Nice To Meet You, Roero

U R Nice, Roero Arneis, Cantina Taliano.

Stiamo parlando di una cantina piemontese che ha sede nella regione vinicola del Roero (a sinistra del fiume Tanaro, laddove a destra c’è Alba e tutto il suo circondario delle Langhe). Eppure troviamo sull’etichetta di uno dei vini dell’azienda, un nome in inglese, che per di più gioca con la pronuncia delle lettere “U” e “R”. Il nome di questo Arneis, infatti, in lettura risulta essere “U R Nice”, mentre in pronuncia sarebbe “you are nice”. Insomma un rebus. Niente di complicato, se non fosse che davvero stona vedere questo inglesismo sull’etichetta di un vino tipico e molto geolocalizzato (il bianco Roero Arneis, appunto). Per la cronaca, il Roero prende il nome dalla casata della omonima famiglia medievale che dominò la zona nei secoli scorsi. Ma torniamo al packaging-design (anche questo è un inglesismo, ma diciamo pure ampiamente adottato e accettato per parlare di comunicazione). Archiviato con dolore il nome, possiamo vedere un lavoro grafico di intaglio che disegna un ramo, forse un pampino, forse le curve dei filari, su fondo bianco. L’effetto è elegante e originale al tempo stesso. Alla base il logo e nome dell’azienda, dove la “T” di Taliano riproduce un calice: esperimento non perfettamente riuscito. Nel complesso una buona etichetta dal punto di vista attenzionale. Non giustificato ed efficace allo stesso modo il nome del vino. 

Storia e Territorio: Contenuti di Interesse

Steccaia, Vermentino e Sauvignon, 
La Regola.

Il nome di questo vino che in primis potrebbe essere ricondotto all’infinita serie di “…aia” dei vini toscani (Sassicaia su tutti) in realtà ha una precisa ragion d’essere, storica, culturale e “funzionale”: siamo in Maremma (la sede dell’azienda La Regola è a Riparbella, provincia di Pisa) dove notoriamente sono stata eseguite, negli anni, opere di bonifica. Vediamo cosa racconta il Fai al riguardo: “Il Ponte Tura e la Steccaia, rappresentano l'opera idraulica più importante della bonifica della Maremma, attuata da valenti scienziati e tecnici. Ponte Tura è il nome che oggi si dà all'edificio che, con questa forma, fu costruito nel 1914. Con il termine Steccaia si nominarono le derivazioni di acqua dal fiume per l'alimentazione di fossi e canali. Il termine deriva dal fatto che le prime opere di questo tipo erano costruite con palificate e gabbie di legname, ed è poi rimasto in uso per indicare l'opera di derivazione anche quando la modalità esecutiva sostituirà le parti in legno con calcestruzzo e muratura. La Steccaia consentiva, tramite appositi macchinari, di manovrare il complesso sistema di chiuse e cateratte lungo il tratto terminale del fiume Ombrone, garantendo così, grazie alla regolamentazione delle acque, di recuperare terreni da destinarsi all'agricoltura. Inoltre, la Steccaia rappresenta ancora oggi la località dove è ancora presente questa opera di presa”. Detto questo possiamo passare a commentare la grafica in etichetta: fondo bianco, molto semplice, sopra al nome del vino vediamo la sagoma di una leggiadra figura femminile dalla chioma fluente che regge alcuni simboli dei quali però non è dato a capire e a conoscerne l’origine. Certamente particolari, sia il nome, sia il design. Etichetta che si distingue con personalità e, come detto all’inizio, con una storia vera e interessante.

Di Favorita e d’Azzurro

Birichin, Favorita, Bocchino.

Dalle pagine del produttore, una famiglia piemontese, estrapoliamo la definizione di questo vino: “il sapore è di beva scorrevole, snella e vivace, discreta sapidità, piacevole, agrumato e rinfrescante. Perfetto per l’aperitivo, da provare con il sushi e il cibo Thai”. Il suo nome è “Birichin”, forma dialettale per birichino o biricchino (con due “c” è ritenuta forma diffusa ma inesatta), di origine emiliana (ma qui siamo in Piemonte, a Canelli, nonostante i riferimenti a cibi esotici). Il nome del vino deriva probabilmente da “briccone” e sta per “bambino vivace e impertinente”. Il vino in questione è frizzante e quindi l’accezione calza, sia pure in modo di certo non originale (si trovano molti altri vini con questo nome). Nell’etichetta vediamo in alto il cognome (e marchio) della proprietà, mentre in basso la grafica propone dei grovigli blu, azzurri e argento che non hanno ragion d’essere se non per pura decorazione (forse sono le trame disegnate da un bambino piccolo?). Il tutto comunica sì qualcosa di giovane, spicciolo, veloce, semplice, fruibile, ma con una modalità fin troppo approssimata. Poco spazio al concettuale, non apprezzabili le tonalità azzurre che portano al mare (eventualmente) o a qualcosa di acquatico piuttosto che di vinoso. Tappo a vite che non è vita.

Il Coraggio del Minimalismo Estroso

Quest One, Petit Verdot con Merlot e Cabernet, 
Du Toitscloof.

Questa volta parliamo di Quest, marca di vini sudafricani. A parte il gioco di parole, per questo “One” siamo di fronte a un esempio di etichetta che sembra non dire nulla, e invece comunica molto. Insomma, nel meno c’è il più. O come si voglia girare la frittata, un niente cambia tutto. Soprassediamo sul nome dell’azienda, non riusciamo proprio a leggerlo (e ci abbiamo messo un po’ per scriverlo). Passiamo al design, pluripremiato, di questo blend di rossi “Bordeaux Style”. Fondo bianco. In primo piano anche come dimensioni, una grande “Q” stilizzata, in parte con un decoro in oro, in parte con la modalità classica, in nero, della scrittura di un carattere di stampa. Al centro di questa lettera un piccolo numero, 18, l’annata del vino. Sotto troviamo unicamente il nome della linea di vini, “Quest” (ricerca, investigazione, in inglese) e sotto ancora, molto piccolo, il nome del vino: “One” (nome completo: “Quest One”). Certo, imita il celebre Opus One, ma l’elaborato grafico merita davvero un encomio. Per la pulizia, per i particolari, per il coraggio di non essere ridondanti, il vezzo della sobrietà che però trasmette molti messaggi: eleganza, competenza, estro, affidabilità, creatività, leadership e altro ancora.

Nomi da Non Nominare

Serpullo, Montefalco Rosso, Fongoli.

Questa è la storia di Serpullo, Bicunsio e Fracanton. Potrebbero essere tre personaggi della famosa novella di Gargantua e Pantagruele. Nomi strani? Sì. Difficilmente memorabili? Anche. Siamo a Montefalco, patria del Sagrantino che già è un vino scontroso. Se poi aggiungiamo che i nomi non sono certo “amichevoli” (semanticamente parlando), ecco che la faccenda si complica. Il produttore si chiama Fongoli, che pure non si sa bene come pronunciare, e i nomi dei vini (di questi tre, tra quelli in gamma) risultano ostici. Andando a cercare si scopre che il serpullo è una pianta aromatica assimilabile al timo. Per quanto riguarda Bicunsio e Fracanton non abbiamo tracce. Potrebbero essere dei nomi locali di qualche antenato o mito di quei luoghi. Sono scritti in rosso, quindi risultano come assoluti protagonisti dell’etichetta, che per altro non spicca in originalità e in design. Il carattere di scrittura, arcaico, trasporta in un mondo contadino medievale in stile “Non ci resta che piangere” (il film con Massimo Troisi e Roberto Benigni). A parte tutto la scelta dei nomi non sembra essere tra le più felici.

Stranezze dal Palatinato (Anche i Tedeschi si Sentono Creativi)

SwagWine, Rosé, Weingut Bergdolt-Reif & Nett.

Possiamo chiamarlo esperimento. Possiamo definirla come una “stranezza”. Insomma questo vino e la sua etichetta sorprendono (non necessariamente in senso positivo). Il vino è un rosato con passaggio in botti di legno (!) che nasce da uve Pinot Noir, Merlot e Shiraz coltivate in Germania, nel Palatinato. L’etichetta è stata studiata da Studio Biegert (agenzia di Design) e si presenta bella strana. Un uomo in costume da bagno cavalca una tigre sprecando vino da una bottiglia. L’illustrazione si trova al centro di un triangolo caratterizzato da una cornice che lo fa somigliare a un francobollo. Alla base il nome: SwagWine (nome di linea, più che del vino vero e proprio) che dovrebbe significare “malloppo” in inglese. Il “rational” che si trova nel sito web recita: “Vino artigianale con stile… perché anche l’occhio beve” (tradotto dal tedesco). Di fatto le etichette proposte da questo rivenditore sono alquanto strane e assolutamente difformi una dall’altra. Tornando a quella qui raffigurata concludiamo accennando ai colori molto vivaci che rendono la bottiglia un prodotto da consumo allegorico e festaiolo, con una netta percezione da bibita (potrebbe benissimo essere un’etichetta per una birra).

L’Insostenibile Brillantezza del Packaging

Sclint, Rosato (Pinot Nero e Nebbiolo), Poderi Colla.

Esistono delle parole che possono essere definite onomatopeiche (da onomatopea). La descrizione di Treccani dice: “modo di arricchimento delle capacità espressive della lingua mediante la creazione di elementi lessicali che vogliono suggerire acusticamente, con l’imitazione fonetica, l’oggetto o l’azione significata”. Siamo qui di fronte a una parola, il nome del vino, di questo genere. Sia pure pescando nella dizione dialettale. In pratica, per chi conosce il dialetto piemontese (ma anche chi non lo conosce, con un po’ di fantasia, ci potrebbe arrivare), “Sclint” fa riferimento alla trasparente brillantezza del colore di questo vino. In pratica sclint significa brillante. A noi, ma è soggettivo, ricorda il titinnìo di un bicchiere di cristallo. Comunque sia, si tratta di un nome originale, che in questo caso viene penalizzato da un carattere di scrittura non chiarissimo (a dispetto del nome stesso, ironia della sorte ma anche delle scelte grafiche). Gli altri elementi che compongono questa etichetta: il nome del produttore, in alto, “Poderi Colla”, non bellissimo perché ricorda un materiale davvero poco commestibile (diranno in molti: “si tratta del cognome della famiglia titolare…”, e noi rispondiamo che non è certo un obbligo chiamare un’azienda col cognome dei proprietari, dipende, appunto, dal cognome). Sullo sfondo del packaging si nota un drago leonardesco, davvero bello, ma purtroppo l’unico elemento lasciato in secondo piano. Per il resto si assiste a una impaginazione fin troppo normale.

La Mente Riceve un Impulso Tagliente

TEN, Arneis e altri vitigni, Massimo Rattalino.

Strana etichetta questa, per un produttore di Barbaresco (quindi soprattutto Nebbiolo), che si diletta anche con un bianco, blend di Arneis, Sauvignon e Riesling. Fa parte della linea aziendale “Tradizione”, caratterizzata da nomi che sono numeri: 42 il Barbaresco, 34 il Barolo, 27 il Nebbiolo d’Alba, etc etc, fino ad arrivare al 333 per il Barolo Chinato. Forse una passione per il gioco del lotto. Sulle etichette, per la cronaca, i numeri sono scritti in parole. Ma veniamo a questo “TEN”, anch’esso un numero in parole, sia pure in inglese. Lo stile dell’etichetta si presenta subito come innovativo, stiloso, “moderno”, ma la sensazione è che questo design potrebbe andare bene per un dopobarba più che per un vino. Ma non ci lasciamo scoraggiare, qualcosa di buono c’è. Ad esempio il fondo scuro, eleganza, formalità, stile. E quel modo di scrivere il nome del vino con delle aste grafiche a comporre la parola. Certo molto asettico, affilato, distaccato, assoluto e assolutista. Viene lasciato molto poco all’emozione: prevale una linearità molto fredda. Forse più di altri i vini piemontesi sentono il bisogno di una rivalsa, per distaccarsi da quel mondo sabaudo che si portano dietro da generazioni. 

Rosato di Mare, Easy ‘nd Social

Oltremare, Rosato, Piandimare.

In prima battuta riesce difficile distinguere il nome “Oltremare” (nome della linea di vini) da “Piandimare” (nome della cooperativa vinicola in questione). Certo, Oltremare è scritto in grande e al centro mentre Piandimare figura più in piccolo e alla base. Ma perché chiamare “Oltremare” la linea di vini alla presenza del pre-esistente nome aziendale “Piandimare”? Si verifica, logicamente, un corto circuito semantico, fonetico e mnemonico. Come dire che il mare c’é, questo si è capito, ma forse ce n’è troppo. L’etichetta di questo rosato “da uve rosse locali” (si presume il Montepulciano d’Abruzzo, soprattutto) fa parte di una nuova linea giovane che nelle intenzioni del produttore, con sede in provincia di Chieti, dovrebbe comunicare un senso di libertà, freschezza, facilità di acquisto e di beva. A parte il bisticcio dei nomi (di linea e d’azienda) notiamo che il design si basa su un fondo bianco sul quale vengono applicati degli elementi grafici. Su tutti spicca una specie di reticolo che nelle intenzioni di chi lo ha ideato “rappresenta il connubio tra la tradizione vitivinicola abruzzese, il tendone (tipo di coltivazione della vite) e il simbolo moderno più usato tra i giovani d’oggi: l’hashtag”. Il tutto sembra molto essenziale, quasi primordiale, certo semplice e lineare, ma con uno stile piuttosto approssimativo. Il packaging è una “chimica”, dove gli elementi, quelli giusti, devono combinarsi perfettamente nella “misura” ideale. Colori, forme e parole devono convivere in armonia, proprio come gli elementi organolettici in un buon vino.

Cose Matte e Cose Serie, Insieme

La Mattacchiona, Barbera, Accornero.

C’è un modo di dire che può ben rappresentare questa etichetta: “una scarpa e una ciabatta”. Chiariamo: il packaging in sé non è affatto male, nella sua valenza estremamente classicista. Ma la modalità, il carattere di scrittura (il font, dicono gli addetti ai lavori), con il quale è scritto il nome del vino, crea qualche perplessità. Andiamo all’origine della parola: “la Mattacchiona”, che segna semanticamente una persona di sesso femminile (la Barbera, in questo caso) dallo spirito libero e allegro. Il paragone con il tipo di vino ci sta. Questo nome è appositamente scritto in modo “matto”, fuori dagli schemi classici, in rosso. Ci sta anche questo, conferma il senso, il significato del nome. Ma stona con tutto il resto. Infatti, sotto al nome del vino l’etichetta continua con uno stile molto forbito, attempato, serio, tradizionale. Si nota subito lo stacco tra l’ambiente grafico della parte superiore (e il suo modo di comunicare) e quello sottostante (che parla quindi un linguaggio diverso). Quale sarebbe stata la soluzione ideale? Adattare uno all’altro i due ambienti grafici. Cioè scrivere in modo “serio” La Mattacchiona, o virare in modo allegro la parte inferiore dell’etichetta. Quello che è stato fatto qui, invece, in architettura lo chiamano “restauro conservativo”. Ma la sua buona riuscita è faccenda davvero delicata. Nella quale in certi casi è meglio non imbattersi.

Gufetti Ironici su Torri Storiche

Vernaccia di San Gimignano, Piccini.

Stiamo parlando di una grande azienda famigliare che lavora le vigne e produce vino da 5 generazioni con proprietà sparse in tutta la Toscana. In particolar modo la nostra attenzione si è fermata su questa etichetta che riguarda la Vernaccia di San Gimignano, la prima Doc in Italia, dal 1963 (poi Docg al 1993). Packaging coraggioso in quanto divertente e scanzonato. Raffigura, con una illustrazione fumettosa, le celebri torri di San Gimignano, simbolo delle famiglie possidenti di un tempo. In cima alle torri vediamo dei gufetti che ammiccano simpatici alla nostra attenzione. Lo stile è tra l’artistico e il comico, nei colori predomina l’arancione, soprattutto per quanto riguarda un grande sole in alto a destra, anch’esso rappresentato in modo creativo. Il tutto fa sì che il prodotto e la circostanza del suo consumo vengano considerati con allegria e simpatia, sia pure salvando le nobili origini della tradizione della Vernaccia e del territorio di appartenenza. Una sferzata di estro creativo che richiede di non prendersi troppo sul serio. E questo fa gioco sia per il commercio che per l’immagine in generale di azienda e prodotti.