Anticonformisti come Bohemiens

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Bohemi, Barbera-Croatina-PinotNero, 
Le Fracce.

Questa deformazione, diciamo interpretazione di "boemo" o "bohémien" non lascia comunque dubbi sulle sue intenzioni comunicative. I Boemi sono gli abitanti della Boemia (oggi Repubblica Ceca). La parola viene dal latino usato per indicare la tribù celtica che risiedeva in quella zona nel Medioevo: i Boii, cioè i Boiahemum. Più tardi il termine bohémien in francese diede il nome a un movimento artistico. Voleva descrivere gli stili di vita anticonformisti di artisti, attori, scrittori e musicisti di alcune città europee, a iniziare da Parigi. In alto, nell'etichetta in esame, la sagoma di un cavallo. Il nome del vino, al centro, sottolinea la lettera "h" con un colore diverso dal resto, il rosso. Così come rossa è la semplice cornice che delimita i pochi elementi di questo design. Alla base il logo e il nome dell'azienda. Si tratta di un tentativo di eleganza sommaria, che in parte è riuscito, ma in qualche modo è come se mancasse di qualcosa. Forse proprio di omogeneità tra i pochi elementi presenti. La raffigurazione (il cavallo), il nome del vino e il logo dell'azienda sembrano slegati, ognuno elegante, certo, ma per sé e non nell'insieme. Questo per dire che nel packaging non basta collocare elementi sia pure ben riusciti: è necessario che questi elementi tra loro risultino organici e amalgamati.

Una Madonna Nera, in Rosso, Bianco e Moderno

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Brunello di Montalcino, Madonna Nera.

Il nome dell'azienda e il nome del vino corrispondono. Nome forte, evocativo, provocatorio. Non di invenzione pura, in quanto si riferisce al nome storico di una zona collinare dove vengono coltivate le uve di questo Brunello (Sangiovese). A dire il vero il nome storico è "la Madonna". Il suffisso "nera", aggiunto dal produttore, forse si riferisce al colore del vino. Certo aggiunge mistero, ma anche una qual "oscurità" di tipo psicologico.
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In effetti il nome si colloca in quella terra misteriosa, tra il sacro e il profano, che in un paese cattolico come l'Italia fa sempre presa del punto di vista attenzionale e percettivo. Per di più, di madonne nere non ce ne sono molte in giro per il mondo, celebre quella di Cracovia: di solito sono dipinte con pelle candida, al massimo rosea. Certo le "madonne", in Toscana soprattutto, vengono citate spesso... A parte gli scherzi siamo di fronte a una etichetta ben studiata, anche se la "presa" grafica si avvantaggia più che altro di un lettering invadente (lettere grandi e graziate). Piccoli particolari denotano uno studio accurato del packaging: la "o" di "Madonna", girata in senso orizzontale, e la parola "nera" scritta in rosso. Per il resto si percepisce molta eleganza (con il fondo nero è scontata) e ordine nell'impaginazione. Anche gli altri due vini dell'azienda si avvalgono di questo stile, presentando la scritta grande, differenziata da diverse cromìe. Ne consegue una sensazione di modernità, dinamicità, stile, con buona pace di certe etichette classiche del Brunello con cornici e stemmi di antica memoria.

Un Classico che Non Conquista

Soloìo, Merlot, Casa Emma.

Qualche notazione costruttiva (almeno così nelle nostre intenzioni) su questa etichetta toscana, zona Chianti (ma in questo caso si tratta di Merlot in purezza). Premettiamo che siamo di fronte a un vino importante, dal costo non esiguo. Partendo dall'alto: il nome del vino, "Soloìo", si presenta con un carattere di scrittura poco leggibile, la "S" iniziale può essere equivocata, le "o", molto ingombranti, possono confondere, "ìo" può diventare "bio" (tra l'altro l'azienda in questione fa del biologico una bandiera qualitativa delle proprie produzioni). Insomma nome non facilmente interpretabile. E quando lo si legge correttamente si intuisce un fastidioso "assolutismo", quell'essere "solo lui", che di fatto non è (perché ci sono altri vini così, in sostanza). Sotto al nome del vino ecco il marchio dell'azienda: Casa Emma. Lo stile grafico è decisamente datato, sia per la forma, sia per il carattere di scrittura, sia per le cromìe. Si dirà che viene mantenuto così da tempo immemore (il nome dell'azienda si riferisce alla precedente proprietà, a titolo della nobildonna fiorentina Emma Bizzarri), ma si potrebbe considerare la realizzazione di un restyling "conservativo". A seguire un bel disegno (forse un po' piccolo) che stilizza la sede aziendale e il tipico paesaggio del Chianti. Minuto ma bello. A seguire ancora, centrate, le scritte legali e quant'altro serve a identificare la tipologia di vino e la sua provenienza. In sintesi, etichetta "piatta", senza svolazzi e sollazzi, si potrebbe dire anche timida, nel senso negativo di troppo riservata. Diciamo quindi che è classica. Ma almeno il nome del vino andrebbe scritto in modo più chiaro.

Il Vino di Milano dalla Valle delle Bisce

San Colombano Doc Riserva, blend di rossi, il Bisserino.

branding marketing comunicazioneIn quel lembo di terra collinare che si trova a sud est di Milano, risiede l'unica Doc della grande città lombarda, cioè appartenente alla sua provincia. Il fatto (cartografico) curioso è che questa porzione della Provincia di Milano è distaccata dalla zona più ampia, il vero e proprio territorio provinciale, che in sostanza circonda Milano. Bizzarrie economico-topografiche. Sta di fatto che a San Colombano (paese, diciamo così, capoluogo della microzona in esame) qualche virtuoso produttore si sta cimentando in vini di livello, a cavallo tra le tradizioni locali (il vicino Oltrepò) e i modelli internazionali. Un esempio è proprio questo San Colombano Doc Riserva dell'azienda "il Bisserino", vino che usufruisce del "sostegno" di barriques di secondo passaggio e che contiene anche Merlot. Riguardo al nome "il Bisserino", ecco cosa scrive il titolare nel proprio sito internet: "Il marchio dell'azienda, prende il nome dalla Valbissera (anticamente valle delle bisce) che è posizionata al centro del versante sud dei Colli (di San Colombano)". Il logo dell'azienda è una foglia di vite (firmata in basso dal titolare, Claudio Pozzi), che non rappresenta una grande novità e quindi manca di distintività (viene ripetuta due volte, in alto, contornata da un cerchio puntinato e in basso, più grande, "a nudo" e rovesciata, chissà perché). L'etichetta però, in generale, è abbastanza elegante, grazie al fondo nero e ai particolari in oro. Bello il carattere di scrittura (in senso di originale) del nome (che anche in questo caso, come in molti altre etichette italiane, fa da nome del vino e anche da nome aziendale). Criticabile la scelta di scriverlo in verticale. Certo è molto grande e questo agevola una rapida identificazione.

Conventi e Convenzioni Così Conservate

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La Malena, Syrah Toscana (e Ciliegiolo), Pàcina.

Il nome di questa azienda toscana va pronunciato con l'accetto sulla "a", secondo i dettami fonetici della regione: Pàcina. Si tratta di un vecchio convento nei dintorni di Siena. Ci tengono molto, i titolari, a raccontare la storia del luogo, tanto che nei retro-etichette dei loro vini, e nel sito aziendale, si legge: "Pàcina è un convento del 900 (inteso come precedente all'anno 1000) con una lunga storia alle spalle. Intorno vigneti, oliveti, campi e boschi ed ancora più in là le Crete Senesi. Un piccolo luogo intenso che ha rispettato per caso, per necessità, per vicende storiche la ricchezza della tradizione ricavandone ancora informazioni. Un piccolo luogo in cui le differenze in qualche modo sono state rispettate e mantenute, differenze dell’habitat variato, sia nella presenza del bosco e di vari tipi di coltivazioni, sia nell’alternarsi del lavoro e del riposo della terra, così che gli ecosistemi vegetali ed animali hanno potuto mantenere la loro ricchezza e le loro interrelazioni". Nell'etichetta, a conferma dell'importanza data al luogo storico dove sorge l'azienda, il nome del produttore è più grande del nome del vino. Succede. Anche abbastanza spesso, nel panorama vinicolo italiano. L'etichetta è semplice, ordinata, con una illustrazione acquerellata al centro, che ritrae l'edificio padronale che funge anche da agriturismo per ospiti assetati di buona vita, oltre che di buoni vini. I colori sono "freschi", stimolanti, e al tempo stesso naturali, rilassanti. Nessuna forzatura: il design non è di quelli "studiati" ma trasmette bene i concetti fondanti della gestione. Non abbiamo notizia del nome del vino, La Malena, ma si può intuire che si tratta del luogo dove cresce la vigna dedicata a questo Igt.

Partire da Zero per Quotare Alto

N°Zero, Negroamaro, Menhir Salento.

Siamo in Puglia, nel Salento, terra di vini in chiara e veloce espansione commerciale e qualitativa. E siamo di fronte a una etichetta molto essenziale. Non di meno elegante, sia pure composta di pochi e semplici elementi, impaginati in modo quasi elementare. Il nome del vino, in questo specifico caso, fa da "traino" per tutto il resto. Infatti l'accezione e il concetto di "numero zero" caratterizza la parte dominante del packaging che propone un grande numero "0". Un numero che per come si presenta potrebbe essere anche un cerchio (figura geometrica non priva di significati complementari) oppure una lettera "o" (che comunque è presente sia in "numero" che in "zero"). Subito sotto a questo elemento visivo predominante, leggiamo "N°Zero", il nome vero e proprio, che fuga ogni dubbio sul significato generale della grafica in esame. L'aspetto è quello di un'etichetta importante, di un vino prezioso, di una valenza storica o produttiva che anticipa un grande incipit. Essere il Numero Zero di qualcosa ha una significato pregnante, ancestrale, potenziale, anche numerologico. In realtà, e in contrasto con questo, il vino in questione costa solo 5 Euro. Si colloca cioè nella fascia economica e commerciale bassa. Poco male: quanto l'etichetta valorizza, il risultato e il lavoro sulla percezione finale è comunque valido. Non allo stesso modo sarebbe per un vino molto costoso che si presenta con un'etichetta scarna e scarsa dal punto di vista del design. La preziosità vuole la sua parte, come l'occhio del potenziale cliente, del resto. E non è detto che pochi elementi semplici e ben collocati non possano dare ottimi risultati. Come in questo caso.

Una Bonarda Carioca in Monferrato

branding marketing comunicazioneBonarda Vivace, Bianco Pasquale.

Vivace il vino, molto vivace l'etichetta. Siamo nel Monferrato (esattamente a Montegrosso d'Asti) dove la tradizione ancora travolge senza mezzi termini ogni nuovo tentativo di evoluzione, sia tecnica che comunicativa. Ma questo piccolo produttore che per il proprio marchio aziendale adotta, come una volta, la modalità "cognome/nome" (Bianco Pasquale), su questa etichetta ha deciso di sperimentare, di azzardare, di osare, l'uso di arte moderna. Un dipinto, un quadro, un'opera che si propone con una gragnuola di colori che quasi stordisce. Vaso di fiori? Grappoli d'uva? Fuochi d'artificio?Carnevale di Rio? Potere alla fantasia: ognuno può vederci quello che vuole, anche considerato che nel sito del produttore non si fa riferimento alcuno all'origine e all'autore del pezzo artistico utilizzato per l'etichetta di questa Bonarda Vivace. Ci scusiamo per l'immagine non molto luminosa, ma è l'unica reperibile in rete. Continuando nell'analisi dell'etichetta, del suo design, del packaging in generale, vediamo che sotto all'opera cromatica vengono collocate le scritte di legge (vitigno e tipologia) e di seguito il nome dell'azienda: "Bianco Pasquale & Figli". Tutto molto ordinato, sequenziale, ma se non fosse per il cromatismo forse la bottiglia passerebbe inosservata. L'esperimento comunque merita di essere notato, quanto meno esce dagli schemi classici che nella zona sono ancora molto in auge. Attira l'attenzione, conquista l'iride, anche se un chiaro costrutto concettuale non si manifesta. 

La Cultura è un Lusso e Non è in Vendita

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Lusso, Cabernet Sauvignon, 
Allora Vineyards.

Tre giovani donne, in modalità "Desperate Housewives", stanno bevendo vino rosso al cospetto di una panoramica vallata vitata. Sono un po' tristi, diciamo meditative, chissà cosa stanno pensando, di cosa stanno parlando. L'azienda vinicola che produce e propone questa etichetta ha sede in Napa Valley e si chiama "Allora": fa ampio uso di terminologie in lingua italiana per denominare i vini  della propria gamma. Oltre al Cabernet Sauvignon preso qui in esame, che si chiama "Lusso", nell'offerta del produttore troviamo anche "Lieta", vino bianco indefinito, "Cielo", blend di rossi, "Tresca", un altro Cabernet Sauvignon, "Sussurro", un porto-wine e altri ancora. L'uso di parole italiane rivela la scelta di un certo stile di comunicazione e a monte anche di marketing. In generale si trovano spesso cognomi o termini italici in California. Diciamo che è una moda-modalità. Tornando alla nostra etichetta: a proposito del marchio "Allora", il produttore afferma "The word Allora in Italian loosely translates to ‘so what’. It is a word that is often used in Italy as ‘whatever’, and we felt this best described our style as well...". Mentre sul nome "Lusso" viene fornito questo rational: "Lusso means “luxury” in Italian. This luxurious Cabernet Sauvignon contains fruit from the St. Helena Appellation of Napa Valley and is 100% Estate Grown. Lusso comes from the best grapes we grow". La grafica dell'etichetta è elegante, ad esclusione dell'illustrazione con le tre donne, con fondo nero, profili in oro, caratteri di scrittura tra il prezioso e il classico. Certo non bastano le parole in italiano per dare prestigio: quello bisogna guadagnarlo con un'immagine, dentro e fuori dall'etichetta, fatta di estro creativo, gusto per la tradizione, storia e cultura pregnanti.

Quei Birichini degli Americani

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Malvasia Bianca, Birichino.

Le etichette di questo produttore californiano (con esperienze in tutto il mondo, ora stabilitosi a Santa Cruz, a sud di San Francisco) sono molto particolari. Denotano la volontà, specie ludica, di caratterizzare molto le varie produzioni. Dalla gamma proposta nella rete virtuale e commerciale abbiamo estratto la Malvasia Bianca che graficamente è semplice e "floreale" e il Vermentino, con una antica illustrazione, altro omaggio al noto vino italiano, del quale nel sito del produttore americano si dice: "It is often said that Vermentino recalls the mix of sweet and savory herbs (prebuggiun) that grow wild in the narrow terraces and fields of its native Liguria on the Italian Riviera". Al di là delle etichette, variegate e fantasiose, la questione ruota principalmente attorno al nome dell'azienda, "Birichino", nome che ha attirato la nostra attenzione, sia per la sua fonetica italica, sia per l'originalità di tale scelta.
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Vediamo prima cosa scrive il produttore a questo proposito: "About the name Birichino, like locksmiths in the United States that add additional AAAs onto their names to be the first listed in the telephone directory, and drawing on deep reserves of innate marketing genius, we went in search of something unpronounceable to English speakers, yet also difficult to remember that began with A or B. Alluce was an early favorite, seeming to evoke lightness and air in English, but in fact translating as big toe. Seeking something with that playfulness, though about some things we profess to be deadly serious, and inspired by the surprising, slighty racy character of our first wine, the Malvasia Bianca that leads one on to thinking sweet, and delivers something else entirely, we hit on Birichino, meaning naughty in Italian. And who doesn't consider themselves just a little bit naughty, after all?". Descrizione simpatica e accattivante. Da parte nostra possiamo dire che "Birichino", secondo Treccani sarebbe "...voce emiliana, affine a briccone. Bambino vivace e impertinente, soprattutto in quanto manifesta tale suo carattere nelle parole o negli atti". E anche: "Nella prima metà del sec. 18° erano così chiamati a Bologna gruppi di malviventi, designati dal nome delle contrade, tra i quali vigeva una stretta omertà; consegnavano quanto riuscivano a rapinare a un capo, il quale ne disponeva a comune profitto". Insomma un nome davvero particolare, considerato che l'azienda è americana. 

Il Packaging a Volte è un Gioco

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Mamma Mia, Malvasia Aromatica e Trebbiano , Cantina San Biagio Vecchio.

Semplice e diretta questa etichetta. A parte la rima, diciamo che regna la sintesi degli elementi: un piccolo logo e nome d'azienda in alto, una illustrazione al centro, il nome del vino in basso. Possiamo definirla anche un po' infantile. L'illustrazione mostra il faccino sorridente di un fantasmino, o meglio di un bambino, o insomma si tratta comunque di un viso ammiccante. Anche il tratto con il quale è stato tracciato il disegno sembra quello di un bambino piccolo.
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Il nome del vino riconduce ad una affermazione molto in uso nel gergo italico: "MammaMia!" (diventato anche marchio di prodotti alimentari pronti, da banco frigo). Probabilmente (non si trovano spiegazioni riguardo questo aspetto, nel sito del produttore) questo nome è interpretabile come "mamma mia che vino!" oppure è l'affermazione di una mamma al cospetto delle marachelle di un fanciullo. Resta il fatto che l'etichetta è decisamente fuori dagli schemi. Non molto compiuta nel senso del packaging professionale, ma certamente dotata di originalità e di conseguenza di un'ottima visibilità. Sono quelle che amiamo definire come "etichette-gioco". Certo il design delle bottiglie di vino non dovrebbe essere mai un gioco, ma spesso, soprattutto i piccoli produttori lo prendono come tale e in questo caso sono parzialmente scusati. Soprattutto se non hanno problemi di sorta a vendere le poche bottiglie/anno che producono. 

Una Volpe Sfuggente nel Tavoliere delle Puglie

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Sogno di Volpe, Bombino Bianco, Cantina Ariano.

Ci risiamo con la volpe. La favola che narra della sua nota frustrazione è spesso protagonista concettuale di etichette e nomi di vini. In questo caso si tratta di un nome di linea della Cantina Ariano di San Severo, provincia di Foggia. Una linea di vini biologici che comprende un bianco (da Bombino Bianco), un rosato (da Montepulciano d'Abruzzo) e un rosso (idem). Da notare che recentemente l'etichetta è stata aggiornata togliendo una sagoma intagliata sulla destra (visibile nell'immagine della bottiglia intera, qui a destra in basso) che francamente risultava indecifrabile (una volpe, sempre lei, molto probabilmente).
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È interessante e opportuna la citazione, tornando brevemente alla mitologia, che il produttore pubblica nel proprio sito web: “Nondum matura est, nolo acerbam sumere”. Aggiungendo: "...dalla celebre favola di Fedro ad un sogno diventa realtà; quel grappolo troppo bello ed inarrivabile per la volpe è diventato il simbolo della nostra linea biologica." (c'è un impiccio nella frase ma noi la riportiamo così come l'abbiamo trovata nel sito). Utile spiegazione che giustifica l'adozione del nome e valorizza la linea dei vini. Passando ad una veloce analisi del design dell'etichetta possiamo dire che a nostro modesto parere la grafica non sembra "risolta" in modo armonico pur riportando almeno uno spunto concettuale interessante: il movimento ondulato del taglio superiore dell'etichetta, che riconduce alle colline (o forse al mare, siamo nel Gargano) e che riprende il medesimo "andamento" riscontrabile nella piccola illustrazione al centro che a sua volta può ricordare, anch'essa in modo forse troppo sintetico, colline, vigne e (sembra) un rudere storico della zona (o di nuovo la volpe?). Diciamo che il tutto è "a libera interpretazione". Il marchio aziendale, in alto, rimarca semplicemente le lettere "C" e "A" di Cantina Ariano.

Adamo ed Eva sulle Sponde del Lago Maggiore

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Mott Carè, Passito (Malvasia Aromatica), 
Cascina Piano.

Un'etichetta molto particolare, sotto diversi punti di vista. Salta all'occhio innanzitutto l'illustrazione di un Adamo ed Eva nell'Eden con regolamentare serpente accompagnatore. Poi il nome, pseudo-dialettale. Infine quello strano logo rotondo (dovrebbe essere un acino d'uva stilizzato). Ma vediamo cosa dice il produttore nella scheda relativa a questo suo vino (e dice molto, cosa che non avviene spesso, purtroppo, nel panorama vinicolo italico).  Riguardo al nome: "Mott Carè" è denominata una delle colline degradanti verso la località Uponne nel comune di Ranco posta alla periferia nord-est di Angera (Lago Maggiore). Su questo motto (che sta per "collina") è ubicato il vigneto dove nacque e venne sperimentato l’omonimo vino. Detto anche “il boeuc”, il piccolo vigneto che ha dato origine alla sperimentazione ha visto nascere il fiore all’occhiello di Cascina Piano quasi per una casualità trasformatasi in un’ottima intuizione creativa". Non tutto chiarissimo ma certamente descrittivo, è già molto. Poi si prosegue riguardo il disegno: "L’etichetta ritrae un affresco della chiesa parrocchiale di Angera che raffigura la cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terrestre. La tentazione è l’elemento che lega questo particolare vino dolce con il fatto biblico ritratto nell’affresco". Il produttore chiude la scheda con un simpatico proverbio in dialetto: "La mama e la fiola a bevan al vin bùn e la poeura neura ga fan vusma al biscùn". Peccato che non c'è l'esatta traduzione, in particolare della parola "biscùn" che in rete viene definita sia come "cespuglio", sia come "biscione". Stiamo indagando. A presto gli aggiornamenti del caso.



Nome Conservativo, Design Evolutivo.

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Rovej, Vino Rosso, Enrico Druetto.

Della lettera "j", utilizzata ancora oggi nelle forme dialettali piemontesi, abbiamo già parlato. Unitamente a sottolineare la presenza della medesima in alcuni cognomi storici della regione. Ecco un altro esempio, enfatizzato dal fatto che questa azienda ha dato ai propri vini tutti nomi che contengono questa lettera. Una modalità che nel resto d'Italia porta a percezioni "esterofile". Innanzitutto serve chiarire che la pronuncia è quella di una "i" normale. E non come nelle lingue anglosassoni, a generare una specie di "g". Certo, la presenza della "j" potrebbe indurre, in chi non è piemontese di origine, qualche dubbio sulla modalità di pronuncia. Questo è un rischio reale. Ma vediamo i nomi in questione. Rovej, come spiega il produttore nel proprio sito internet, "...in piemontese, significa “rovi”. Da vigne abbandonate, avvolte dai rovi, sono state prelevate le gemme per per realizzare le attuali vigne". Nella gamma di questa azienda troviamo anche il "Morej" che in piemontese significa moro o scuro, poi abbiamo "Preja" che "...in piemontese, significa pietra. Proprio su una pietra affiorante è stata ritrovata l’ultima vite di Baratuciat da cui ho prelevato le gemme per realizzare le attuali vigne", afferma il produttore. Qualche parola anche sul design delle etichette, molto, ma molto, lineari, semplici, dirette, diciamo "senza fronzoli", quindi piuttosto spartane. Fondi colorati piatti, il nome del vino e quello del produttore sul fronte e poche righe sul retro. Estremismo di sintesi o sintesi estrema che dir si voglia. Nota di merito per quanto riguarda il carattere di scrittura. Originale, molto leggibile, moderno, gradevole.

Evidenti Esortazioni Esclamative

branding marketing comunicazioneMonferrato Rosso, Gianni Doglia.

Cosa ci può essere di più attenzionale di un punto esclamativo rosso a tutta grandezza? Eppure questa etichetta non ci convince fino in fondo. Si tratta del Monferrato Rosso di un produttore astigiano, da vitigno Merlot al 100%. Sembra perfino troppo facile. Ma vediamo cosa può trasmettere un'etichetta di questo genere. Certo si fa notare, grazie anche al colore rosso su fondo scuro (praticamente nero). È aggressiva, si impone, così come un verbo affermato all'imperativo. Con tanto di punto esclamativo. Quindi abbiamo una attenzionalità che si trasforma rapidamente in aggressività. Vuole primeggiare. Essere importante. Ma di fatto cerca di acquisire importanza con tracotanza. Come farebbe una persona che vuole farsi notare a tutti i costi, magari con un abbigliamento sfarzoso o dissacrante e per di più si presenta parlando a gran voce e affermando ai quattro venti di essere migliore di altre. O come certe pubblicità che sfruttano elementi "ancestrali" o provocanti per attirare attenzione a tutti i costi, nel bene e nel male. Si tratta di una strategia che può pagare in termini di distintività ottica, ma non fondandosi su qualcosa di concettualmente strutturato rischia di lasciare il tempo che trova. Cioè di non costruire sul futuro con i "fondamentali". 

Garagisti del Naming alla Conquista del Mondo

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Tre Comuni, Barolo, Cà Rozzeria.

Si fa molta fatica a credere che questo nome aziendale non sia volutamente ironico. Perché se fosse non voluto saremmo di fronte a un clamoroso caso di inciampo fonetico e semantico. A parziale discolpa di questo nome, che subito fa molto "garagista", si tratta di una operazione commerciale di export non destinata quindi al mercato italiano. Non è neppure facile reperire in rete chi propone questi vini. Di fatto sono per il mercato mondiale, ma regolarmente prodotti a norma dei relativi disciplinari italiani. "Cà Rozzeria" dicevamo. Sembra davvero una presa per i fondelli nei confronti dei mercati esteri che certamente, al volo, non riconducono il nome a una officina (ma se vanno a cercare la traduzione potrebbero accorgersene). Tra l'altro anche non volendo interpretare il nome unendo le due parole, la sola accezione "rozzeria" non ne uscirebbe bene. Inspiegabile, per certi versi. Ma tutto vero e riscontrabile rapidamente on-line.
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Non si sa se riconoscere agli autori una certa dose di umorismo e quindi sorridere o scuotere la testa sconsolatamente. Ma probabilmente è proprio questa la forza di questo nome, queste le sue reali intenzioni. Far discutere e in ogni caso far parlare di sé. Per il resto il design dell'etichetta è molto semplice, lineare, scontato, ordinato e pulito ma sterile. Sembra quasi che anche il packaging sia stato progettato e realizzato in modo spartano per attirare tutta l'attenzione sul nome, posto in alto in grande evidenza e in colore rossastro. A latere, i commenti stranieri sulla qualità dei vini di questa azienda misteriosa (e fors'anche ironica) non sono di grande entusiasmo. Probabilmente si tratta di una linea "media" destinata all'estero, come già detto prima. Resta inspiegabile l'origine del nome. Forse dove ora c'è la cantina di produzione prima c'era un lattoniere, un autolavaggio o un benzinaio. Chissà.

La Sintesi Asettica del Design Minimalista

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Vigne Alte, Trebbiano, Vinica.

Nella new-wave del design minimalista che sta invadendo la comunicazione aziendale di questi ultimi anni, si colloca l'etichetta, molto essenziale, che vediamo qui a sinistra. È il Trebbiano di un produttore molisano che coltiva anche ortaggi e verdure biologiche in una estensione di 220 ettari nella provincia di Campobasso. Tornando al vino e a questo packaging in modo particolare, possiamo notare la sintesi visiva dei vari elementi: due gruppi di montagne sullo sfondo (alcune vigne si trovano oltre i 600 metri di altitudine), rappresentate da tratti rastremati, poche linee in nero e giallo, con la presenza di un omino che osserva lontano, riparandosi gli occhi dal sole.
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Il nome del vino è chiaro, "Vigne Alte": fornisce una indicazione inequivocabile su quello che l'azienda vuole esprimere. Un primato qualitativo rappresentato anche dalla coltivazione della vite in altura. Anche il logo aziendale, in alto, insegue uno stile conciso e sintetico. Alcuni esili (forse troppo poco evidenti) segni grafici, rappresentano, crediamo, le trame dei terreni delle varie coltivazioni, viste dall'alto. Anche i caratteri di scrittura di questa etichetta sono "asciutti" e filanti. Confermando l'adozione di uno stile molto intimista, quasi segnaletico. Anche altri vini dell'azienda, ad esempio un Sauvignon e un Riesling, presentano il medesimo design, ma con qualche concessione in più all'emozione, quindi con chiome d'albero colorate, a forma di cuore (o almeno questo sembra). E sempre con la presenza "umana" di un omino solitario.

Sotto una (Erba)Luce Nascosta

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Lucino, Greco Novarese, Barbaglia.

Sono molti i nomi di vini, nell'Alto Piemonte, che alludono a luce, lucentezza, luminosità, etc., per affermare (quando c'è) un nesso con il vitigno Erbaluce. Questo perché al di fuori dai confini della DOCG di Caluso (e dintorni), tracciati dal relativo disciplinare, la legge proibisce addirittura di nominare l'Erbaluce in etichetta così come su qualsiasi altro supporto di comunicazione delle aziende che producono vini derivati da questo vitigno. Le aziende che non rientrano nel disciplinare ufficiale dell'Erbaluce di Caluso, sono costrette a chiamarlo impropriamente "Greco Novarese" o genericamente "Bianco Colline Novaresi". Diciamo anche inopportunamente perché "Erbaluce" è un bellissimo nome, inoltre le parole "greco" o "bianco" sminuiscono un vitigno che invece è tra gli autoctoni italici di maggior potenziale organolettico. È probabile che i produttori di Caluso siano così gelosi del proprio Erbaluce da proteggerlo in modo esagerato (sempre che siano loro a fare pressioni affinché la legge operi i suoi impedimenti, questo non lo sappiamo e non possiamo quindi affermarlo). Ma la logica dice che se l'Erbaluce "indefinito" non ha la DOCG e nemmeno può affiancare il nome "Caluso", già questo basta abbondantemente a distinguere le due zone e le distinte produzioni. Ma si sa che in Italia, soprattutto nel mondo del vino, invece di fare squadra, ci facciamo ancora la guerra da un campanile all'altro. Chissà quando finirà. Forse mai. Ma torniamo al "Lucino", nome di questo vino, prodotto dall'azienda Barbaglia (nota soprattutto per il Boca Doc, un Nebbiolo sorprendente) nei pressi del Lago Maggiore, sulle colline che conducono a sud verso Gattinara e a nord verso il Monte Rosa. Lucino è diminutivo simpatico, affettuoso, breve e foneticamente accattivante. La luce alla quale allude, dicono i viticoltori, è quella che attraversando gli acini di questo vitigno, a maturazione e al tramonto, assume un colore ambrato davvero magico, suadente, romantico. L'etichetta del "Lucino" presenta un design abbastanza classico, senza concessioni a spunti creativi, sia pure con equilibrio ed eleganza che lo sfondo nero e i particolari in oro sempre donano al packaging. In alto, il nome e lo stemma aziendale, alla base  un ghirigoro artistico che al suo interno accenna a tre piccoli cuori e conferma così l'indole romantica di questo vino che, a tavola, ha il potere di illuminare gli occhi dei commensali, oltre a titillare il palato.

Povera la Volpe e Grechetto il Vino

Strozzavolpe, Grechetto Umbria Igt, Bigi.

Il nome di questo vino è certamente particolare. Si fa notare. Incuriosisce. Perché la volpe viene strozzata? A quale episodio può fare riferimento? Può suscitare apprensione l'ipotesi che la volpe venga traumatizzata? La favola più nota relativa a una volpe (in ambiente vitivinicolo) è quella della "Volpe e l'Uva", dove però il furbo animaletto non viene minacciato da alcuno se non dal proprio ego. Ma la storia che viene raccontata dal produttore di questo vino è diversa. E anche non molto chiara, vagamente accennata. Vediamo cosa si legge nella scheda relativa a questo vino, un Grechetto, nel sito web aziendale: "Questo vino, fine, delicatamente fruttato, fresco e beverino, viene prodotto in purezza dall’omonimo vitigno, chiamato nella cultura popolare dell’Italia Centrale anche Strozzavolpe. Il nome Strozzavolpe evoca l’immagine di una natura fiera che, con l’ingegno, l’uomo riesce a domare. Ricorda, infatti, una favola secondo cui una volpe assai arguta riusciva a scampare alle doppiette dei cacciatori grazie alla propria abilità nel dissimularsi, salvo finire nelle mani di un principe che le tese un agguato notturno in cui rimase strangolata". La storia non è allegra: la volpe sfugge ai cacciatori ma un principe (evidentemente di quelli "cattivi") le tende un agguato e la fa fuori. Qualcosa non funziona, considerato anche che nel design in etichetta la volpe viene enfatizzata, diciamo anche celebrata, con una bella sintesi visiva dal tratto elegante. L'etichetta in generale è ben studiata e ben riuscita. Di fatto l'azienda, Bigi, ha immesso sul mercato, negli anni, delle etichette molto gradevoli dal punto di vista di un marketing moderno che promuove packaging di alto livello. In questo caso lo storytelling scricchiola. A tutto discapito della povera volpe e di chi l'ha in simpatia.

Enologia Veneto-Trentina in Forma di Champagne

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Equipe5, Metodo Classico, Cantina di Soave.

Strano nome e strano vino per la zona di provenienza, cioè quel Veneto dove trionfa il Prosecco e in particolar modo in questo caso dove la Garganega (Soave) la fa da padrona. Infatti questo vino, bollicine Metodo Classico (da 36 mesi), nasce a base Chardonnay (80%) e Pinot Nero (20%). Chiarito il vino passiamo al nome e al packaging: nome francese, stile francese. Insomma, siamo italiani, ma l'allusione ai maestri francesi delle bollicine (Champagne) non manca mai. In questo caso però questo nome ha un fondamento che possiamo definire storico. Come dichiara il produttore si tratta di un "marchio storico di grande valore nato nel lontano 1964 grazie a cinque enologi trentini che decisero di unire la propria passione e le proprie competenze in ambito spumantistico per realizzare questo spumante metodo classico millesimato tra i più celebri e prestigiosi del panorama nazionale, presente nelle enoteche ai ristoranti più rinomati". Di fatto questo spumante, oggi non è così noto, anche se la sua qualità meriterebbe di più. Il design? Molto classico, dallo stemma in alto allo sfondo, dai caratteri di scrittura ai colori (inchiostri) utilizzati. Sta bene sulla tavola delle feste. Forse si meriterebbe un restyling, diciamo un restauro sia pure di tipo "conservativo". 

Design Sfacciato o Marketing Sfaccettato?

4 Skins, Vitigni Rossi della Nuova Scozia, Jost Vineyards

branding naming illustrazione conceot comunicazioneEcco un classico esempio di idea provocatoria che ha l'obiettivo di generare scalpore. Pur essendo fondata su elementi effettivi e comunque riscontrabili. La questione è chiara: il nome di questo vino che viene dalla Nuova Scozia (Canada) è un gioco di parole volutamente allusivo e sfacciato, come ammette lo stesso produttore nelle note che vedremo più avanti. Si chiama "4 skins" che ufficialmente significa "4 bucce" (di acino) e che ufficiosamente ricorda, come pronuncia, "foreskin", che sarebbe "prepuzio" in inglese. L'illustrazione in etichetta certo non fuga l'equivoco, anzi, in certa misura lo alimenta. Del resto il fondo scuro e i colori brillanti attirano l'occhio e il design del packaging non è nemmeno male. Questa etichetta ha attirato strali e risa, favori e critiche in egual misura: insomma, alla fine se n'è parlato molto (soprattutto in nord-america e in generale nei paesi anglofoni, logicamente). Ma vediamo cosa scrive l'azienda nel proprio sito internet: "4 Skins is more than just a cheeky name. Our award-winning wine is made with four of Nova Scotia’s choicest grape varieties, Castel, Marechal Foch, Leon Millot, and Lucie Kuhlmann. Grown in our unique terroir which is created by the slope of the land, the warm waters of the Northumberland Strait (the warmest waters north of the Carolinas) and the lack of fog, the grapes are carefully selected and then fermented in their skins...". Ci sono quindi delle ragioni tecniche e produttive specifiche per alludere ai 4 tipi di bucce (di macerazioni) che compongono questo vino. Tutto il resto è un'opinione.

La Fantastica Avventura del Brunello Azzurro

Brunello di Montalcino, Podere Sante Marie (Marino Colleoni).
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Un brunello vestito d'azzurro? Eccolo qua. Come un cavaliere d'altri tempi. A discredito di ogni luogo comune che vorrebbe l'adozione di toni caldi, soprattutto per vini rossi tradizionali e d'annata, questa bottiglia indossa una livrea celestina. Si dice anche che, sempre in teoria, secondo alcuni, l'azzurro non sia un colore propriamente "alimentare". Non adatto, cioè non in grado di veicolare adeguatamente qualcosa di gastronomico, ancorché enogastronomico. Questo perché psicologicamente questo colore conduce la percezione cerebrale verso altri pianeti dell'immaginazione.
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E poi è doveroso considerare anche il cromatismo che si viene a creare, una volta aperta la bottiglia e versato il vino nel bicchiere: due colori in evidente contrasto. Ma anche che i migliori matrimoni sono quelli che mettono insieme caratteri molto diversi, o no? A parte l'aspetto legato al colore, per completare l'analisi dobbiamo dire che si verifica qui una dicotomia tra il nome del Podere (Sante Marie, nome storico, toponomastico, di una zona rurale di Montalcino) e il cognome del produttore, Colleoni (poco visibile, invero). Nel senso che sulla bottiglia figura quest'ultimo, mentre nel sito internet e su altri supporti viene utilizzato Podere Sante Marie. Non c'è univocità di marchio. A onor del merito completa l'etichetta una bella stilizzazione di un leone, sullo sfondo e in evidenza in oro. Il lato positivo? Tra tutti i brunelli marroni, neri, bordò e variamente ambrati (si parla sempre di etichette) questo, a scaffale, si fa notare di sicuro.

Fatiche d'Altri Tempi in un Nome Francese

Quaràs, Chardonnay, Corvée.

Originale la scelta di questo nome (Corvèe, il marchio aziendale) che originalissimo, in termini assoluti, non è, essendo parola nota presa dal vocabolario francese ma utilizzata in tutto il mondo. Vediamo innanzitutto cosa spiega il produttore nel proprio sito web: "Corvée è un termine francese utilizzato nelle società feudali per indicare un tipo di prestazione di lavoro del vassallo o schiavo al proprio signore tramite giornate di lavoro gratuito solitamente destinate alla coltivazione delle terre padronali. Gli oltre 400 km di terrazze di muri a secco di porfido realizzate nei secoli dai vassalli della Valle di Cembra hanno consentito di salvare un patrimonio singolare che conduce dai 250 metri di Mosana fino ai 1000 metri circa di Faver. All’interno di queste splendide logge si trovano anche i 14 ettari delle vigne dei soci che hanno dato vita a Corvée, un progetto di sostenibilità in una doc, quella del Trentino, con potenzialità ancora inespresse". Originale anche l'etichetta, aggiungiamo noi. Bella la grafica, minimalista ma di buona focalizzazione ottica. I sassi dei muretti a secco sopra descritti, raffigurati nella parte bassa, chiudono il cerchio semantico del packaging. P.S.: Quaràs (nome del vino) è il capitano francese che guidò le truppe napoleoniche durante l’assalto al castello di Segonzano nel novembre 1796.

Bestiario Parlante per Vini d'Abruzzo

LaPirale, Moscato Terre di Chieti, Lunaria.
naming comunicazione marketingAbbiamo già parlato delle etichette di questo produttore, ora in parte rinnovate. Certo non manca lo spirito creativo, a partire dai cromatismi di fondo, unitamente ai soggetti ritratti, ai nomi dei vini e alle "massime" riportate per ogni tipo di vino. Vediamone alcune, a partire da quella del Moscato qui in alto: "Sorprendi, provoca, ama". Mentre quella del Montepulciano d'Abruzzo (con il toro qui sotto) è: "La mia furia è autentica forza". Sorprendono e si fanno leggere. Sono elementi di originalità, quindi, inseriti in una grafica anch'essa alternativa rispetto ai canoni classici. Tra i nomi degli altri vini di questa azienda della provincia di Chieti troviamo: Charisma con una Lince (Trebbiano d'Abruzzo) "Seguimi, ti guiderò nel buio", Ramoro con un Pavone (Pinot Grigio) "Mi pavoneggio elegantemente in ruota di piacere",  Ruminat  con un Cervo (Primitivo) "La mia anima ha danzato ritmi antichi".  Belle anche le illustrazioni, con uno stile personale, e la scelta dei caratteri si scrittura, forse un po' troppo metropolitani, ma insoliti e quindi attenzionali.
packaging etichette vino winedesign

Carisma d'Artista per Ornellaia d'Annata

mktg comunicazione illustrazione arteIl Carisma (2015), Ornellaia.

È questa l'etichetta artistica dedicata all'annata 2015 del rosso Supertuscan di Ornellaia, nota tenuta vinicola di Marchesi de' Frescobaldi che si trova sulle colline di Bolgheri. Il packaging in questione fa parte di un ampio progetto chiamato "Vendemmia d'Artista" che nasce alcuni anni orsono per sottolineare l'unicità di ogni vendemmia. Infatti, ad ogni edizione un artista contemporaneo di fama internazionale crea per Ornellaia una serie di opere in esclusiva, sulla base di un concetto ogni volta diverso. Per l'uscita 2015 di questo prestigioso vino è stato scelto e proposto all'artista il nome/concetto "Il Carisma". I disegni creati dal sudafricano William Kentridge si ispirano agli strumenti di lavoro della vendemmia, che risultano qui umanizzati. Secondo l'artista, infatti "La produzione vinicola ha trasformato gli uomini in macchine e le macchine in lavoratori". Una curiosità: i disegni sono stati realizzati sulle pagine di vecchi libri-cassa trovati nei mercatini e nei negozi di antiquariato. Un particolare che fornisce un valore anche concettuale agli elaborati che poi sono diventati vere e proprie etichette stampate.
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Non è certo nuova l'idea di abbinare arte e vino con operazioni che un tempo si potevano definire mercenarie e che invece oggi, questa in particolare, prendono strade dedicate alla beneficenza culturale (i fondi raccolti con l'asta di queste bottiglie così particolari vengono devoluti al Victoria & Albert Museum di Londra). Con operazioni come questa si impreziosisce il vino, l'azienda fa parlare di sé, l'artista anche, la cultura in generale se ne avvale. Il risultato, se gestito con un'ottica comunque di comunicazione e di design come in questo caso, è destinato ad essere efficace sotto tutti gli aspetti. Il vino, come sempre, si versa, si condivide e sostanzialmente si beve.

Un Rosato Molto Femminile

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Inebriante, Sangiovese Rosato, Inserrata.

Le etichette di questo produttore toscano che opera in totale regime biologico e che si chiama "Inserrata" (dalla zona boschiva dove si trova l'azienda, La Serra, a San Miniato, in provincia di Pisa) sono tre, tutte uguali, caratterizzate cioè della medesima illustrazione, un viso di donna. Hanno logicamente nomi diversi: "Inebriante" per il rosato da Sangiovese, "Intrigo" per lo Chardonnay e "Insieme" per il Merlot. Tra questi tre abbiamo scelto il rosato da Sangiovese perché la bottiglia risulta originale anche per forma e composizione cromatica, molto femminile nella sua complessiva formulazione. Complice anche la capsula rosa.
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L'etichetta colpisce perché praticamente viene occupata a tutto spazio da un viso lentigginoso, di ottima resa artistica, anche grazie a macchie di colore che in particolare mettono in evidenza occhi e bocca della figura ritratta. L'illustrazione, che sembrerebbe acquarellata, è opera dell'artista Alexandra Coe e rappresenta certo un'eccezione nel mondo del packaging del vino: si tratta di un vero e proprio "quadro su bottiglia", dove il lato artistico, creativo, manuale, prevale su quello tecnico e grafico di impaginazione. Arte e vino ancora una volta compiono percorsi comunicativi andando a braccetto, con ottimi risultati. Inebrianti come il vino, probabilmente.

Regine Gioiose in Terre Marchigiane

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Pecorino (Offida),
Azienda Vitivinicola Mencerù.

Abbiamo fatto molta fatica a reperire immagini di bottiglie di questa azienda marchigiana. Ma anche solo l'etichetta di questo Pecorino valeva lo sforzo. Ci scusiamo perché le immagini trovate non sono comunque molto definite. Diciamo che l'azienda difetta nella comunicazione, ma non manca di simpatia e creatività (non si trova nemmeno un sito, allo stato attuale: solo una pagina su FB, aggiornata di rado). L'etichetta del Pecorino (vitigno tipico di Offida) è davvero gigionesca: una regina, con una botticella sotto braccio, sta cavalcando in modo ardimentoso un pecorone.
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Un braccio proteso verso l'alto, con un calice in mano, brinda con impeto mentre un grido d'assalto gioioso esce dalla sua bocca. Mette di buonumore a prima vista. Il tratto è quasi fumettistico, semplice ma con una propria personalità. Non si reperiscono notizie sull'autore della illustrazione in esame, così come nulla si sa del nome aziendale, "Mencerù", insolito e probabilmente di estrazione dialettale. Bello il marchio, inteso come stemma che contraddistingue il logo aziendale. Antico e tradizionale, in contrasto con l'immagine gioconda e dinamica dell'etichetta. In ogni caso il packaging è attenzionale, equilibrato, insomma ben riuscito.

Forte e Chiaro, Come il Grido del Vulcano

Magma, Nerello Mascalese, Frank Cornelissen.

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I vini di questo produttore che ha base sulle pendici dell'Etna, sono davvero particolari, così come originale, assolutamente naturale, è l'approccio filosofico prima ancora che fisico, di questo belga, impiantatosi in Sicilia. Il nome e cognome del produttore infatti tradiscono subito radici estere. Ma sono le radici delle sue vigne che dettano legge, da qualche anno, tra gli appassionati di "vini veri". Valga come sintesi della sua filosofia produttiva una frase che campeggia su un muro nella cantina di Frank: "Prima di essere buono, un vino deve esser vero". Verità o amalgama filosofica, qui siamo di fronte certamente a una visione particolare del lavoro dell'uomo a contatto con la natura. Ma torniamo alle etichette, nel nostro caso a quella di un Nerello Mascalese che dichiara a tutta lunghezza (verticale) e con il fragore del colore rosso il nome "Magma", la materia geologica che contraddistingue il terreni attorno all'Etna. Si tratta di un nome forte abbinato a un design aggressivo. Due elementi che esprimono bene il concetto del prodotto. Le altre etichette di questo produttore non spiccano per creatività, ma questa si fa notare. Facile, direte voi, con dimensioni grandi e colori forti. Ma insomma, meglio così che in modo anonimo. Almeno l'attenzione viene attirata. E "Magma" risulta comunque un nome evocativo e centrato.

Sfere Rosse su Destriero Storico

Purple Rose, Rosato (Sangiovese e Merlot), Castello di Ama.

Certo che per uno dei "Re del Classico" come Castello di Ama, non deve essere stata una decisione facile adottare questa etichetta davvero particolare e fuori dagli schemi tipici della regione e profondamente divergente dalla storia del produttore stesso. Quasi shockante nei colori e nella proposta di design, anacronistica e inusuale. Al punto che il classico cavaliere compunto delle etichette tradizionali diventa uno schizzo, un tratto, un accenno a matita, attorniato da una nevicata di pois rossi su fondo rosa. Tra il contemporaneo e la provocazione artistica fine a se stessa. La parte sottostante dell'etichetta mantiene una dignità e un ordine costituito, ma il cromatismo superiore sconvolge (in compenso coinvolge). Azzardo? Vento nuovo? Esperimento? Il produttore dice che vista la nuova modalità di produzione del vino (negli ultimi anni è stata adottato un tipo di fermentazione sperimentale in barrique) "affinché l’effetto fosse percepito dal mercato abbiamo deciso di cambiare la nostra storica etichetta e di dare al vino un nome: ecco come nasce Purple Rose". A questo punto ci arrendiamo e contiamo sulla consueta grande qualità di questo noto produttore toscano. Guardando pur sempre con simpatia alle innovazioni anche per quanto riguarda le etichette.

In Rete si Trovano anche Bufale "Vere"

Elea, Paestum Bianco Igt (Greco), San Salvatore 1988.

grafica marketing immagine brandingNon tanto il nome di questo vino ha attirato la nostra attenzione (ne parliamo comunque più avanti), piuttosto una frase alla base dell'etichetta: "Ho visto un bufalo tra le vigne ed ho bevuto vino. Ho visto un bufalo tra le vigne e lui ha visto me." Il protagonista è certamente l'animale tipico del Cilento, che in forma sintetica si staglia nella parte sinistra dell'etichetta, in modo visibile anche da lontano. Bella stilizzazione, tra l'altro. Ben eseguita. Tra l'artistico e l'iconografico moderno. Bufalo, sia ben inteso, non bufala, come si evince chiaramente dal perimetro del tratto disegnato. Anche se una delle bandiere concettuali dell'azienda è la presenza di una nutrita mandria di bufale (femmine) che producono latte per gli umani e sterco per le vigne, mettendo in atto un circolo virtuoso che fa bene all'ambiente e all'economia aziendale. Tempo fa l'azienda lanciò un concorso per dare un nome al bufalo e dopo una attenta selezione venne deciso di chiamarlo Lucky.
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Ed ecco spiegata anche la speciale versione di etichetta che riportiamo qui a lato (purtroppo non si legge benissimo, ma l'abbiamo interpretata noi ingrandendola) dove la frase alla base riporta: "Touch Lucky, the lucky bull and be lucky." (per il vino Vetere, rosato da Aglianico). Storia complessa per un'etichetta semplice, graficamente concisa e piacevole, che a quanto pare, sommando tutto, punta a valorizzare le risorse e le tipicità della zona in cui opera l'azienda. Tornando al nome del vino (quello in alto), citiamo Treccani: "Elèa, antica città dellaMagna Grecia. Il riferimento va anche a Parmènide di Elea, pensatore greco (sec. 6º-5º a. C.), massimo rappresentante della scuola eleatica, legato alla teoria dell'essere unico, immobile e indivisibile, quale venne più tardi accreditata dalla speculazione platonica e dalla critica aristotelica. Insomma, ellenismi a parte (storia e cultura fanno sempre bene all'immagine del vino), ci troviamo di fronte anche a una ludicità scaramantica che non può che suscitare simpatia (e comunque se vi capita, toccatelo il bufalo, che non si sa mai).

Alla Fonte del Vino

marketing immagine comunicazioneAcqua della Serpa, Bianco Umbria Igt, Annesanti.

Vino davvero particolare questo, prodotto da Francesco Annesanti, nella provincia di Terni. A partire dal nome: "Acqua della Serpa". Insomma, per un vino, richiamarsi all'acqua è quanto meno originale. Si sa infatti che l'Acqua della Serpa è una fonte surgiva nei pressi di Monterivoso, dove è stata allestita un'area pic-nic molto nota in quella zona. Certo che al pic-nic ci dovrebbe essere anche del vino, oltre alla buona acqua di quelle colline. Sulla bottiglia del vino in questione (ottenuto da diversi vitigni come Grechetto, Trebbiano, Malvasia, Pecorino, Martone e altri) campeggia in grande evidenza un'anfora azzurra. Del medesimo colore, insolito per un vino, è la capsula di chiusura della bottiglia. Alla base dell'etichetta vediamo il cognome del produttore (posto su due righe) con la dicitura "Viticoltore in Valnerina". Ed ecco fatto il logo aziendale. L'anfora azzurra, complice il nome riferito ad una fonte di acqua, potrebbe sembrare anch'essa inerente ad un contenuto di H2O, e invece attesta il metodo di lavorazione del vino: una prolungata permanenza sulle bucce dentro a delle anfore in terracotta da quattrocento litri. Che dire? Che il nome non ci sembra molto adatto, e il cromatismo azzurro-cielo nemmeno, ma anche che l'etichetta si presenta in modo molto attenzionale, con forme semplici e dirette. A suo modo originale. Come, a quanto sembra, originale è il vignaiolo, al quale concediamo le attenuanti di una estrosa licenza poetica. P.S.: "serpa" sarebbe come dire biscia, serpente.