Buon Vino in Vestito Vecchio

Ciass Negher, Marzemino e altri locali, 
Agricola Vallecamonica.

E’ vero, siamo agli antipodi del packaging moderno e strutturato. Però il vino è buono. Molto buono. Si tratta di un calembour infinito, si entra in un loop argomentale senza soluzione. Il prodotto è valido ma si presenta non troppo bene. Che importa, dicono in molti, dentro c’è vino buono, ed è quello che conta. Gli esteti ribattono che anche l’occhio vuole la sua parte e che presentarsi col vestito bello a volte facilita le cose in generale. Opinioni a confronto. Ma veniamo a questa etichetta. Il nome del vino è “Ciass Negher”, che in dialetto bergamasco “esprime il gradimento di un buon bicchiere di rosso locale” (dal retro etichetta scritto dal produttore). Siamo in una zona insolita per il vino: la Val Camonica. Confermato da quel “Civitas Comunnorum” (il paese di Cividate Camuno, provincia di Brescia) scritto alla base. La foto in bianco e nero è sgranata, sembra presa da vecchi archivi, in realtà è il frutto di una elaborazione di una foto attuale. Mostra vigneti, vuole “anticare” il presente per renderlo più tradizionale. Operazione discutibile. Il marchio è bello, in giallo oro, lo vediamo in alto, raffigurante, sembra, degli alfieri combattenti. Popolare ma condivisibile la frase in latino in basso: “Edamus, Bibamus, Gaudeamus”. Il produttore, Alex Belingheri, crede nell’impresa. E noi, per incoraggiarlo, non possiamo che dire “in alto i calici”!

Scioglilingua delle Venezie

Merlrose, Rosato Igp Venezia Giulia, 
Isola Augusta.

Il nome di questo rosato friulano genera qualche perplessità: “Merlrose”. La lingua, nel pronunciarlo, non può evitare di “arrotolarsi”. Difficile quindi la pronuncia. Facile l’interpretazione semantica: si tratta di una doppia citazione, una per il vitigno che compone il vino, il Merlot, l’altra per la celebre saga televisiva che si chiamava “Melrose Place” (e qui la lingua trova più agio) andata in onda negli Stati Uniti dal 1992 al 1999 (successivamente anche in Italia). Nella sintesi narrativa di questa Soap Opera troviamo (come in molti altri casi) un intreccio di trame amorose. Forse sarà questo il legame concettuale che lega questo vino rosato al nome della serie televisiva. Rimane il fatto che per chi non frequenta i serial, pronunciare e comprendere il nome “Merlrose” può risultare difficile. Per il resto l’etichetta si presenta in modo molto classico, ordinata e centrata, con caratteri di scrittura eleganti e leggibili. Curiosa la dicitura “La dote migliore di questo vino è la tipicità che rivela”, un invito a cogliere valori legati al territorio che nelle zone pianeggianti del Friuli, a dire il vero, sono più difficili da apprezzare. E infine una nota sul nome dell’azienda, Isola Augusta: non ci troviamo chiaramente in una zona di mare, che per altro non è molto lontano, bensì il riferimento all’isola è dovuto al fatto che le terre coltivate si trovano tra due fiumi, il Tagliamento e lo Stella. Augusta perché gli antichi romani fecero passare di qua la via Annia, che collegava Roma ad Aquileia.

Evocazioni Egizie in Napa Valley

Ankh, Cabernet Sauvignon, Ankh Wines.

Tutta l’immagine coordinata di questa azienda californiana si fonda su un segno, un simbolo. E il suo nome, la parola che lo definisce. Il logo è noto: si tratta di un emblema egizio, riportato in primo piano sull’etichetta del vino iconico dell’azienda, un Cabernet Sauvignon. Cosa racconta il produttore al riguardo? “Ankh, the ancient Egyptian symbol for 'life', was revered as being the key to immortality. To be bestowed with an ankh was to be given the gift of eternal life“. Coinvolgente, apotropaico, un po’ magico. Anche perché il racconto continua, sulle pagine web aziendali, in questo modo: “How wine sa ed the world: in Egyptian mythology, Sekhmet was a fierce and violent warrior goddess. The sun god Ra had become angry because mankind was not following his laws, so he sent Sekhmet to destroy the people. The fields ran with blood, but the sight of the carnage caused Ra to repent. He ordered Sekhmet to stop, but she was in a blood lust and would not listen. So Ra tricked her by pouring jugs of wine in her path. She gorged on what she thought was blood and became so drunk that she slept for days. When she awoke, Sekhmet had transformed into the benevolent goddess Hathor; her blood lust had disappeared, and humanity was saved. Every year in what is now the month of August, Egyptians held a great festival to celebrate the Drunkenness of Hathor. This massive event was the largest of its day, and coincided with the start of Akhet season - when the Nile River would begin to rise. Tens of thousands of people from all across Egypt traveled to this great event. Today, we honor the saving of mankind by releasing a new vintage of Ankh during the Akhet season, and by placing an icon representing Hathor on every bottle”. Certo un po’ stereotipato il riferimento al mondo egizio, sfruttato in mezzo mondo e in ogni settore per imprimere il fascino del misterioso. Però il simbolo a livello visivo funziona: impatta e valorizza.

Il Sogno di un’Idea Romantica

Nubìvago, Bombino e Sauvignon, 
Poggio della Dogana.

Il nome di questo vino meriterebbe una bottiglia sontuosa, qualcosa di epico o come minimo di poetico. Purtroppo nulla c’è di poetico in un tappo a vite e nemmeno in un Bombino (vitigno associato alla grande famiglia dei Trebbiani). Ma questa insolita accezione merita davvero un approfondimento. Ebbene, nel fantastico “Libro delle parole altrimenti smarrite” di Sabrina D’Alessandro, figura anche il termine “Nubìvago”, parola che viene proposta col significato di “colui che vaga tra sogni e idee”. In aggiunta viene citato un brano di C. Linati: “Egli, il nubìvago, l'abitatore delle splendide spelonche istoriate, il re decadente che si era nutrito l'animo di emozioni squisite e di chimere libresche, nemmeno sospettava che la terra fiammeggiasse tanta bellezza, furia e maestà”. C’è tutto un mondo in questa parola: c’è romanticismo e sufficiente follia creativa da renderla davvero unica. E nonostante sia inusitata più che desueta, si tratta di una parola, qui diventata nome di un vino, che suona bene, attrae, incuriosisce, si fissa nella mente con cementata allegria. E cosa può essere più sognante e genuinamente “ideologico” di un vino? Peccato che stiamo parlando “solo” di un vino bianco, di quelli congedabili come “da tavola”. Perché l’anima leggera e al tempo stesso pregnante che si porta dentro questo nome è di quelle destinate a incidere nella memoria.

Bottigliate Sconsigliate ma Illustrate

Origini, Chianti (Sangiovese e Merlot), Podere di Pomaio.


Podere di Pomaio, che si definisce “Green Winery”, ponendo questa dicitura sotto al proprio marchio, presenta questo Chianti dalle fattezze discutibili. Non tanto per il design dell’etichetta: fondo nero, immagini in negativo, impattanti, parole in bianco, ben leggibili. Quanto per il soggetto rappresentato nel packaging: due poco “gentiluomini” che si affrontano brandendo bottiglie di vino (si immaginano vuote). Va bene che la fama di rissaioli dei toscani, e in particolare dei senesi, è tutt’oggi immutata, ma questa immagine lascia attoniti. Non vediamo nulla di positivo nel mostrare due persone che si prendono a bottigliate. L’uso delle bottiglie di vino, almeno quello consigliabile, è di essere svuotate a tavola, senza rancori o ardori. Si fatica anche a collegare il nome del vino al resto dell’etichetta: “Origini”: se le origini sono quelle che riportano combattimenti pericolosi allora meglio dimenticarle. O accantonarle. Forse sarebbe bene pensare a un “restyling”. Almeno questo è quello che pensiamo noi.

Eleganza Classica con Trattamenti Moderni

Zibibbo, Magaddino.


Spesso le aziende vinicole dichiarano che i propri intenti risiedono tra la tradizione e l’innovazione. Per la tradizione, nel nostro paese non ci sono molti problemi, basta seguire le orme degli avi. Per l’innovazione la questione si fa più complicata. Soprattutto nel sud d’Italia dove il radicamento culturale sa più di ostinazione piuttosto che di tradizione (ma anche al nord non si scherza: il Piemonte è una delle regioni più conservatrici del Bel Paese). Ed ecco un valido esempio di innovazione (si parla di packaging, come sempre in questo blog). L’etichetta dello Zibibbo dell’azienda Magaddino di Castellammare del Golfo (Trapani), che si presenta con il volto stilizzato di una dama con cappello. Per colori (inchiostri speciali) e trattamento grafico comunica sicuramente modernità sia pure con un’aura di romanticismo di un tempo. L’operazione non è semplice: tenere il piede in due scarpe è forse possibile, ma bisogna essere bravi equilibristi. E di fatto, così come nella organizzazione di una azienda vinicola e nella conseguente produzione di vino, riuscire a coniugare la storia con il futuro, salvaguardando entrambi, è una tentazione per molti, ma una riuscita soluzione per pochi. 

Barbe Biologiche in Formato Famiglia

BarbaBio, Vino Rosso, 
Tenuta Barbadoro.

La Tenuta Barbadoro produce il vino BarbaBio. Lineare. Consequenziale. La confezione è quella dei “wine in box” da 5 litri. Formato che stona già un po’ con il concetto di biologico. Ma non fermiamoci qui: i preconcetti non devono alimentare alcun parere in proposito. I vari giochi cromatici e di lettering che sovrintendono al packaging di questa scatola evidenziano soprattutto la parola “bio”, cavalcando una moda che sta già perdendo colpi (quanto tutto è bio, niente è veramente bio). Viene altresì estrapolata la parola “barba” (componente del nome del produttore) e sotto al complessivo “BarbaBio” si legge la frase “è anche il Mio”. Non conosciamo le ragioni della “M” maiuscola, di certo la frase risulta molto generica laddove tutto è di tutti, basta avere i soldi per acquistarlo. Colori forti, marchio bio in verde pisello in buona evidenza sulla sinistra in basso, utilizzo di caratteri di scrittura moderni e puliti (quindi ben leggibili). In alto, in piccolo, una precisazione: la Tenuta Barbadoro produce vino dal 1860 epoca durante la quale essere “biologici” forse significava semplicemente spargere nelle vigne del buon concime.

A Paso di Danza (sì, con una “s”)

Etichette vino, vino, branding,
Pasotismo, Merlot, Paso-Primero.


La parola ”pasotismo”, in spagnolo, deriva da “pasota” che significa “ciabattone” e “menefreghista”. Ne consegue il significato di “indolenza” o atteggiamento che se ne frega di tutto e di tutti. I dizionari riferiscono  così anche se, a ben vedere, l’etichetta di questo merlot da vendemmia tardiva, coltivato in Catalogna, trasmette anche altre sensazioni. Si vedono passi di danza, forse di tango. Oppure è una festa. Certo molto colorata. “Pasotismo” potrebbe avere anche un collegamento, o rappresentare un gioco di parole con “Paso-Primero”, nome del produttore. Comunque l’etichetta, anche per chi non conosce il significato del nome in questione, si fa notare. Semplicità e cromatismi, originalità che si traduce in curiosità. Si vede anche un uccellino su una scala, chissà. In questo caso a noi interessa il lay-out estremamente “asciutto”, ma con quelle note di colore che fanno emergere un certo estro creativo. Artistico. Forse musicale. Certamente conviviale.