazitutto il vitigno: viene chiamato Pignoletto ma tecnicamente si tratta di un "Grechetto Gentile". Quindi il nome del vino: "Modén Blanc", un po' emiliano a un po' francese, sembrerebbe. La tipologia di vino infatti è "brut", bollicine che richiamano le spumantizzazioni francesi. La forma della bottiglia e il tappo riportano a quella categoria. Il produttore, tra i leader emiliani del Lambrusco, attiene molto alla città di Modena e alle sue tradizioni. Ed ecco il riferimento al luogo, come in altre etichette della produzione di casa, su tutte il noto Lambrusco di Sorbara "Vecchia Modena". Forse con "Modén Blanc" si voleva alludere a "Modern Blanc"? Un bianco moderno? In questo caso entra in ballo anche la lingua inglese. Troppo complicato. Ci limitiamo quindi a cogliere il significato di un "Bianco Modenese" in stile francese. Discutibile ma vero. Con buona pace dei linguisti e buon sollazzo, si spera, dei palatali.
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Eppure è un Vino

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branding concept packaging comunicazioneBocciolo, Garganega Frizzante, Menti.

Il design ordinato e lineare a volte fa il proprio gioco con eccellenza. Ma non bisogna esagerare. Quando un'etichetta di un vino (questa) somiglia di più a una confezione di un medicinale, forse c'è qualcosa che non torna. Rischiano di non tornare i conti commerciali, perché la concorrenza si fa anche con l'immagine. I colpevoli, diciamo così, sono: un carattere di scrittura "farmaceutico", un colore "terapeutico", una impaginazione "sterile" e infine mettiamoci anche un marchio aziendale in stile "medicale". Ed il gioco è fatto. Il risultato è tutto da vedere. A qualcuno magari l'estrema asetticità dell'elaborato piacerà. Degustibus. A noi il design di questa etichetta sembra molto, forse troppo. anestetizzato. Eppure il nome è romantico ed evocativo: "Bocciolo". Ma ne esce davvero malconcio con tutto quel piattume che si trova intorno. Auspicando una prossima revisione degli elementi di comunicazione da parte dell'azienda, speriamo che chi alzerà i calici con questa garganega frizzante abbia il buon cuore di farlo comunque inneggiando, come è d'uopo, "alla salute".

Spumanti per Amabili Amanti

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Zoom, Chardonnay "pet-nat", 
PopTop Productions.

Alla modica cifra di 28 dollari potreste aggiundicarvi questa particolare etichetta (e il vino che rappresenta) per le Feste di Natale. Particolarmente indicata a Capodanno per il suo carattere "hard-pop" certamente simpatico. Ma andiamo con ordine. Il vino è uno spumante prodotto in California con il "metodo ancestrale" che prevede di far continuare il processo fermentativo direttamente in bottiglia. Un metodo nato prima del Metodo Classico che oggi contraddistingue gli Champagne. Il produttore lo chiama "petillant-naturale" e lo sintetizza con "PET-NAT". Si tratta in questo caso di uno "sparkling" a base Chardonnay. Come si chiama il vino? Si direbbe "Zoom". Ma in etichetta si legge anche "Pop (PT) Top". Poco importa, le due espressioni sono onomatopeiche, cioè esprimono foneticamente quello che vogliono dire e soprattutto quello che l'immagine ci veicola: un gioioso stappo da parte di una sgargiante e disinibita fanciulla. Stile anni '50, in parte, o se vogliamo, stile fumettistico anni '80. Certo è che l'etichetta si fa notare, per quanto è insolita nel settore in cui si colloca il vino in questione e per le scelte cromatiche di un certo impulso, intraprese dai creativi. La sua bella figura la fa: a ognuno di noi decidere se in un senso o in un altro.

Una Rana Arrogante ma Simpatica

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Ribet Red, Cabernet e Merlot, Arrogant Frog.

L'avranno vista tutti la rana arrogante nelle enoteche e anche al supermercato (alcuni items sono venduti nella Gdo italiana). Operazione di packaging simpatica e di impatto. Una serie di pose fumettose della "Arrogant Frog", sui vari vini della casa con operazioni tattiche per edizioni speciali, tipo il vino del Tour de France (Tour de Frog, per la precisione) o per eventi calcistici e altro. La simpatica rana francese che fa del suo aspetto altezzoso e, appunto, un po' arrogante, un'icona, in sostanza si prende in giro. Gioca con un retaggio consolidato che "dipinge" l'intenditore di vini (per di più francese) come un personaggio scostante e "sulle sue". La rana arrogante invece gioca con questo sentimento e si presenta in modo accattivante. Rompendo così anche le regole del design tradizionale e compìto, ancora in largo uso in Francia, con una grafica che attira l'attenzione anche con colori forti e di effetto. Un'operazione studiata a tavolino e portata avanti con intelligenza e costanza. Il risultati (di vendita) si vedono nell'immediato ma si costruiscono anche lavorando sul futuro.

Oro Rosso: l'Oro Nero delle Pianure Mantovane

grafica comunicazione marketingOro Rosso, Lambrusco Mantovano, 
Cantina Colli Morenici.

Di vini che si chiamano "Oro Rosso" ne abbiamo trovati diversi. Dalla Sicilia al Trentino (basta digitare "oro rosso vino" su Google Immagini). Evidentemente è un nome che si presta bene per definire la preziosità di un vino rosso. Non è male in effetti, anche per quella sua fonetica "arrotata" dalle "R" e "smussata" dalle "S". Quasi uno scioglilingua, ma con un suo significato chiaro e valorizzante. E anche breve, sia pure composto, che male non fa, anzi. Insomma un buon nome, se non fosse che è molto frequentato. Problemi anche di registrazione (brevetto), evidentemente. Ma passiamo all'etichetta di questo Lambrusco Mantovano della Cantina Colli Morenici. Grafica molto "spinta" verso codici di comunicazione moderni, aggressivi, iconoclasti. In sostanza l'etichetta si risolve in una grande "O", tipo salvagente, rossa e metallizzata, che domina la scena con la sua centralità quasi ingombrante. Gli "ingombri" infatti (come vengono definiti gli spazi nel gergo dell'art-direction) vengono davvero riempiti tutti. Non male. Si afferma. Ha presenza. E anche una certa originalità sia pure con linee pulite, semplici, dirette. Un Lambrusco che si rivolge alle nuove generazioni, quindi, e che "toglie la polvere" dalla concezione arcaica e tradizionale di questo vino. Sempre che il mercato lo accolga sulla propria tavola e lo accetti come buon compagno di libagioni, naturalmente.

Uno Spumante Salentino che Parla "Speakeasy"

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Brindeasy, Negroamaro Spumante (Charmat), Botrugno.

Il produttore di questo vino spumante, che come dominio internet ha "vinisalento.it", ha sede a Brindisi, nel tacco d'Italia. E proprio con Brindisi iniziano i ganci semantici che riguardano il nome, almeno così crediamo. Dunque il vino si chiama "Brindeasy" che non sarebbe nemmeno male come crasi tra un termine italiano e uno inglese. "Brindare facilmente" e felicemente, aggiungiamo, è il neologismo che ne viene fuori. Se poi aggiungiamo che la pronuncia è identica a quella della città pugliese in questione, abbiamo fatto bingo. Un nome creativo, che attira l'attenzione e che è anche in grado di ritagliarsi una sua memorabilità. Peccato che viene sprecato a causa di una comunicazione quasi inesistente (abbiamo fatto fatica a trovare una immagine pubblicabile), al format grafico un sito, diciamo così, primigenio (e non in riferimento alla seconda parte di questa parola) e infine, ma assolutamente determinante, a causa di una etichetta che non fa onore né al nome e neppure alla categoria. Il design infatti presenta un triangolo con l'apice in basso, incorniciato in argento, che raffigura, crediamo, un tramonto infuocato, e che, sotto al nome aggiunge testualmente "Brut by Botrugno". Si tratta di un caso da "case history": nome azzeccato, giusto per il target, un po' fuori dagli schemi, certo non elegante ma spiritoso, collocato in una "cornice" di comunicazione decisamente migliorabile. Forse l'azienda ci sta lavorando. Lo auspichiamo.

Luna Piena o Luna Rossa? Luna Storta!

winelabels comunicazione marketing graficaLuna Storta, Passito, Montelvini.

Questo vino, che viene definito dal produttore "da conversazione", si chiama "Luna Storta". Certo che la luna ne ha viste di tutti i colori. La famosa Luna Rossa compresa nel computo. Insomma viene tirata in ballo spesso e volentieri per quanto riguarda i nomi dei vini, come del resto il sole. Sarà che i due astri, uno rilucente di luce propria, l'altro riflessivo di luce riflessa, sono sempre ben presenti nella vita di tutti i giorni, anche di notte, dipendentemente dalle zone del globo in cui ci si trova, logico. In questo caso viene adottato un modo di dire molto popolare: "avere la luna storta" cioè essere di cattivo umore. Si dice che l'eventualità si verifica più spesso proprio quando la luna è piena e quindi al massimo di influenza magnetica sugli abitanti terrestri. Non è una accezione positiva "Luna Storta", proprio perché, in generale, giusto per portare un esempio, nessuno vorrebbe avere come compagni di serata qualcuno che è di cattivo umore. Eppure il vino viene definito "da conversazione". Forse si intente una conversazione solitaria, tra sé e sé, così in caso di luna storta nessuno ne subisce le conseguenze. Più probabilmente il nome fa riferimento alle fasi della luna, per la raccolta, l'appassimento o la fermentazione, anch'esse influenzate dall'astro argentato. L'etichetta graficamente è molto classica: non lascia adito a interpretazioni estrose. Ordinata, inquadrata, elegantina, con una mezza luna al centro. Vino da astronauti.

Ebbrezza Asinina con Obiettivi Ecologici

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Ciuchinoi, Grignolino, Carussin.

Cosa sappiamo di questo vino? Che è un grignolino della cantina Carussin e che è al centro di un progetto eco-sostenibile che prevede il gemellaggio tra la foresta di Otonga (Ecuador) e il bosco di "Ciuchinoi", presso Roccaverano, nell'alta Langa piemontese. L'obiettivo è la salvaguardia dei due boschi menzionati e altri progetti a venire. Questa la cronaca schietta. Ma veniamo all'etichetta. Quello che si vede è un asinello rosso, disegnato con tratti infantili, tipo disegni dei bambini delle elementari e un nome, davvero particolare: "Ciuchinoi". Sulla "o" di questo nome si ergono due orecchie d'asino e l'accento sembrerebbe cadere sulla "i" finale. Abbiamo quindi almeno tre livelli di comunicazione: il nome del bosco presso Roccaverano (Ciuchinoi, per quanto bizzarro possa sembrare, così dicono le notizie), l'accenno a una definizione semi-dialettale di "asino", cioè "ciuchino" e infine, la semantica più divertente, l'ammiccamento ad un'altra forma dialettale, cioè "ciuchi noi" che come tutti sanno, soprattutto al nord, significa "ubriachi noi". Trattandosi di un vino non si può evitare di cogliere il nesso. Certo si tratta di una etichetta che si fa notare, grazie anche al già citato colore rosso dell'asinello protagonista. E per il nome così sibillino. Probabilmente l'operazione è tattica e limitata nel tempo. Di fatto l'etichetta entra nel novero di quelle più strane tra quelle censite in questo blog. 

Setosità e Sinuosità Femminili in un Vino Rosso

Fili di Seta, Sangiovese e Cabernet, Sassetti-Pertimali.

La Famiglia Sassetti (Podere Pertimali) gestisce un'azienda vinicola nei pressi di Montalcino. È chiaro che, in quella zona, il Sangiovese la fa da padrone. Per questo vino, chiamato "Fili di Seta", al Sangiovese si aggiunge un 40% di Cabernet, vitigno abbastanza austero per natura. Un nome così richiama, diciamo pure annuncia, un vino che in bocca dovrebbe proprio avere quell'effetto vellutato che molti estimatori bramano. Seta non come assetato (anche, giocando con le parole) bensì come setoso. Nome femminile "Fili di Seta", dove la materia tessile naturale di cui si tratta, ricorda pregiate stoffe, calde sciarpe, eleganti movenze. E qui sta l'eterna e mai risolta questione del vino donna e del vino uomo. Che sembrerebbe poter essere il bianco per la donna e il rosso per l'uomo, salvo scoprire che a maggioranza le donne amano il rosso (anche come colore per l'abbigliamento, tra l'altro). Un vino rosso, questo, che nonostante sia costituito da due vitigni non propriamente morbidi, promette suadenze da mille e una notte. Probabile che i 12 mesi di affinamento in botte facciano il loro effetto per tornire le spigolosità dei tannini. Etichetta elegante, fondo nero, sobria e con pochi e distinti elementi, in linea con il nome del vino. Rimane un unico dubbio: quel filo di seta a forma di "V" proprio sopra al nome. E siccome il cognome del produttore inizia per "S" e la località (Pertimali) per "P", una "V" non ha ragion d'essere. Probabilmente nelle intenzioni del designer si tratta proprio di un filo bianco volante, a descrivere un vezzoso (e ventoso?) arzigogolo. Ci scusiamo per la scarsa qualità dell'immagine dell'etichetta qui riportata ma al momento non siamo riusciti a trovare di meglio in rete. Rigraziamo la nostra attivissima e perspicace "cacciatrice di etichette" Claudia Parisi (su Instagram la trovate cercando claudia_parisi1) per averci segnalato, come altre volte, questo elaborato.

Corvi del Malaugurio? Anche no

Merenda con Corvi, Pinerolese Barbera.

Ne abbiamo viste tante e questa è particolarmente "oscura" come vicenda. Niente di drammatico, si tratta sempre di naming e concept. Ora: questo vino (e l'azienda che lo produce) si chiama "Merenda con Corvi", testuale. L'immagine è un corvo, logicamente, il cui originale è un'opera a carboncino di un artista locale. Ma quali possono essere le ragioni di una scelta del genere? Andiamo a vedere cosa dice il produttore nel sito internet: "...è il titolo di un'opera dell'artista torinese Luigi Stoisa... disegno del 1979, in grafite su carta. Non è un disegno fine a se stesso ma rientra in un progetto più ampio...". In pratica si racconta che nel corso di una visita presso lo studio dell'artista sopra menzionato il titolare dell'azienda si innamorò dell'opera raffigurante un corvo nero, dal titolo "Merenda con Corvi". Acquistata l'opera, nel prezzo, quasi per gioco, fu concordato che doveva ritenersi compreso anche l'utilizzo di quel nome per vini e azienda. Certo che il corvo non gode di buona fama, forse l'artista che l'ha ritratto sì, ma nel "sentito" popolare il nero volatile è foriero di sventura. Come il gatto nero. Non tutti ci credono, anzi, in tempi  moderni le scaramanzie di una volta tendono a scomparire. Ma insomma, il logo e l'etichetta di certo non sono "solari".

Quando le Perplessità Raddoppiano

marketing branding grafica comunicazioneDoppio Bianco, Pignoletto, Tre Monti.

Non sappiamo perché questo vino si chiama "Doppio Bianco" (in etichetta è solo "Doppio" ma nella scheda tecnica nel sito del produttore viene menzionato come "Doppio Bianco"). Che è bianco si vede, che è doppio forse si sente una volta assaggiato, chissà. Ci interessa come sempre analizzare l'etichetta oltre che la semantica della nominazione. In questo caso, per quanto riguarda il nome, attira la nostra attenzione la modalità con la quale si è deciso di scriverlo, quindi di comunicarlo. Spezzato in due, ma gli artefici, non contentim hanno deciso di girare specularmente (e anche verticalmete) il secondo troncone, con un effetto sì che dovrebbe essere coerente con il significato del nome (il presunto significato di sdoppiamento) ma che compromette la leggibilità complessiva, donando alla percezione visiva un "Oid" invece che "pio" a terminare la parola "Doppio". In pratica abbiamo una rappresentazione certamente originale, che attira anche l'attenzione, ma che al tempo stesso compromette la memorabilità. In aggiunta a questo, l'analisi del design in etichetta non porta buone nuove. La goccia che caratterizza la parte inferiore dove appaiono la altre citazioni di legge sul  vitigno e la tipologia di vino, complice il colore giallastro, potrebbe benissimo asservire a una confezione di olio d'oliva. Il risultato, a nostro parere, non è dei migliori. O meglio... è migliorabile.

Il Senso dell'Immenso nello Spazio di un'Etichetta

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Microcosmo, 
Perricone e Nerello Mascalese, 
Cantine Barbera.

A ben guardare, rispetto a quello che gli scienziati ci propinano come "universo", la nostra piccola Terra è un microcosmo. E su questo piccolo, grande pianeta la Sicilia è sicuramente un ulteriore microcosmo. A world apart. Storia, cultura, tradizioni e splendori. In Sicilia esiste a sua volta un altro microcosmo, precisamente a Menfi, nel sud-ovest, ben rappresentato da Marilena Barbera, vignaiola (ci tiene) e titolare delle Cantine Barbera. Un mondo fatto di rispetto per il terreno e quindi per il territorio, dove le uve crescono felici e i vini di quelle uve fanno contenti chi li beve. Indovinate un po'? Uno dei vini di riferimento delle Cantine Barbera è il "Microcosmo", costituito in prevalenza da un raro vitigno che si chiama Perricone, quasi scomparso e ora in vista di un recupero ad opera di volenterosi e appassionati viticoltori di quella zona. Il significato del nome a questo punto è chiaro, ma vediamo cosa dice Marilena Barbera nel suo sito: "Ogni vigneto è un ecosistema complesso, dove piante, animali, insetti ed infinite tipologie di microorganismi vivono in armonia tra di loro. Un equilibrio che il lavoro dell’uomo non deve sconvolgere, cercando ogni giorno di armonizzare i suoi interventi con la vita della natura. Abbiamo piantato il Perricone con il Nerello Mascalese, in proporzione di 10 a 1 e il vigneto viene trattato come un'entità unica ed interdipendente: potatura, lavorazioni, campionamenti, raccolta avvengono contemporaneamente, perché ciò che ci interessa è l'equilibrio della vigna, non le caratteristiche dei singoli vitigni. Perchè il microcosmo è energia e vita". Un nome lontano dai crismi classici ma descrittivo di un concetto che il produttore vuole fortemente portare avanti. Veniamo al design dell'etichetta, cioè agli elementi grafici e cromatici che accompagnano il nome del vino. Colore arancione, forte, espressivo, molto visibile a scaffale. Caratteri di scrittura moderni, forse troppo "bastone" a detrimento di una perfetta leggibilità. Il marchio aziendale, in alto, ripetuto due volte, in rosso e in bianco vicino al testo, forse si potrebbe ridurre a monopresenza. E infine si fa notare una cosmogonia al tratto, dentro e attorno alla prima "O" di Cosmo, a confermare il concetto, si può proprio dire "enucleato" nel rational del nome da parte dell'azienda. Da notare che si è deciso di scrivere "Microcosmo" scomponendo la parola, a sottolineare la dicotomia tra il minuto e l'immenso. E qui scatterebbero disquisizioni filosofiche destinate a durare secoli e non poche righe.

Un Tedesco in Piemonte: Detto in Dialetto

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L'Alman, Riesling Renano, Anna Maria Abbona.

Il vino, si sa, ha zone di elezione che diventano riferimento. Come il bordolese per il Cabernet e il Merlot (e non Bolgheri, che in sostanza ha "importato"), come le Langhe per il Nebbiolo (non solo la zona di Barolo e Barbaresco ma anche la Valtellina e altre zone del Nord Italia), come le Marche per il Verdicchio e via discorrendo. Certo il Riesling Renano appartiene storicamente a regioni vinicole germaniche come la Mosella e germanofone come l'Alsazia, dove si esprime al meglio. E poi ci sono dei piemontesi illuminati e sperimentatori che decidono di violare le regole scritte e non scritte della tradizione per provare a coltivare vitigni "fuorizona", oltre ai vitigni classici regionali. Facile fare un buon Dolcetto o un Barbera in Piemonte. Più difficile riuscire bene con un Riesling di provenienza tedesca. È il caso dell'azienda vinicola di Anna Maria Abbona che ha deciso di coltivare Riesling in provincia di Cuneo (attenzione: il Riesling Italico, coltivato soprattutto nell'Oltrepò Pavese è tutta un'altra storia). E arrivando al punto che ci interessa in modo particolare, il nome del vino, come chiamare un prodotto che "origina" in un altro paese mantenendo una identità locale? Usando il dialetto. Ed ecco "L'Alman", l'Alemanno, cioè il Tedesco in dialetto piemontese. Come dire "lo straniero", in sostanza.  Straniero sì ma abilmente addomesticato affinché possa dare il meglio di sé anche, diciamo così, giocando fuori casa. È vero anche che in Piemonte si sono visti in passato e oggi sempre nuovi esempi di adozione vincente di questo vitigno. La terra evidentemente si presta e il clima non nuoce troppo (il Riesling Renano sopporta, quasi ama, le escursioni termiche verso il basso). "L'Alman", come nome, suona bene, è rotondo, amabile, affettuoso. Attutisce la spigolosità tedesca con un po' di giovialità italiana. Che a tavola fa sempre bene.
piemonte
Per quanto riguarda il design dell'etichetta siamo di fronte a un buon compromesso tra stile antico e moderno: l'impaginazione e i temi grafici rientrano nei canoni della comunicazione visiva, senza concedere spunti di estro creativo ma bilanciando bene elementi classici come lo stemma di famiglia con texture da arte contemporanea. Forse c'è un uso eccessivo di oro a voler dare una preziosità aggiuntiva a valori qualitativi che trovano già ampia conferma nella genuinità delle origini e delle lavorazioni.

Vini "Meravigliosi", Grondanti di Storia Antica

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Stupor Mundi, Aglianico del Vulture, Carbone Vini.

Sontuoso e allegorico al tempo stesso questo nome che pesca a piene mani nella storia del mediterraneo. "Stupor Mundi" (meraviglia del mondo), dice Wikipedia, "...è una locuzione in lingua latina derivante dal lessico militare romano. Nell'Antica Roma l'espressione 'Stupor Mundi' era associata a grandi eventi militari o campagne belliche, come appellativo che consacrava le doti di un generale, che si rendeva protagonista di campagne di successo oltre i confini dell'Impero Romano". In particolare sembra che il condottiero "Stupor Mundi" per eccellenza sia riconducibile alla figura di Federico II di Svevia, Imperatore Romano e titolare di una serie infinita di epiteti gloriosi e guerreschi. Il produttore, Carboni Vini, con sede in Basilicata nella provincia di Potenza, dedica questo Cru di Aglianico al nobile condottiero (che di cognome faceva Hohestaufen ma era nato a Jesi nelle Marche e discendeva per parte di madre dalla dinastia normanna degli Altavilla, regnanti di Sicilia). L'etichetta, originale la forma a tutto tondo, riporta nel proprio centro la raffigurazione di un sigillo imperiale in cera che recita: "Fridericus dei Grati a Imperator Romanorum semper Augustus". La scelta di nobilitare un vino antico come l'Aglianico con frammenti si storia e di cultura di circa 1000 anni colloca il prodotto in un determinato ambito percettivo che certamente ne accresce l'indole qualitativa. Operazione, tra l'altro, concettualmente coerente e quindi (con)vincente.

Nomi Pantagruelici "Impiantati" in Australia

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Suckfizzle, Sauvignon Blanc e Semillon, Stella Bella Wines.

Grazie ad una delle sempre particolari segnalazioni di Claudia Parisi, dobbiamo constatare che anche all'estero qualcuno si diverte con il naming del vino. Divertimento con un'origine storico-culturale, che non fa mai male. Certo questo "Suckfizzle" potrebbe far pensare a molte cose, dato che "succhiare" (suck) è verbo caleidoscopico nella verbalità gergale. Ci viene subito in aiuto il produttore che giustamente certifica l'origine della scelta creativa con queste parole: "The name, Suckfizzle, is drawn from the book ‘Gargantua and Pantagruel’ by François Rabelais (1494 to 1553), which featured the character The Great Lord Suckfizzle. Rabelais was a French monk and practicing doctor who wrote quite prolifically. Rabelais’ tales, whilst earthy and a touch coarse, were in truth a parody of medieval literature and learning, noted for their sheer mastery of language...". Insomma una delle traduzioni possibili per "Suckfizzle" è "succhiafiaschi" che per il nome di un vino davvero non è male come autoironia. Il riferimento al mitico racconto di Rabelais, inoltre, è un omaggio senza mezzi termini a una determinata visione della vita, dove l'enogastronomia godereccia gioca un ruolo da protagonista.
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Questa etichetta ha anche un'altra caratteristica peculiare per cui farsi notare: l'immagine frontale che raffigura un tenero piedino (di un putto rinascimentale?) nell'atto di operare la pigiatura dell'uva. Tenero e anch'esso ironico, suadente, delicato, evocativo, originale e quindi carismatico "nel particolare". Per concludere, anche se in generale il design dell'etichetta non eccelle (impaginazione fin troppo canonica), nei particolari questi produttori australiani (che evidentemente qualche legame con l'Italia ce l'hanno, visto che si chiamano "Stella Bella" e che hanno in gamma anche una serie di vini denominata "Serie Luminosa") hanno saputo dare, con ironia ma anche spessore culturale, interessanti spunti creativi. P.S.: dobbiamo notare anche un altro nome buffo nella serie di vini di questa azienda: "Skuttlebutt". Difficile da tradurre ma potrebbe essere "chiappebasse"!

Un Vino Secco che Celebra il Dolce Far Niente

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Far Niente, Chardonnay, Far Niente Winery.

Se questa etichetta potesse "cantare" (ci arriveremo presto, con le tecnologie al galoppo di questi tempi) allora ci potrebbe allietare con una canzone poco conosciuta, ma davvero amabile, di Chico Buarque: "Far Niente", Bon Tempo, in brasiliano. Ed ecco il testo della canzone: "Aria di festa intorno a me, aria di gioia intorno a me, che voglia di far niente, ogni domenica è così e la domenica si sa vuol dire non far niente. Sei giorni sei di lavoro, ehi ci do dentro lo giuro, perché mi devo sposare, ma finalmente è finita, io preferisco la vita che questo giorno mi dà. Sbadigliando mi alzo mi vesto, non devo non devo far presto, mi metto il vestito più bello che ho, soddisfatto del mondo cammino felice di averti vicino vestita come una regina per me. Pomeriggio di calcio, che bella partita, scommetto che oggi facciamo tre gol e sta sera potremo ballare, ballare cantare sperare, sperare che non venga più lunedì. Lascio in un angolo l'uomo preoccupato confuso avvilito malato che dorme in me e col vestito nuovo, con un viso nuovo, mi presento a te...". Fantastica. Una vera filosofia di vita da rileggere con regolarità. A proposito: ecco qui il link per ascoltare il brano originale. Tornando al naming di questo vino vediamo come la vede il produttore che ha deciso, a dire il vero inizialmente come nome aziendale, di adottarlo (dal sito internet): "...the original name, Far Niente, from an Italian phrase that romantically translated means “without a care,” was found carved in stone on the front of the building where it remains to this day. We felt an obligation to preserve the name with the hope that we could recapture a bygone era when life was indeed without a care". Non siamo sicuri che la traduzione sia proprio quella indicata ("care" in inglese sarebbe "preoccupazioni") ma insomma il caso è interessante. Anche perché siamo di fronte ad una iscrizione in italiano in terra americana, che ha originato tutto questo. Per il resto il design dell'etichetta è molto classico, diciamo anche arcaico, ricorda certe etichette dello Chablis francese. Il nome però riscatta ampiamente il tutto con un messaggio che concettualmente è legato al bere, quindi al godere, il buon vino in santa pace (esteriore e interiore).

Vallate che Vogliono Uscire dall'Anonimato

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Lievàntu, Colline di Levanto Bianco, 
Vallata di Levanto.

Questa piccola cooperativa di agricoltori incastrata in un angolo di Liguria ha rinnovato etichette e logo con uno stile decisamente "da grandi". Non siamo di fronte al migliore design del mondo ma il salto di qualità, considerate le peculiarità e i numeri commerciali limitati, è considerevole. Ad una rapida occhiata generale spicca la scelta concettuale di valorizzare il territorio tracciando in etichetta la linea della costa ligure dove crescono le uve di Vermentino, Albarola, Bosco e di altre uve autoctone che costituiscono l'origine dei vini di questa cantina. Un'etichetta cromaticamente semplice ma di buon impatto, con la connotazione "topografica" descritta sopra: una sagomatura frastagliata che parla chiaramente di territorio. Tutto qui. A volte le idee che danno vita a un packaging sono semplici, purché abbiano senso: in questo senso, "tutto qui". Per confermare lo stile territoriale intrapreso, nel sito del produttore vediamo molte foto di persone che lavorano in vigna che trasmettono la semplicità e la genuinità del luogo e delle lavorazioni. Anche il logo è stato ammodernato ottenendo un incrocio tra la "V" di Vallata e la "L" di Levanto. Non felicissimo il risultato visivo (sembra un po' la "W" di Volkswagen) ma insomma la buona volontà c'è.
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Etichette Pericolose con un Taglio Particolare

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Machete, Petite Sirah-Syrah-Grenache, 
Orin Swift.

Tra le modalità per esprimere il concetto (e l'informazione tecnica) di "taglio" per un vino, si direbbe che questa è tra le più creative e amabilmente sconsiderate. Il teorici dell'estro creativo lo definirebbero "lateral thinking". Ebbene, si tratta di una edizione limitata di 12 etichette diverse, ad esprimere il medesimo vino e concetto produttivo. Al centro della questione c'è un taglio di vitigni e di annate, avvenuto inizialmente in modo casuale e poi adottato dal produttore come nota caratteriale del vino. Certo di carattere questa etichetta ne ha da vendere, sarà per la grande "personalità" della ragazza che, armata di "Machete" (il nome del vino), esibisce la sua imbarazzante bellezza in varie pose, tutte, diciamo così, piuttosto aggressive. Ma anche dotate di una "soavità" che va ricercata forse nelle sue sfrontate espressioni facciali. Scalpore? Semplice, o meglio semplicistico "rumore" comunicativo? Sono etichette che fanno parlare, oltre ad esprimere (ed imprimere) comunque in modo efficace il messaggio. Che effetto farebbe una etichetta simile in Italia? Qui siamo in California, patria di molti "movimenti" culturali piuttosto beceri e di scarno spessore. Ma dove il business viene tenuto in grande considerazione. Come dire? Attenzione porta considerazione. Notorietà porta vendite. Supponendo anche che lo shooting di questa serie di immagini molto probabilmente è stato pericoloso ma divertente.
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Il Vermentino Mannaro che Abbaia alla Luna

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Loup Garou, Vermentino, Stefano Legnani.

L'arte della musica ha forti legami con l'arte del vino. Forse ancora poco sfruttati, dai produttori, per le etichette e la comunicazione in generale. Esempi se ne trovano, certo. Raramente con il livello di approfondimento e di cultura musicale di questo Vermentino, segnalato dalla brillante sommelier Monica Bianciardi, che nelle proprie analisi non si limita al contenuto del vino ma considera tutti gli aspetti, compreso quello evocativo che parla dell'anima del vino, alle anime dei bevitori. Ed ecco quindi che una azienda sul confine tra Liguria e Toscana decide di rendere omaggio a un eclettico artista americano (di origini basche e irlandesi) da veri intenditori: Willy De Ville (a volte scritto Willy DeVille a volte con l'appellativo Mink DeVille). Per interderci: è l'autore del brano "Demasiado Corazòn", scelta e nota per essere la sigla della trasmissione televisiva Zelig. Nel caso dell'etichetta in questione l'omaggio è per il brano, meno conosciuto, "Loup Garou", cioè Lupo Mannaro in francese (Willy DeVille ha vissuto e performato a New Orleans, enclave musicale e culturale con riflessi semantici e romantici francesi).
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Nel design in etichetta, che si fa notare per una iconografia schietta, un calice di vino stilizzato "accoglie" dentro di sé una luna piena che sta tramontando (o forse sorgendo) sull'orizzonte del mare. Un'atmofera magica e misteriosa che distingueva anche le canzoni e le esibizioni del cantante qui celebrato. Certo non si tratta di una classica operazione di marketing, ma l'originalità qui è fine a se stessa, in senso positivo. Siamo di fronte a un vino raro (solo 4000 bottiglie) e a una passione fuori dagli schemi commerciali del vino di massa.

Vini Tombali (ma Spumeggianti)

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Kripta, Cava, Agusti Torello.

Andiamo subito al punto: "Kripta" significa sostanzialmente Tomba. Ovvero luogo di sepoltura che di solito contiene più di una bara, spesso due o quattro. Originariamente le cripte venivano costruite sotto alle chiese per contenere le spoglie dei santi o di qualche eminente ecclesiastico. Oggi si possono trovare cripte di famiglia nei cimiteri di tutto il mondo. Parola di origine greca: cryptè significa "luogo copertto, nascosto". È anche vero che per gli antichi romani la cripta era una sorta di corridoio, galleria et simili, dove la gente si radunava a socializzare in caso di intemperie. Si chiamavano "cripte" anche dei loggiati nelle ville romane dove si riponevano gli alimenti al fresco, e quindi anche nel significato di "cella", cantina. Ma tornando al primo impatto che sovviene leggendo questo nome, esso è indiscutibilmente, anche per i romani, riconducibile a "catacomba". Il vino che porta questo nome è un Cava, come gli spagnoli chiamano i loro spumanti, di una certa ricercatezza e pregio. La forma della bottiglia, che vuole riprodurre le antiche anfore romane, è certamente valorizzante e originale (se riuscite a farla stare in piedi quando la portate in tavola). I vitigni impiegati nella produzione di questo vino sono Macabeo, Xarello e Parellada. L'illustrazione in etichetta è dell'artista Rafael Bartolozzi: bella nel tratto, certamente inquietante proprio come il nome, che per alcuni, soprattutto in Italia dove la scaramanzia è ancora in auge, potrebbe addirittura risultare funereo. Insomma, uno spumante che la festa potrebbe anche rovinarla. Altro che "fare il botto".
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Matto Matteo e il Suo Nome Sincero

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Matto, Verdicchio dei Castelli di Jesi, Filodivino.

Questa volta, per iniziare, citiamo subito la definizione che riguarda il nome del vino in esame, fornita dal produttore: "Matto" è una particolare abbreviazione di Matteo, l’enologo della ciurma. Un richiamo al suo nome e alla fantasia che gli ha permesso di interpretare il Verdicchio e creare un prodotto dal profumo unico e dal sapore particolare. Rispetto al classico Verdicchio? “Sfacciatamente fresco, il vino ideale da bere in barca, tra amici.”. Ci sono già sufficienti evocazioni per farne una storia. Il tutto partendo da un nome (di battesimo), trasformato in un nome di un vino. A volte le idee, come direbbe Paolo Sorrentino, il "favoloso" si nasconde tra le pieghe di una descrizione, sia pure figlia di fatti reali e passione sincera. Quindi "Matto", un nome un po' folle se vogliamo, è l'appellativo di questo Verdicchio dei Castelli di Jesi, "ideale da bere in barca, tra amici". Niente da dire. Nemmeno sull'etichetta che risulta molto "snella", graficamente pulita e rassicurante. Il design gioca con fili d'inchiostro che materializzano, tra altre trame, anche il nome dell'azienda, in bella evidenza: Filodivino. Il risultato complessivo è saggiamente dotato di un equlibrio particolare: una sana spontaneità nel comunicare, che spesso sopperisce a tanti ammennicoli. E per concludere in modo ugualmente fuori dagli schemi ecco una digressione del produttore (tratta dal sito aziendale), sull'esordio di questo vino: “Non ci scorderemo mai il suo primo giorno di scuola, al Prowein 2015: l’eccitazione mista a tensione, la voglia di scoprire le reazioni del pubblico e cercare di esprimere tutto il lavoro alle spalle della bottiglia. L’osservazione reciproca tra lui e gli altri scolari, i cui grembiuli sembravano tutti più inamidati, l’emozione di presentarsi ai quattro venti come l’inizio di una storia. Il Matto è stata la prima indimenticabile bottiglia stappata per il pubblico.”

Un Grave Errore Esterofilo

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Aimè, Pecorino, Cascina del Colle.

Ecco un caso emblematico di nome che non esitiamo a definire sbagliato. Ricorda la vicenda, molti anni fa, della Volkswagen Jetta, che in Italia non ebbe molto successo... sull'onda di scaramanzie anti-iettatori (dovettero cambiargli nome dopo 6 mesi dall'uscita sul mercato). Caso diverso ma simile, contrario e univoco al tempo stesso: il produttore per "inseguire" un significato nobilitante cade nel funesto. Ecco i fatti, anzi, in primo luogo il commento dell'azienda nel sito internet: "Perché Aimè... Nome di fantasia associato al termine francese "amato", come qualcosa di prediletto." Infatti in francese, "amato" è "bien-aimé". A parte il fatto che l'accento è stato invertito producendo proprio l'effetto "aimè" ovvero "ahimè", che certo non porta bene, significando sospiri di delusione, commiserazione, negatività, ma poi perché agganciarsi alla lingua francese per un vino autoctono marchigiano? Che vantaggi ne possono derivare? Allure? Charme? Si tratta di un autogol inspiegabile: il significato negativo di "Aimè" (in italiano) è sotto gli occhi e la percezione di tutti. Per il resto abbiamo in etichetta un design molto tradizionalista, classicheggiante, abbastanza ordinato ma forse troppo legato a canoni arcaici... e, ahimè, che non salva la situazione già molto compromessa dal nome.

Un Nome che Narra una Filastrocca

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An Ghin Gò, Uva Ruggine, Leone Conti.

Non solo il nome di questo vino è squisitamente originale: anche il vitigno che lo compone, l'Uva Ruggine, della zona del modenese, sconosciuta nel resto del mondo. Ma tornando alle questioni legate alla comunicazione, il nome attribuito a questo vino pesca direttamente nella tradizione ludica italiana, quella della filastrocche per bambini. "An Ghin Gò" infatti è l'incipit del famoso "sonetto" che ha per protagoniste Tre Civette. Protagoniste anche dell'etichetta, molto colorate e ben piazzate sul loro Comò. Tutti sanno (gli italiani) come prosegue la storiella: "An Ghin Gò, tre civette sul comò, che facevano l'amore con la figlia del dottore, il dottore si ammalò, an-ghin-gò...". C'è da dire che la versione più conosciuta di questa canzoncina inizia con "Ambarabà Ciccì Coccò" e con questo nonsense letterale finisce. Sta di fatto che la sonorità è quella magica dei racconti fiabeschi. Forse non si presta alla seriosità di un vino ma certo attira l'attenzione attraverso un rimando cantilenante e memorabile. 

Siray di Nome ma non di Fatto

grafica comunicazione marketing brandSiray, Carignano e Bovale, Pala.

È concepibile che un vino che non è prodotto con il vitigno Syrah si possa chiamare "Siray"? Ognuno può dare la propria risposta. Siamo certi che una eventuale ricerca in merito potrebbe fornire risultati plebiscitari. Eppure questo vino, con questo nome è una realtà. Ma come è stato possibile che un simile squilibrio semantico-comunicativo abbia preso forma? Vediamo cosa dice il produttore... ebbene "Sirai" (con la "i" finale) è l'antico nome di una comunità fenicia in Sardegna. Wikipedia precisa che: "Monte Sirai è un sito archeologico nei pressi di Carbonia: è una celebre altura edificata dai Fenici di Tiro (provenienti da Sulci, l'odierna Sant'Antioco), ha i referenti nell'assiro "Ṣuru" il cui significato è "roccia" o "scoglio" da cui il nome "Tiro". La storia e i ritrovamenti in loco narrano inoltre che i fenici portarono e piantarono il Carignano vitigno principale che compone questo vino. Quindi, a quanto sembra, il Syrah (vitigno) non c'azzecca nemmeno di sguincio. Nulla di grave, intendiamoci, se non consideriamo grave che un consumatore non esperto, quando si porta a casa questo "Siray", pensi di acquistare un vino fatto con il Syrah . Certo che la confusione è il peggior nemico della comunicazione. Per il resto la (stimata e non piccola) azienda sarda che produce questo vino, ha lavorato bene, ad esempio per il design in etichetta che risulta elegante, pulito, immediato. Siamo quindi di fronte a un caso di naming degenere che può comunque influenzare tutto il resto della comunicazione di prodotto.

Etichetta Portafortuna (Saranno i Colori?)

grafica comunicazione winelabelsTredici, Garganega e Chardonnay Spumante, Cavazza.

Un'azienda dalla posizione (Veneto) e dalla produzione "classiche" si cimenta in alcune etichette artistiche (oltre ad avere anche una linea più "regular", dal punto di vista del design) e lo fa con il coraggio di osare. Almeno questa è la prima impressione vedendo questa bottiglia di spumante metodo Charmat che si chiama "Tredici", dove il nome è scritto sì in piccolo in basso, alla base dell'etichetta, ma viene sostanziato, evidenziato, reiterato, per chi ha occhi "artistici" per guardare meglio, da una grafica scoppiettante, dove colori come fuochi d'artificio oltre a caratteri di scrittura, forme e dimensioni, tracciano una texture decisamente variopinta e insolita a vedersi sulle italiche produzioni vinicole. Ma da dove viene, in definitiva, questo "Tredici"? Si potrebbe essere portati a pensare che si riferisce alla gradazione del vino, che però, per uno spumante risulterebbe un po' alta. E allora ci viene in aiuto il sito internet del produttore che nella scheda prodotto, parlando del naming, puntualizza: "Le prime bottiglie risalgono agli anni ’80, quando il numero 13 era considerato un numero fortunato alla schedina del Totocalcio". Quindi 13 in quanto numero fortunato, un ricordo scaramantico che diventa quasi romantico se il numero magico si fa largo in mezzo a tutti quei colori come una leggiadra farfalla dal manto variopinto (o tutto quello che la vostra immaginazione andrà a cercare e a creare). Se non fosse per quel tappo a vite, il famigerato "screw-cap" che fa tanto america (o nord Europa) ma poca emozione... ma anche questa è evoluzione e il tempo (e il commercio) dirà se la direzione è quella giusta.

Bizzarra e Sfrontata ma Anche Creativa e Attenzionale

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50 Sfumature, Passerina, Cantine Silvestroni.

Grazie alla segnalazione di una "label-scout" attenta e sagace, Claudia Parisi (@ClaudiaParisi1 su Twitter e @claudia_parisi1 su Instagram), abbiamo notato questa etichetta di una azienda di Camerata Picena (Ancona). La regione Marche è terra di ottimi vini tra i quali la Passerina, come chiamano laggiù quel vitigno e come allude, in tema di vezzeggiativi femminili, tutta italia. Qui sta il punto: di etichette più o meno creative sulla Passerina se ne sono viste, ma forse mai così "dirette" come questa. Complice un nome, "50 Sfumature", che allude al noto romanzo erotico (50 sfumature di grigio) e soprattutto una grafica in etichetta quanto meno evocativa. Insomma, volendo guardare (e l'etichetta in effetti si fa notare) le forme riprodotte dal label-design sono al tempo stesso eloquenti e sfuggenti, lasciando, ad arte, alla fantasia più o meno spiccata dell'osservatore immaginare dintorni e contorni, finalità, allusioni, particolari, anatomie e tutto quello che ne consegue. Volgarità? Umorismo? Avanguardismo? Maschilismo? Pura e semplice comunicazione/provocazione? Agli utenti, secondo la propria indole, il giudizio finale. Magari discutendone davanti alla bottiglia vera e propria, logicamente... aperta!

Nomi che Dicono Quello che Devono


Zerolegno, Barbera del Monferrato Doc, Gaudio.

Questo naming potrebbe essere collocato a buona ragione nell'ipotetico gruppo degli "eloquenti", cioè di quei nomi che "vanno dritti al punto". Quando la connotazione è chiara, il consumatore non vaga. Sembra un proverbio ma è verità. Per cui il produttore in oggetto fa una scelta estrema e comunica attraverso l'etichetta, di fatto la prima e la più diretta forma di pubblicità per un vino, che questa Barbera non fa passaggi in barrique. Lo dice anche nel sito internet, nei testi relativi alla scheda prodotto: "Vino decisamente particolare in un mercato che propone Barbere per lo più barriquate. Nato nel 1998, questo prodotto ha da subito avuto un grandissimo successo. Vi proponiamo la Barbera "Zerolegno" per stupire i vostri amici, con la sua alta qualità, struttura e morbidezza, che derivano dalla selezione delle nostre uve Barbera, e non dall'affinamento in barrique". Più chiari di così! Sono scelte di mercato, oltre che enologiche. E il nome viene chiamato a sottolinearle. A sancirle. Ad affermarle, in questo caso, in modo inequivocabile. Nel mondo un po' egoico delle bollicine la parola "zero" indica spesso l'assenza totale di zuccheri, condizione adatta ad estimatori sofisticati che esigono il supersecco. Nel caso di questa Barbera, lo "zero" cancella con un colpo di spugna l'alterigia molto francese della barrique. Uno "zero a zero" dove vince pur sempre la qualità del vino. 



Oggetti Misteriosi da Esportazione

branding marketing comunicazione winelabelsKelbon, Spumante Extra Dry, Furlan.

Si tratta di un vino spumante di quelli "non meglio identificati", che sul mercato italiano non risultano  (e nemmeno nel sito del produttore). Vino da export che ben sopporta i mercati esteri. O viceversa. Il nome è curioso: "Kelbon". Una specie di "stranierizzazione" del dialetto veneto (siamo sulle colline di Conegliano, come provenienza). "Kelbon" infatti riconduce facilmente alla traduzione in "quello buono", alludendo logicamente al vino migliore della casa. Basta infatti una "K" per rendere una forma dialettale decisamente "appeal" dal punto di vista della percezione semantica. La scelta di spezzare il nome in tre sincopi e la scelta del tipo di carattere (il font, il tipo di lettere con le quali è scritto il nome) molto giocoso, quasi fumettoso, danno una connotazione giovane e scanzonata. La pulizia generale dell'etichetta, molto sobria, grande attenzione/presenza del nome, mentre le altre scritte, poche, sono molto più piccole, aiuta a generare una immagine moderna, a suo modo elegante e anche fuori dagli schemi. Certo un nome che nasce da una forma dialettale, proposto all'estero perde tutta la sua poesia territoriale per acquisire però (grazie anche alla "K", così misterica ed esterofila) una dimensione fashion che male non fa (laggiù nelle americhe o nel profondo nord dei licheni). Kelbon agli stranieri e Quello Buono ce lo teniamo noi, verrebbe da dire. P.S.: sulla legalità della dicitura "prosecco" in etichetta non ci pronunciamo, tanto è una jungla ovunque.

Passioni e Appassimenti ma Sempre a Passi Lenti

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Appassilento, Garganega-Sauvignon-Chardonnay, Farina.

Colpisce subito la particolare morfosi del nome di questo vino: perché conduce la percezione semantica verso il termine "appassimento", mentre il cervello in lettura si accorge altresì che una delle lettere non corrisponde. Si tratta proprio di quella "L" che definisce la seconda parte del nome "lento". Da dove nasce e perché questa metamorfosi? Dunque, l'azienda è certamente tra i nomi noti della produzione di Amarone e Recioto della Valpolicella, vini che vantano nell'appassimento una tradizione storico-produttiva peculiare di queste tipologie. Nel caso di questo vino bianco della gamma di FarinaWines si è voluto differenziare prodotto (un Igt Bianco del Veneto) e nome, pur sempre alludendo a lavorazioni lunghe e accurate. Infatti la caratteristica principale di questo blend di Garganega di Soave (in maggior parte), Sauvignon Blanc e Chardonnay (in minima parte), come scrive il produttore nella scheda tecnica, è questa: "le uve, dopo la pigiatura rimangono a contatto con le vinacce, senza fermentare, a una temperatura di 10-12°C per 24/48 ore. Si procede poi con l’inoculo dei lieviti e con una fermentazione condotta in due momenti, sempre a bassa temperatura, mai sopra i 20 °C. Segue una lunga sosta del vino sui suoi lieviti con “battonage” (rimescolamento dei lieviti nella massa per favorire la loro lisi) così da ottenere in modo naturale rotondità, pienezza ed eleganza. Le operazioni di vinificazione adottate per questo vino hanno una durata che supera di 3 volte i tempi normali". In pratica questa dedizione verso una lavorazione più lunga porta a enfatizzare aromi e profumi, andando a incidere nella qualità organolettica finale del vino. "Appassilento" quindi, tornando al nome, non allude ad "appassimento" bensì alla locuzione "a passo lento". In un periodo storico in cui il vino spesso viene prodotto in fretta affinché possa essere commercializzato altrettanto rapidamente, la notizia che questa azienda veneta abbia invece intrapreso la strada opposta è sicuramente positiva e di merito. Infine una breve disamina del design dell'etichetta: molto classico, arcaico, "antico", riprende il tema delle tradizionali etichette della Valpolicella che molti anni orsono distinguevano la produzione di qualità di quella zona. Abbiamo infatti cornici graziate attorno a una bella raffigurazione dell'antica dimora (del 1500) dove ancora oggi ha sede l'azienda Farina, nella cittadina di Pedemonte in provincia di Verona.

Forse Viola Beve Sempre da Sola

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Violasola, Zagarolo Doc, Federici.

Il tentativo che vogliamo fare è quello di formulare delle ipotesi su questa particolare etichetta. Dunque, una certa persona di nome "Viola" si trova spesso a bere da "sola", tale da evocare la creazione del nome "Violasola" a lei dedicato. Certo è un vero peccato, insomma non è bello bere da soli. Oppure (altra ipotesi) la Viola in questione è lo strumento musicale, "violasola" potrebbe quindi evocare un magistrale assolo in un concerto. Inoltre stiamo parlando di un vino bianco, quindi anche prendendo il termine "Viola" e isolandolo dal resto, i conti (cromatici e gustativi) non tornano. Passando ad una analisi "visual" dell'etichetta vediamo dei tratti neri molto aggrovigliati... In sostanza, non avendo trovato in rete e nel mondo reale riferimenti precisi sull'origine di questa etichetta, non possiamo che analizzarne in primo luogo la semantica del nome (la percezione che potrebbe avere a livello di significato un utente "medio") e quindi anche la dinamica della grafica (allo stesso modo, le sensazioni che può trasmettere). Ultimissima ipotesi: che il disegno aggrovigliato sia una stilizzazione di una viola (fiore) o di una viola (strumento)? Chissà. Forse un ripensamento generale sul packaging design potrebbe essere utile a veicolare una comunicazione più efficace ed esplicativa. E infine per la cronaca (e per la tecnica) il vino Zagarolo Doc, dal nome di uno dei comuni dove ne è disciplinata la produzione, nasce da un blend di vitigni Malvasia del Lazio, Malvasia di Candia, Trebbiano Toscano e Bombino.

Un Vino Figlio del Sole ma Anche della Luna

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Evaluna, Cabernet Sauvignon e Franc, Sansonina.

Da una delle zone vinicole d'Italia ancora "da scoprire" nasce un vino evocativo di sensazioni già da come si presenta in etichetta. Come sarebbe debito di tutti i vini che vogliono intentare emozioni nei propri appassionati bevitori. Siamo dunque a sud del Lago di Garda, noto sì, e di gran nome, per quanto riguarda il turismo, soprattutto teutonico, ma in generale di chi cerca ristoro nelle bellezze paesaggistiche e culturali di Enotria. Ma non solo: l'enogastronomia, logicamente, fa il proprio gioco qui e in tutto lo stivale. Ed ecco quindi nelle intenzioni dell'azienda produttrice (Sansonina, emanazione di Zenato) la volontà di valorizzare le vigne "del Garda", la loro storia e tradizione. In questo caso con due vitigni internazionali che nel clima sublacustre si esprimono al meglio. Un vino rosso, figlio dei due Cabernet più noti al mondo, che vuole essere sì evocativo ma anche semplice e diretto. Ma veniamo all'etichetta. Semplice e diretta, anch'essa, ma tutt'altro che "semplicistica". Protagonista la Luna, in uno scenario cromaticamente notturno che richiama un po' di mistero e di quel magnetismo astrale che il satellite terrestre diffonde senza requiem. Scrive il produttore che "Evaluna" è un "tributo alla femminilità: già nel nome rievoca il simbolo della genesi, dell’origine del mondo e l’astro che rappresenta il mondo femminile. “Eva” e “Luna”, forze creatrici, mistero e ispirazione, legame diretto fra la terra e il cielo". Chiaro come una serata di luna piena, quindi, il concetto e ben espresso, in modo limpido, pulito, lineare, diretto anche attraverso il label-design. Concetti coerenti con la femminilità impressa nella storia e nella logica aziendale de la Sansonina.

Ci piace enfatizzare il valore anche psicologico e filosofico della Luna accennando all'Arcano Maggiore che nei Tarocchi porta il numero XVIII, e che così il Maestro Alejandro Jodorowsky definisce: esaltazione, perfezione sul piano delle realizzazioni, via dell’immaginazione, luce che esce dall’oscurità, ritorno all’unità e smaterializzazione della materia, finire per ottenere ciò che si desidera realmente, non reprimere i propri desideri ed affrontarli senza timore, luce primordiale coordinatrice del caos, chiarezza spirituale che dissipa l’oscurità nell’ambito della quale ci dibattiamo. 


Spumante Francese? No Grazie.

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Bianc 'd Bianc, Alta Langa Brut, Cocchi.

In una invasione di nomi francesi che ancora popolano la mente e di fatto le etichette di molti vini della "Savoia", ecco un esempio di virtù italiana, quanto meno di orgoglio piemontese, che porta il noto produttore Cocchi a chiamare "Bianc 'd Bianc" il proprio spumante brut (Alta Langa Docg, millesimato). Certo il vitigno e il metodo sono francesi, ma l'uva e i vigneti, soprattutto la terra, sono italiani. Ed è italiana l'azienda e i suoi prodotti. Ecco quindi che il piemontese (dialetto) scalza il francese trasformando l'inflazionato Blanc de Blanc degli Champagne in una terminologia più "terrestre", ma non meno evocativa di ottima qualità. Il nome infatti esprime purezza, selezione, cura. Il design in etichetta completa il "messaggio" trasmettendo pregio, eleganza, competenza. Grafica moderna, nella scelta dei caratteri di scrittura e nell'impaginazione, ma con due "citazioni" antiche che male non fanno, bene integrate nel complesso: lo stemma aziendale sul fondo e la firma del fondatore in corsivo alla base. Si può parlare di un ottimo lavoro di comunicazione che l'azienda integra e sostiene con un marketing spumeggiante a vari livelli e su molte piattaforme social.

Sulla Ruota del Chianti Esce il 36: le Nacchere.

branding grafica marketingMix 36, Chianti Classico, Mazzei.

branding grafica marketingÈ sempre destabilizzante quando una azienda decide di utilizzare cifre (numeri) invece di lettere per nominare un vino. Sarà che il vino è legato alla storia e alla letteratura più che alla matematica. O forse perché i numeri portano subito la percezione in un "campo tecnico", spostandola da quello agricolo. Certo, alcuni nomi di vini che adottano la numerologia quanto meno hanno una ragione concettuale che li valida. È questo il caso di "Mix 36", un Chianti Classico 100% Sangiovese che può vantare (qui sta il punto) di avere origine da 36 biotipi diversi di selezione clonale. In pratica, nel tempo, sono stati selezionati, diciamo "raffinati", i cloni del vitigno fino ad arrivare ad una purezza, una specie di pedigree vitivinicolo, in grado di garantire una qualità finale di ampia soddisfazione. Questo il concetto che sta alla base di quel numero, 36, che spicca in etichetta anche grazie al colore rosso (insieme al marchio Mazzei in basso) su un fondo sostanzialmente chiaro. Un'altra caratteristica abbastanza insolita per una etichetta di vino riguarda il testo sottostante al numero in questione: una testo a blocchetto, ordinato ed elegante, che funge da spiega, da rational, per il prodotto. Descrizione che di solito viene posizionata in retro-etichetta ma che, con il dovuto equilibrio grafico, può fare un egregio lavoro di comunicazione anche sul fronte. E comunque, ad uso dei cabalisti, il 36, nella Smorfia Napoletana sono le Nacchere.

Un Tuffo nel Blu Dipinto di Blu.

Narcisus, Moscato Igt, Gravanago.

Nella sequela dei "vini blu", ultimamente di moda (passeggera, probabilmente) enumeriamo anche questo Moscato Igt della provincia di Pavia (che di cianotico ha solo l'etichetta e il vetro della bottiglia, non il suo contenuto). Il suo nome potrebbe evocare, ad onta del colore della bottiglia, letterature di pregio e riferimenti filosofici di spessore. Un primo enigma tratta dell'assenza di una "s", infatti il nome del vino è precisamente "Narcisus" e non Narcissus come dovrebbe essere il corretto riferimento, in latino, al nobile e delicato fiore dal profumo inebriante (infatti il nome del fiore deriva dal greco "narkào", cioè "stordisco"). Ma la storia più nota riguardo a "Narciso" (in greco antico Νάρκισσος, Nárkissos) è quella legata a "un personaggio della mitologia greca e cacciatore, famoso per la sua bellezza, che a seguito di una punizione divina si innamora della sua stessa immagine riflessa in uno specchio d'acqua e muore cadendo nel fiume in cui si specchiava" (da Wikipedia). E poi non dimentichiamo il celebre romanzo "Narciso e Boccadoro" di Hermann Hesse dove Narciso è "un giovane monaco diligente e contemplativo, amante della lingua greca e delle scienze". Riferimenti elevati quindi per questo nome, mentre abbiamo codici cromatici criticabili, as usual, per un azzurro poco palatale e attraente solo per una dinamica attenzionale da scaffale (fintanto che i vini azzurri rimagono radi). La foto della bottiglia che siamo riusciti a reperire non è di qualità, ma si può scorgere che il nome "Narcisus" è tracciato con un carattere molto graziato, bello ma poco leggibile in ogni caso. Tutto sommato un'etichetta pulita e graficamente equilibrata, un po' narcisista, questo sì. 

Il Pallino per il Vino

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Vigna di Pallino, Chianti,
Tenuta Sette Ponti.

C'è chi ha "il pallino" per il vino e chi si porta dietro per anni e anni un soprannome. Questo è il caso di questo naming che origina da una vigna, posseduta, governata, vissuta da un personaggio locale che tutti chiamavano "Pallino". Il produttore infatti dice: "il Chianti 'Vigna di Pallino' coglie il nome del vignaiolo che per lunghi anni si prese amorevolmente cura di queste terre". C'è dunque una storia locale "a monte" della scelta di questo nome. Come spesso accade per luoghi o leggende. Ma quando c'è di mezzo una persona, una vita, la storia prende spessore e concretezza agli occhi degli appassionati clienti bevitori. Ma la nostra attenzione in questo caso è stata attirata soprattutto dal design dell'etichetta, dal suo colore, rosso pieno: una macchia di colore che tutt'oggi il mondo del vino adotta raramente. Il risultato, per chi decide di farlo come Tenuta Sette Ponti per questo Chianti, è una indubbia visibilità a scaffale e un impeto comunicativo che comunque "sfonda". Del resto abbiamo equilibrio nell'impaginazione, evocazione di temi classici, ordine grafico di buon costrutto.

Follia del Naming, Poesia del Vino

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Folle, Conero Riserva, La Calcinara.

Quante sfumature semantiche offre questo pazzo nome! Si tratta del "Folle", un vino rosso marchigiano, della zona del Conero, che infatti fa riferimento alla medesima Docg. Andiamo con ordine (sia pure caotico): folle per gli inglesi è "fool", il matto dei Tarocchi, lo squilibrato viandante rappresentato anche dal Jolly nel gioco delle carte. Pazzo ma simpatico, giocoliere e giocherellone. In Italia "folle", così com'è, dice follia, a volte malsana. Certo Steve Jobs con la famosa pubblicità di qualche anno fa per la Apple, definì i folli come spiriti creativi, gli unici in grado di far "muovere" il mondo. Per cui di fatto, ognuno di noi, dipende anche dalla nazionalità, e dalla regione di provenienza per quanto riguarda la nostra Italia, si è fatto un'idea, una percezione della parola "folle". L'azienda vinicola La Calcinara ha
adottato questo nome, a quanto pare, derivandolo da una delle azioni messe in atto in cantina per produrre il vino: la follatura. Treccani in proposito dice: "Operazione di abbassamento delle vinacce per reimmergerle nel mosto in fermentazione tumultuosa e spezzare la massa compatta (cappello) che si raccoglie alla superficie, portata dalle bolle di anidride carbonica; si facilita così l’aerazione del mosto e si favorisce la moltiplicazione dei fermenti alcolici". Da una preminente follatura, nasce dunque il "Folle". Nome breve, immediato, impattante, memorabile, foneticamente dotato. E con un fondamento concettuale nelle operazioni enologiche. Rasentiamo la perfezione. Per quanto riguarda il design in etichetta, anch'esso folleggiante, ricco di colore e "scintille" grafiche, possiamo dire che fa il suo gioco, con originalità ma lasciando chiara la lettura del nome e del tipo di vino, al centro, con pulizia e sobrietà di carattere (di scrittura). Notare infine che il logo dell'azienda, in basso, ha nella propria sommità un cappello da Joker. Tutto torna. Anche perché gli esperti dicono che dentro la bottiglia la qualità prevale.