L’Idea in una Semplice Macchia

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Dogliani e Barbaresco, 
Francesco Versio.

Si tratta di un giovane produttore che ha immesso sul mercato il suo primo vino nel recente 2013. Se ne parla bene: ottimo esordio e grandi aspettative per il futuro soprattutto per il suo Barbaresco che nasce da un minuscolo appezzamento rilevato dal nonno. Ma a noi, come sempre, oltre alla qualità del vino, interessa l’analisi dell’etichetta e degli aspetti comunicativi della bottiglia, ancora prima del fatidico assaggio. Vediamo dunque nell’immagine in alto a sinistra due vini di questo produttore, con una etichetta molto simile  e molto semplice (cambia solo leggermente il colore di stampa). Ma qui c’è un’idea... e la si nota subito: si tratta del calco, della traccia, della macchia, insomma, che spesso il “sedere” della bottiglia lascia sulla tavola o sulla tovaglia a seguito di un po’ di vino fuoriuscito, magari durante le operazioni di stappatura o di versamento. Piccola, semplice idea, ma c’è. Ed è protagonista assoluta di un’etichetta che non riserva altri punti o concetti attenzionali. Dentro al cerchio lasciato dall’orma della bottiglia è iscritto il nome del produttore. Stop. Non è male. Si fa notare, nella sua estrema semplicità. Purtroppo manca il nome del vino, nel senso che la “nominazione” viene lasciata in toto alla tipologia/vitigno. Un altra e ultima notazione: peccato che, probabilmente per risparmiare in fase di stampa, le tracce (l’orma della bottiglia) delle due tipologie di vino sono identiche. Sarebbe stato bello, più poetico e narrativo, che ogni vino avesse la propria, personale, diversa, originale e unica, “macchia”.

Come si Chiama Questo Vino? Non Lo So

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Non Lo So, Chianti Classico, Jurij Fiore & Figlia.

Tutto sommato è stato semplice trovare un nome per questo Chianti Classico che viene da una delle colline “cru” della Toscana centrale (zona che tutti conoscono col nome di Lamole). Il proprietario, interrogato sulla questione ha risposto: “Quando è nato questo vino tutti mi chiedevano quale fosse il suo nome... e io rispondevo ‘non lo so’. Al punto che ho deciso di chiamarlo proprio così...”. Anche l’etichetta di questo vino è semplice: i caratteri di scrittura simulano le lettere tipiche della macchina da scrivere (quella di un tempo, “meccanica”). Tutta l’etichetta sembra essere stata composta da un foglietto di carta scritto con una vecchia Olivetti 35 (tanto per fare un esempio storico). L’unica concessione a qualcosa di emozionale è una piccola illustrazione artistica, sulla sinistra, con foglie di vite. L’azienda è piccola, nata da poco, la produzione è minima (poche centinaia di bottiglie, per ora). Le etichette, in un certo senso, rispecchiano questo modo di essere. Una semplicità rurale. Non trasmettono invece un senso di alta qualità, che questo vino indubbiamente ha nelle sue “vene”. Non si può non citare anche gli altri due vini della produzione aziendale, che per i loro nomi sono ugualmente notabili: “L’Amore” (rosato da Sangiovese) dichiaratamente, da parte del produttore, una assonanza romantica con Lamole (in etichetta la “R” e la “L” sono coesistenti) e “Punto di Vista” (Chianti Classico), che nasce dal una personale visione del Sangiovese. Nomi semplici che però sono in grado di attirare l’attenzione e di farsi memorizzare, soprattutto il primo, quel “Non Lo So” che gioca sull’equivoco stesso dell’attribuzione di un nome.

Promesse da Marinaio di una Bottiglia Azzurra

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Àncora, Albarino, Vina Sobreira.

La bottiglia di questo vino spagnolo non può certo passare inosservata. Innanzitutto perché il vetro è azzurro (immagine qui in basso a destra). In Italia di questo tipo (e forma) non se ne vedono, all’estero capita qualche volta. In Spagna recentemente hanno anche creato il vino azzurro, ma questo è tutto un altro discorso. In questo caso il vino è da vitigno Albarino ed è regolarmente bianco alla vista (cioè giallo paglierino o dorato che dir si voglia). Il vetro della bottiglia, per l’esattezza di colore “blue-marine”, si sposa bene con l’etichetta (o meglio, viceversa) che si presenta al pubblico abbastanza sfacciatamente con toni marinareschi, sia come soggetti illustrati, sia come cromatismi. Il vino, non ci sarebbe bisogno di dirlo, si sposa bene con il pesce. Ed è questa la finalità del design complessivo scelto dal produttore (che ha sede molto vicino al mare, nei pressi di Vigo, nel nord-ovest della penisola iberica).
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Passando a commentare ed analizzare il naming, questo vino si chiama “Àncora” come l’attrezzo che si usa per fissare le barche in rada, per intenderci. Anche se in spagnolo, detto attrezzo, risulta come “ancla”. Sarebbe interessante, un nome così, anche in Italia, visto che da noi con accento diverso “Ancòra” significherebbe anche “voglio altro vino”. A parte gli aspetti ludici e semantici, è da notare il design in etichetta: come già detto, si tratta di una grafica molto marinara, molto colorata, molto solare. Una proposta diversa dai soliti codici dei packaging dei vini bianchi estivi che propongono delicate suadenze ondeggianti o pesci di varia forma e misura. Qui il design arriva agli occhi senza filtri, come una sferzata di vento... si vedono granchi, ombrelloni, fari, bandierine, navigli, cabine da spiaggia, tutto con uno stile piuttosto giocoso, quasi infantile, semplice e diretto. Un vino da battaglia, insomma. Naturalmente si tratta di battaglia navale.

Dive Che Cantano, Muse Che Ammaliano

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La Musa, Barbera d’Asti, Cascina Montariolo.

Il simbolo (logo) di questa azienda piemontese del Monferrato Astigiano è una M inserita in un cerchio. Semplice e diretto (M come Montariolo). Caso vuole che anche il vino che abbiamo preso come esempio, estrapolandolo dalla gamma del produttore, abbia un nome che inizia con “M”. Si tratta di un bel nome, evocativo: “La Musa”. C’è della poesia e della antologia dei miti nell’evocare una musa. Infatti, di questo breve ma intenso termine, Treccani dice: “...nella mitologia greca, divinità del canto e della danza”. Non sono stati solo i nomi ad attirare la nostra attenzione (gli altri vini dell’azienda si chiamano La Diva, Nanà, Costanza, Rosà, Zi Tania... tutte donne, tra l’altro): sono state anche e soprattutto le illustrazioni che contraddistinguono le etichette (si possono vedere tutte qui sotto, alla base del testo). Sono “diverse dal solito”, escono dagli schemi, ma non sono fine a sè stesse, hanno uno stile, una personalità, una propria emozionalità. E sia pure molto diverse come illustrazioni e colori, si capisce subito che appartengono tutte alla medesima serie. Possiamo definirle anacronistiche, avanguardiste, ma anche originali, nuove, in un certo senso irriverenti. Ma certo efficaci nel distinguersi, nel caratterizzare la gamma dei vini e quindi il produttore stesso. Un bella operazione di packaging condotta con un progetto ben delineato. Con un’idea dotata di distintività, grazie soprattutto a questa serie di donne strane ma affascinanti, ammalianti.
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Intrecci Amorosi in Napa Valley

Six Eight Nine (Obey), Cabernet Sauvignon, 
689 Cellars.

Anche se a prima vista potrebbe sembrare, non si tratta del trailer di una nuova serie in programmazione su Netflix. Una serie che potrebbe tranquillamente chiamarsi, facciamo qualche esempio, “Sex in the Cellar”, piuttosto che “Slawine” (da slave, schiavo, e ci riferiamo al nome di questo vino, precedentemente chiamato “Obey”). L’immagine è fotografica, almeno così sembra, o illustrata e in questo caso molto ben trattata, e si trova sull’etichetta di un vino. Etichetta "a tutto campo", dove l’immagine occupa tutto lo spazio disponibile. Si tratta di un Cabernet Sauvignon della Napa Valley (Usa) di un produttore che si chiama “689” (poi torniamo anche sui numeri che sono interessanti). Come già detto, in sinergia con il nome Obey (ma nella versione attuale il vino si chiama Six Eight Nine) la scena proposta in etichetta prende senso: un uomo, tra il vituperato e il sognante, tra il sottomesso e l’invaghito, guarda il Lato B di una donna che posa di fronte alla fotocamera esibendo un corpo da reato, indossando calze dalla trama decisamente originale e un vestitino di seta che parla da sé. Ma è della trama del “racconto” che vogliamo parlare: le possibilità sono infinite, a chi osserva l’etichetta viene delegata la scelta di optare per una storia puramente (!) sentimentale, una liaisòn vagamente sardo-maso, un tramesto di amore e schiavitù del sesso, oppure erotismo e basta, sfumature di grigio (e di rosso) e quant’altro ammesso e concesso. Certo che l’immagine in etichetta è quanto meno ardita, si fa notare, si fa commentare, fa pensare, stimola la fantasia. Anche per quanto riguarda i numeri che formano il logo aziendale la questione è morbosa e va esplorata con attenzione, diciamo così, maniacale.
Infatti mentre il rational del produttore è molto elevato, e tratta di numerologia cinese, il logo che contiene i tre numeri somiglia molto a un 69 (lo riportiamo qui sotto a sinistra), essendo il numero centrale, l’8, praticamente nascosto tra gli altri due. Bel logo comunque, ben progettato, sinuoso ed elegante. Vediamo quindi cosa dicono (o cosa vorrebbero dire) i numeri in questione (testo del produttore): “The number 6 in chinese culture represents happiness or fluidity. It allows us to flow through life with positive thoughts and energy and is also associated with luck and success in the business world. The number 8 in chinese culture represents wealth or prosperity.
The perfect symmetry of the number implies limitless possibilities and evokes balance and enlightenment. The number 9 in chinese culture represents longevity or eternity. Traditionally associated with emperors, the largest single digit is believed to be the luckiest of numbers and inspires harmony and balance in life”. Detto questo, la mente che ha progettato questo episodio da film ha certamente qualche anfratto nascosto e romanzesco. Ma il fatto che ne stiamo parlando dà ragione al cervellotico designer.


Guerrieri Furiosi e Vini Virtuosi

Mandricardo e Doralice, Nerello Mascalese e Catarratto, Baglio Aimone.

Le belle illustrazioni di questi due vini sono la prima fonte di attenzione dove “abbeverare” l’occhio. Ed è un fattore molto importante. Colore e qualità dell’esescuzione, nonché l’utilizzo di inchiostri speciali consentono un impatto iniziale che trasmette accuratezza e maestrìa, oltre agli aspetti legati alla tradizione che subito seguono. Le due figure in questione, infatti, sono due personaggi dell’Orlando Furioso, adeguatamente stilizzate, diciamo pure modernizzate, mantenendo però i tratti “antichi” che appartengono alla tradizione. I due personaggi sono anche, e giustamente, i nomi dei vini: Mandricardo e Doralice. Lo storytelling viene confermato nel sito del produttore (davvero ben realizzato) da brevi ma efficaci spiegazioni: “Mandricardo, feroce guerriero figlio di Agricane, Re dei Tartari, partito alla ricerca di Orlando per vendicare l’eccidio di Saraceni da lui commesso, si imbatte nella bellissima principessa Doralice e, invaghitosi della fanciulla, ne sbaraglia la scorta e la rapisce. La donzella, dopo un iniziale spavento, ricambia infine il sentimento amoroso”. E specularmente, per quanto riguarda il personaggio femminile il sito web di Baglio Aimone recita: “Doralice, bellissima principessa saracena figlia di Stordilano, Re di Granata, è promessa in sposa al moro Rodomonte. Nel corso del viaggio di ritorno verso casa, la ragazza viene sorpresa e rapida dal feroce guerriero Mandricardo a cui, superata l’incipiente apprensione, si abbandona per amore”. Una particolarità: per ulteriore vezzo grafico (e per attirare l’attenzione, logicamente) una delle lettere che compongono i nomi dei due personaggi è di colore diverso ed è “girata”. La “N” di Mandricardo e la “R” di Doralice. A parte il packaging, molto “ottico” e ben realizzato, dobbiamo dire che la scelta dei nomi (i complimenti vanno all’autore dell’Orlando Furioso, Ludovico Ariosto) è davvero particolare: oltre ai citati Mandricardo, Doralice, Agricane, Stordilano, Rodomonte, anche quello dell’azienda ha la sua originalità. Aimone infatti viene spiegato così: “I nomi della nostra azienda e dei nostri vini traggono origine dai personaggi della tradizione cavalleresca, trasportati poi nella tradizione siciliana dall’Opera dei Pupi. Il primo poema epico fu proprio “I quattro figli di Aimone”  del XIII secolo, da cui nacquero i Paladini e le loro gesta, narrati da Ariosto e Boiardo nei romanzi Orlando Furioso ed Orlando Innamorato. Insomma delle belle storie nella storia. E il vino ci guadagna.

Spumanti Tempestosi da Nord a Sud

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Tempesta, Metodo Classico (Grecanico Dorato), Santa Maria La Nave.

Il nome “Tempesta” è sicuramente (per analogia) sinergico con il nome dell’azienda, Santa Maria La Nave, sita in provincia di Catania (ove la zona di coltivazione, siamo sull’Etna, veniva anticamente chiamata “La Nave” per la forma geomorfologica che poteva ricordare una imbarcazione). Ma questa accezione porta con sé anche un significato ben preciso, anzi, più d’uno. Vediamo prima come viene “giustificato” nel sito del produttore: “Tempesta, il cui nome evoca le condizioni metereologiche estreme in cui vivono i nostri vitigni a 1100 metri di altitudine, ma anche alla forza del mare in cui si immerge il nostro vulcano”. Abbiano quindi “La Nave”, abbiamo il mare (poco distante), abbiamo le condizioni atmosferiche a volte “burrascose”. Ma è proprio quest’ultimo significato che emerge: tempesta, se digitato su Google evoca innanzitutto immagini di tregenda (sostanzialmente di naufragio) e Treccani conferma con questa definizione: “Violenta perturbazione atmosferica, di varia estensione e durata, caratterizzata da vento fortissimo, e che differisce dal temporale per la mancanza di scariche elettriche atmosferiche; in particolare ‘tempesta di mare’ caratterizzata da violento moto ondoso...”. Nella lingua parlata, inoltre, soprattutto nel nord Italia, la tempesta è propriamente la grandine. Ora sappiamo quale nemico possa essere la grandine per le coltivazioni d’uva.
E in generale quale sia il timore dell’uomo nei confronti della violenza del meteo. Questo per dire che al di là delle affinità, non siamo di fronte a un nome molto positivo. Evocativo sì, positivo no. Aggiungiamo che la nostra ricerca ha generato la scoperta dell’esistenza di un altro Brut (anch’esso da Metodo Classico ma da vitigno differente, lo Chardonnay) che si chiama “Tempesta”. Viene da Tenuta Maddalena, diametralmente opposta e molto distante da Santa Maria La Nave: l’azienda si trova a 20 km dal lago di Garda, nella Lombardia mantovana. In questo caso la tempesta sarebbe di lago (non meno pericolosa di quella di mare, per le imbarcazioni e i malcapitati naviganti). Ringraziamo il blog Parole di Vino per la foto in alto a sinistra, per ora l’unica disponibile in rete, in quanto lo spumante in questione (la Tempesta di Santa Maria La Nave) è stata una novità del Vinitaly 2019.

Dipende Tutto dal Nome

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Tutto dipende da dove vuoi andare, 
Langhe Rosso, Gabriele Scaglione. 

Non si può parlare di nomi in questi caso, ma di frasi. Sulle etichette di questo produttore piemontese, infatti, campeggiano lievi delle frasi, delle esortazioni, delle “micro-storie”. Per di più scritte in corsivo, a confermare il senso di narrazione. Vediamone alcune: “Tutto dipende da dove voi andare...” (Langhe Rosso), oppure “Passeggiando la vigna...” (Langhe Nebbiolo), o ancora “Ottimo con il pesce e...” (Roero Arneis). Nel proprio sito internet il titolare dell’azienda, Gabriele Scaglione, giustifica così questa originale scelta: “Con questa gamma di prodotti ho voluto comunicare con un po’ di ironia, parlando di favole e sogni, di passeggiate e sensazioni o addirittura consigliando in modo eclatante un’abbinamento. Tutto questo quasi per sdrammatizzare o eliminare alcuni schemi che il vino il più delle volte porta con sé. Questi vini vogliono esprimere in modo netto tutte le peculiarità dei vitigni, con invecchiamenti meticolosi fatti per garantire che ogni vino esprima al meglio il proprio carattere rappresentando e parlando del territorio”. In effetti queste etichette parlano, non c’è che dire. Per quanto riguarda il design vediamo che lo spazio disponibile è diviso in due: una parte, in alto, a sfondo bianco, con il nome del vino (le frasi) e una parte, in basso, con delle illustrazioni, anch’esse molto particolari, giocose, colorate, sognanti. Vediamo infatti pesci, fiori, conigli, orme, re e regine, mongolfiere, etc. Viene meno un certa serietà (che manifesterebbe affidabilità e tradizione) in favore di una ludicità moderna e scanzonata. A testimonianza di un certo Piemonte che vuole rinnovarsi. Al gradimento del pubblico il giudizio finale.
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Un Trabocchetto in Bottiglia

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Mottagrossa, Pecorino, Terre d’Erce.

Il nome di questo vino è in realtà il nome di una spiaggia nei pressi di Vasto, in Abruzzo. Non si tratta di un bellissimo nome, a livello fonetico e semantico, ma quanto meno è geografico, identifica una zona e un concetto di territorialità. Sulle spiagge abruzzesi (e anche su quelle molisane, più a sud) per pescare anche in caso di mare agitato, si usano ancora oggi dei particolari pontili, chiamati “trabocchi”. Ed è proprio uno di questi che è rappresentato sull’etichetta del Pecorino (vitigno) che vediamo qui in alto a sinistra. Non è la prima volta che viene illustrato un trabocco, ma questa etichetta ha una particolarità in più: la soluzione cartografica adottata. Il percorso del trabocco infatti (la passerella in legno che porta alla casetta dei pescatori) è intagliato nella carta dell’etichetta, lasciando quindi una piccola parte con il vetro “a nudo”. Questo accorgimento reca maggiore profondità alla percezione dell’immagine. E impreziosisce la bottiglia. Anche perché incuriosisce e rappresenta una raffinatezza stilistica. L’etichetta nel suo complesso è semplice, prevalentemente nero su bianco. Ma il gioco scenico, grafico e cartotecnico la rendono interessante. Ultima notazione per il nome dell’azienda: Terre d’Erce. Si tratta di una dedica a Erce, Dea della natura e dell’abbondanza, che dà il nome anche a Punta d’Erce, il promontorio dove ha sede l’azienda e i suoi vigneti.

La Magia del Mistero, la Semplicità dell’Acqua

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Il Rabdomante, Montepulciano d’Abruzzo, 
Feudi Bizantini.

Il nome e la rappresentazione grafica in etichetta di questo vino hanno un indiscutibile fascino. È l’effetto del mistero generato da quella parola, ormai in disuso, “rabdomante”, che porta però con sé un significato molto preciso, arcaico, interessante, coinvolgente e anche attinente (che forse è la cosa più importante). Vediamo quindi, secondo Treccani, chi è questo rabdomante: “dal greco ῥαβδόμαντις, chi esercita l’arte divinatoria servendosi di una verga magica; in particolare persona che avrebbe la capacità di scoprire vene sotterranee di acqua o metalli per mezzo delle indicazioni fornite da una sottile bacchetta biforcuta, tenuta più o meno orizzontale con le mani per le due estremità”. La “bacchetta magica” in questione è quella illustrata in etichetta a forma di “V” ed evidenziata, sotto, più in grande, da un inchiostro lucido. Si tratta quindi della capacita di trovare vene di scorrimento di acqua o sacche umide che soprattutto in certe condizioni di siccità, la pianta della vite deve andare a cercare, con le radici, per assicurarsi vitalità e nutrimento. Possiamo ben dire che il Rabdomante in questo caso è la vite. Per interposto significato, quindi, il vino stesso. Insomma che ci si creda o no, un po’ come per il corno “magico” dell’agricoltura biodinamica, questi fenomeni esistono e sono stati ampiamente provati e documentati scientificamente. L’etichetta è nera, con particolari in oro, che la rendono preziosa alla vista e alla percezione, al “lateral thinking” che ognuno di noi ha o dovrebbe avere. Il nome dell’azienda è ugualmente evocativo: Feudi Bizantini, in quanto il paese dove ha sede il produttore, Crecchio in provincia di Chieti, è uno storico sito bizantino dominato da un imponente castello. Feudi Bizantini è un bel nome per una azienda che vuole parlare di tradizione, cultura, storia.

Un Nome e una Etichetta Molto “Composti”

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Charpinò, Chardonnay e Pinot Grigio, 
Antica Corte Bagolina.

L’interpretazione di questo nome è facile, si tratta dell’unione dei due nomi dei vitigni che compongono il prodotto: Chardonnay e Pinot (in questo caso Grigio). Molto spesso si assiste a “operazioni” creative di questo tipo. L’unione di due parole, attinenti al vino, che vanno a formare una nuova parola, un neologismo, che subito (o quasi subito) riconduce a qualcosa di inerente alla produzione in oggetto. In questo caso, “Charpinò” non è proprio immediato, potrebbe far pensare a qualcosa di dialettale, di psudo-francese, a un oggetto o un accessorio di abbigliamento (assona con sciarpa), ma in pratica la notorietà estrema dello Chardonnay aiuta a trovare subito il bandolo della matassa. Non si tratta di un nome geniale, ma che a livello commerciale potrebbe anche funzionare. L’etichetta nel suo complesso appare elegante, l’immagine, probabilmente una illustrazione (ci scusiamo per la fotografia poco definita ma è l’unica che attualmente si trova in rete, compreso nel sito del produttore: solito problema, le aziende non pubblicano foto qualitative dei prodotti e questo va a loro discapito, naturalmente), raffigura la maestosa coda di un pavone. Elemento naturale valorizzante, nobile, arcaico, classico, molte volte ripreso nei dipinti antichi e comunque dotato di una proprio fascino estetico se non gentilizio. Il logo aziendale in alto è tipicamente uno stemma, di quelli che si vedono spesso sulle facciate dei palazzi nobiliari di tutta Italia. Particolari in oro, fondo nero, tutto abbastanza elegante e piacevole.

La Sacralità del Marketing Fatto Bene

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Hallowed Ground, Blend di Rossi, T-Vine Winery.

Abbiamo notato questa etichetta non tanto per il nome del vino (ma ci torniamo più avanti), quanto per il nome dell’azienda vinicola. E per la sua concettualizzazione in etichetta. Quello che si vede subito, guardando la bottiglia a colpo d’occhio, è una “T”, e osservando meglio ci si accorge che è una lettera fatta con un tralcio, una vite simil-alberello. Si vedono, nell’illustrazione ben realizzata, le tipiche screziature del legno di vite. È quasi umana quella vite a forma di “T”. E in più ricorda una croce, qualcosa di sacrale. Volendo aggiungere altri elementi e commenti positivi possiamo notare che la pronuncia di “T-Vine” sarebbe “tivàin”, molto simile, in inglese a “Divine” cioè divino. Solo un gioco di parole? Non solo. Il tutto “sta insieme” molto bene. È semplice, diretto, significativo. A livello tecnico è molto bella anche la carta dell’etichetta, rugosa e “terrosa”, pugnace e sincera. In generale il packaging design è ordinato, rurale ma elegante. La S celta dei caratteri di scrittura è ottimale, i colori sono equilibrati, non c’è nulla di più e nulla di meno di quello che serve ad assicurare una percezione valoriale e coerente.
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L’azienda si trova in California e produce un serie di vini di ampio commercio. Insomma fa le cose per bene a partire dall’immagine che vuole fornire di sé. Il nome del vino in questione è anch’esso interessante: “Hallowed Ground” che tradotto sarebbe Terreno Consacrato, in quanto le uve che servono a produrre questo vino vengono da un antico vigneto che gli avi degli attuali produttori avevano scelto e “consacrato” alla loro iniziale impresa. Sempre con il significato di indulgente sacralità della quale è pervasa tutta la comunicazione dell’azienda. Qualcosa da imparare c’è, in fatto di vino, anche dagli americani. Quanto meno per l’advertising.

Il Capoluogo del New Mexico è Ghemme

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Santa Fé, Ghemme DOCG (Nebbiolo e Vespolina), Ioppa.

Perché chiamare “Santa Fé” un vino italiano, dell’Alto Piemonte, Docg e anche molto tradizionale? Allora vediamo... Santa Fe (senza accento) è una cittadina, capitale dell’omonima contea sita nello stato del Nuovo Messico negli Stati Uniti d’America. E per la cronaca è anche il nome di un modello di autovettura (un Suv) della Hyundai, casa automobilistica coreana. Santa Fe significa (dallo spagnolo) “Santa Fede”. Stesso significato in portoghese ma con accento. Detto questo, il vino di cui stiamo parlando nasce in provincia di Novara a Romagnano Sesia ad opera di una azienda storica che data la propria nascita al 1852. Certo la “fede” è radicata anche nelle province piemontesi (la fede religiosa come la fede nel vino in quanto prodotto autoctono indispensabile in tavola) ma l’uso di questa terminologia ispanica risulta come  minimo strano (e non trova una spiegazione nel sito aziendale, almeno allo stato attuale). Da notare che i nomi degli altri vini di questo produttore sono molto tradizionali: sono espressi in dialetto locale o comunque richiamano luoghi o caratteristiche organolettiche. Ad esempio l’altro Ghemme Docg di questa casa vinicola si chiama “Balsina”, antico nome della zona dove si trova il vigneto. Un altro nome di un vino rosso di Ioppa è “Mauletta”, variante ampelografica del vitigno Vespolina. Il design dell’etichetta è semplice, pulito, piuttosto arcaico nella scelta dei caratteri di scrittura, generando un’etichetta molto classica, comunque gradevole nella sua linearità. Bello e ben realizzato lo stemma di famiglia con i due orsi.

Montalcino Porta Fortuna

Fortunello, Sangiovese, Podere La Fortuna.

Certo che possedere un podere (soprattutto su terre estese) nella zona di Montalcino, oggi è diventata una vera fortuna. 100 anni fa i contadini viticoltori facevano ancora “la fame”. Oggi un ettaro a Montalcino è diventato una miniera d’oro. Ma non è per questo che l’azienda in esame si chiama “La Fortuna” e questo sangiovese si chiama “Fortunello”. Il nome risale a quando il capostipite della famiglia Zannoni decise di avviare l’attività vinicola. Il nome “Fortunello” riporta a sensazioni positive. Si dice fortunello qualcuno che le imbrocca tutte, al quale la Dea Bendata dedica molte attenzioni, diciamo così. E quindi chi lo legge, chi lo porta a tavola, ritiene di poter ricevere un po’ di quei benefici. Vieppiù che l’azienda si chiama “Podere La Fortuna”, confermando il concetto. Quindi con i nomi siamo a posto, sia pure con estrema semplicità di concetto che in ogni caso non fa mai male. Veniamo all’etichetta: siamo a Montalcino, uno dei luoghi più classici della Toscana. L’80% delle aziende del territorio riporta in etichetta il disegno di un casale antico. Ed eccolo qua, anche in questo caso. Delineato da un disegno al tratto chiaro (argentato) su fondo scuro (sempre elegante). Scritte in oro completano un “quadretto” ordinato, centrato, scontato. Lo schema è didascalico, didattico, elementare, di certo non creativo.