La Luce Fredda dell’Azzurro

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Primaluce, Tai e Pinot Bianco, La Costa.

Ha un bel nome questo vino. Nel significato, nella fonetica, nell’enfasi, appaga. Peccato per quello “spezzato”. E per le cromìe azzurrissime che tanto vinose (alimentari) non sono. Ma restiamo ai fatti, cioè a quello che ci racconta l’etichetta. Sulla sinistra vediamo dei tratti sottili a formare un cerchio aggrovigliato: una specie di gomitolo che ricorda il sole. Affermiamo questo anche perché siamo andati a leggere nel sito aziendale la descrizione del prodotto: “La raccolta viene effettuata alle prime luci dell’alba, quando i grappoli sono ancora freschi, in questo modo è possibile lavorare il prodotto ad una temperatura più bassa, preservandone la carica aromatica e conservandone la freschezza. Da qui l’etichetta Primaluce”. Un sole che sorge. Un sole che ha già donato i suoi raggi alle uve, nei mesi precedenti alla vendemmia, e che nel momento topico della raccolta non deve più nuocere con il suo calore. Da qui, come spesso accade con i vitigni bianchi, la raccolta all’alba, quando la frescura non compromette la freschezza del vino nascituro. Al centro dell’etichetta il nome del vino. In grande. Diviso in sillabe e separato anche dall’azione cromatica del nero e dell’azzurro. I tratti terminali della “M”, della “A” e della “U” sembrano note musicali. Donano decoro e dinamicità. Però il nome è pur sempre spezzato e questo gli impedisce di “danzare” (traduzione: vengono ostacolate la lettura e la memorizzazione). Alla base dell’etichetta, a destra, il logo e nome del produttore (La Costa, interrotto graficamente da una piuma). Riassumendo: nome molto bello, sole aggrovigliato, lettering disordinato. Ma si fa notare.

I Lapilli del Caprettone

Vigna Lapillo, Lacryma Christi del Vesuvio, Sorrentino.

Diciamo subito che questa “lacrima di Cristo” è composta per l’80% dal vitigno Caprettone (detto anche Coda di Volpe) e per il 20% da Falanghina. Un blend che dà vita a un bianco di spessore. Le immagini evocative di questa denominazione che cita il Cristo, sono riferite alla religiosità e alla forza degli elementi. Abbiamo infatti una santissima lacrima che può essere lava o, come recita il nome del vino, “lapillo”. Siamo alle pendici del Vesuvio, in Campania, e l’etichetta non ce lo nasconde: il vulcano in oro sullo sfondo ci ricorda la conformazione geologica dei terreni. Vediamo due mani, una serve da appoggio per una farfalla, l’altra regge un grappolo d’uva bianca (verde per l’esattezza, nella cromìa dell’etichetta). Il packaging è disordinato, gli elementi sono proposti tutti insieme senza una apparente logica. I colori però attirano l’attenzione: oro, arancio e verde. E poi quel “Vigna Lapillo” che contiene una storia, o forse più di una. I caratteri di scrittura sono ordinati, moderni, molto leggibili, salvo il logo/nome del produttore che viene riportato in corsivo, con uno stile arcaico (curioso il fatto che venga reiterato il “vesuvio”, questa volta in modalità scritta, nel marchio aziendale). Possiamo quindi dire di non essere di fronte a un capolavoro di design, ma un guizzo di curiosità si manifesta. Saranno le stranezze grafiche, il non rispetto delle proporzioni, una certa vena artistica, o forse l’improvvisazione di una proposta così “composta”. Di fatto la bottiglia non dispiace e il vino viaggia veloce attraverso l’ugola.

Note Nere, Chiaro Vedere

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Note Nere, Cabernet, Feudo Ramaddini.

Questa azienda siciliana ci ha abituati ormai da tempo a soluzioni di packaging originali e di spessore. Etichette che escono dalla classicità della tradizione o dai canoni grafici isolani, per avventurarsi verso nuovi territori creativi. Le proposte sono interessanti. Ad esempio la linea denominata “Note Nere” che comprende un Nero d’Avola, un Cabernet e un Syrah. L’azienda si trova a Marzamemi, terra di pescatori, ma dove, evidentemente, il mare fornisce un ottimo nutrimento anche alle vigne. Il sito internet è moderno e funzionale, e comprende un ecommerce ben fatto. La gamma dei vini non è molto ampia ma le etichette attualmente esistenti spiccano per originalità, pulizia grafica, eleganza, creatività. In questa pagina abbiamo evidenziato l’etichetta del Cabernet, che si fa notare grazie ad uno stile molto particolare: un mare in primo piano, uno scoglio, un sole sopra l’orizzonte (nell’etichetta del Syrah il sole è azzurro invece di rosso, unica differenza oltre al nome del vitigno, logicamente). L’illustrazione è semplice e piacevole. Denota uno stile artistico. Trasmette identità, personalità, valore. Anche la scelta dei caratteri di scrittura è ben studiata e in generale l’ordine degli elementi è molto equilibrato. Stona un po’, in tutto questo, il marchio aziendale: due lettere, la “F” e la “R”, iniziali di Fausto Ramaddini, proposte con uno stile molto essenziale, rastremato, da modernariato attualizzato (che vuol dire tutto e niente, questo è il problema). Il packaging passa comunque a pieni voti (anche la forma delle bottiglie, insolita, piace ed è coerente).

La Forza degli Elementi

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Allegro, Uve Bianche Selezionate, Valpanera.

Cosa desiderare di più? Soprattutto vicino alle Feste. Un vino che in etichetta afferma di essere ideale e anche allegro, un vino “...da aperitivo ma anche da tutto pasto”. Evviva. Analizzando il packaging emerge che “Ideale” è il nome di sotto-linea, mentre “Allegro” è il nome del vino (nella medesima gamma troviamo infatti l’Ideale Rosato (Refosco dal Peduncolo Rosso). Anche dal punto di vista visivo la comunicazione è generosa: nell’ordine abbiamo dei pavoni di romanica fattura (dai meravigliosi mosaici della Basilica di Santa Maria Assunta in Aquileia), quindi il disegno al tratto di un casale con una vigna antistante, infine lo stralcio di una matrice nera (a scoprire l’immagine) dentro alla quale troviamo tutte le scritte necessarie, compreso il nome della linea-ombrello, Ca’ del Borgo (no, Ca’ del Bosco è da un’altra parte, qui siamo in provincia di Udine). C’è tutto insomma. Inteso come gli elementi che servono a comunicare il prodotto. Ma c’è qualcosa che non convince. Una sensazione di scollamento. Forse gli elementi non sono ben amalgamati. Sono, come si dice nel linguaggio gergale, “una scarpa e una ciabatta”. A volte gli ingredienti della torta sono quelli giusti ma il dosaggio o le modalità di preparazione della ricetta non collimano. Nel packaging non vale la regola matematica che recita più o meno così: “invertendo l’ordine degli fattori il risultato non cambia”. Nel design cambia eccome. 

Scompiglio Creativo in Lucchesia

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Lavandaia, Alta, Syrah, Tenuta dello Scompiglio.

Ci dev’essere stato dello scompiglio creativo nelle fervide menti di chi ha creato le etichette di questa azienda toscana. Almeno per quanto riguarda i nomi dei vini: oltre a “Lavandaia, Alta”, il nome di questo Syrah in purezza, abbiamo anche Lavandaia, Madre (scritto proprio così, con la virgola in mezzo), composto da Canaiolo, Colorino e Sangiovese, poi Lavandaia, Bassa, (idem), quindi Lavandaia, Pura, (un altro Syrah) e infine Lavandaia, Nuova (Sangiovese). La fantasia si è “scatenata” anche per quanto riguarda il vero e proprio design delle etichette, cioè per quanto riguarda la disposizione degli elementi che le compongono e sui loro colori. Risultato: una serie di bottiglie molto cromatiche (monocromatiche, per l’esattezza) con testi piccoli, minimalisti. A parte il gradimento dei colori che è molto soggettivo (certo il viola è sempre critico), il packaging è davvero lineare, forse a suo modo esprime una valenza artistica (che sia moderna, contemporanea o alternativa non riusciamo a giudicare in modo definitivo).
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Inoltre, e per concludere, non abbiamo potuto ricostruire il motivo di questa “lavandaia” ricorrente e neppure l’origine del nome aziendale, “Tenuta dello Scompiglio”, che risulta davvero particolare: come minimo incuriosisce. Esprimiamo invece grande perplessità per come è stato reso il logo della tenuta: alla base delle etichette si vede una serie di quadratini, davvero elementari nella loro formulazione, dove sono iscritte le lettere del nome. Ma se lo scompiglio genera il caos, qualcosa di buono ci potrebbe essere. 

Il Lago, la Bava, l’Arte e l’Agonìa

Solorosso, Blend di Rossi, Lagobava.

Nel sito aziendale di questo produttore piemontese, con base in Monferrato, ci si imbatte subito in questa frase: “Forse non tutti sanno che le etichette Lagobava sono state create da una nostra cara amica: Susanna Crisanti, ai tempi art director di Artemide mentre oggi è la stretta collaboratrice di Oliviero Toscani! Lagobava non solo è qualità al'interno della bottiglia ma anche arte e bellezza nel vestito! Grazie Susanna!”. Anche noi ringraziamo Susanna per averci fornito l’opportunità di questa analisi. Le etichette dei vini di questa azienda sono “tutte da vedere”, nel senso che ognuno può giudicare liberamente se possono piacere o no. Cercando di svolgere il nostro compito con professionale imparzialità vogliamo far notare che il design è caratterizzato da due sigle (due lettere, si suppone, la “l e la “b”) di colori diversi, per le diverse tipologie di vino, ma con il medesimo stile. Il carattere di questo packaging sembra proprio riconducibile a qualcosa in ambito anni ‘70. Il logo aziendale, dato per scontato che le due lettere rappresentino una sintesi del nome del produttore “LagoBava”, è enigmatico quanto imbarazzante. Nel senso che permane, anche dopo una prolungata osservazione, l’imbarazzo su quale “voto” attribuire.
Personalmente e soggettivamente (insomma, a nostro modesto parere) salviamo solo il lettering (il carattere di scrittura) con il quale vengono espresse le parole in etichetta: nome e tipologia del vino, nome del produttore. Il resto è sinceramente poco spiegabile. Forse rientra nei canoni di una forma d’arte “contemporanea” (sempre che si riesca a definire correttamente cosa è da ritenersi contemporaneo). Ma veniamo alla parte più interessante: il nome dell’azienda. “Lagobava”. All’inizio non abbiamo trovato ragion d’essere, tra il lago e la bava (parole compiute) o con un improbabile neologismo. Poi abbiamo scoperto che i due titolari si chiamano Micaela Lago e Gabriele Bava. Facile, no? Lago+Bava. Facile ma non facilmente condivisibile.

Simpatia e Colore: Anarchia e Amore


Domaine de la Chappe.

Si tratta di un piccolo produttore francese di vini “naturali”. La galleria di personaggi che vedete, veste di fatto la gamma di vini dell’azienda (che ha sede a Tonnerre, vicino ad Auxerre). La serie di etichette con ritratti attira subito l’attenzione. Sono divertenti, giocosi, ben realizzati dal punto di viste dello stile illustrativo. Una via di mezzo tra una caricatura e un ritratto d’autore. Sono anche molto colorate queste etichette: non nuoce, quando si tratta di dare visibilità alle bottiglie, in uno scaffale in mezzo a decine di altre proposte. Verrebbe da pensare che queste persone, chiamate per nome, possano essere i componenti della famiglia oppure i collaboratori dell’azienda. E invece si tratta proprio di un gioco perché, ad eccezione di André (papà dell’attuale proprietario) e di Joseph (il nonno), gli altri elementi sono inventati. Tutti molto francesi, nei tratti, tranne quel Thomas che non si può evitare di ricondurre al noto personaggio della serie televisiva anni ‘80, Magnum P.I. Chi lo sa? Forse una passione d’infanzia di Vincent, attuale vignaiolo. Archiviamo questa serie di etichette con un sorriso di simpatia. Tutt’altro che serie, senz’altro allegoriche. 

La Chimica delle Etichette

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B3, Spumante Metodo Classico, 
Bosco Divino.

L’etichetta di questo spumante veneto è molto avanti. Certo sarebbe necessaria una definizione di “avanti”. Ma quel tipo di definizioni sfugge, come l’arte moderna (cosa è moderno? Qual è il punto di vista temporale?) o il vino naturale (cosa è naturale? E via dicendo). In realtà questo vino è anche “naturale”. Pensate (e leggete) che in etichetta viene scritto “veganOk”. Ce ne sarebbe da dire riguardo una moda che sta già rotolando via, come quella dei vini vegani. Ma torniamo all’essere “avanti”. Graficamente vediamo forme nette, colori secchi, forme di sintesi. Una sterilità di packaging, diciamo “rigidità”, che ricorda certi annual tedeschi con le raccolte di design degli anni ‘80 (forse ‘90, forse dopo, i tedeschi non cambiano molto il loro modo di vedere, sono rigidi anche nel prendere la vita).
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Notiamo: la scritta “spumante metodo classico” in verticale e in corsivo, non molto leggibile e il nome del vino in forma di sigla: “B3”. Una formula. Che certamente non vuole (o non vorrebbe, questo il punto) essere chimica, visto che l’azienda, che si chiama Bosco Divino, ha impostato tutto il discorso del concept e del marketing sul biologico e sul rispetto della natura (il claim che accompagna il logo aziendale recita: “la natura è innocente”, il vetro della bottiglia, la carta dell’etichetta e perfino la capsula superiore sono riciclabili, un gran lavoro). Cosa c’è che non va? Essenzialmente il nome. Troppo sterile, troppo sigla, troppo “nucleare”. Sembra che il 3 stia per i tre vigneti che apportano le uve per produrre questo spumante. Tre anche i vitigni che lo compongono: Pinot Noir, Chardonnay, Vespaiola. E anche per quanto riguarda lo stile generale del packaging diciamo che non contribuisce a trasmettere quel senso di genuinità campagnola che forse si vorrebbe.

Troppo Profumo in Etichetta

Campodora, Albana di Romagna, 
Poderi dal Nespoli.

Peccato. Perché il nome non è male. Evoca qualcosa di campestre e di prezioso, in prima battuta, questo “Campodora”. Peccato perché il resto dell’etichetta non manifesta, a nostro modesto parere, un concetto valido e coerente con il mondo del vino (con il mondo campestre un po’ sì: c’è molta vegetazione). I dubbi si concentrano su quella texture che attiene più alle confezioni dell’Erbolario, piuttosto che a un’etichetta di un vino. Comprendiamo le intenzioni del produttore: richiamare l’attenzione sulla florealità del vino e in particolare su quei fiori, erbe, piante che si possono ritrovare come sentori nel calice. L’effetto generale comunque è quello che conta. E qui siamo di fronte a una etichetta che trasmette sensazioni cosmetiche più che olfattive. Oppure, girando la frittata dall’altra parte, percepiamo un ambiente da profumeria e/o erboristeria più che da vigna o cantina. Un’altra osservazione riguarda il nome dell’azienda (iscritto nel logo rotondo in alto): “Poderi dal Nespoli”. Dove il “dal” è proprio così. Verrebbe da correggere in “Poderi dei Nespoli”. La forma scritta che è stata scelta sicuramente richiama a qualcosa di storico o di dialettale, o ancora di famigliare, questo non toglie che per il “resto del mondo” potrebbe risultare un errore. Aggiungiamo che anche il design del logo aziendale contribuisce a fornire un carattere da acqua di colonia. Ecco perché a volte non basta “fare le cose giuste” (l’etichetta qui esposta, in sé, è piacevole): è necessario cercare una coerenza  complessiva che può solo scaturire da un pensiero più ampio e circostanziato.

Vendere Vino con Simpatia

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Pigro, Merlot e Sangiovese (Rosato), Pigro World.

Il sito web di questa organizzazione commerciale è da vedere. Il simpatico personaggio che contraddistingue tutte le etichette, corre in giro tra prati e fattorie, ammiccando al pubblico con fare sarcastico e iconografico. Tutto sommato è proprio lui il protagonista di tutto. Vediamo cosa scrivono i titolari sul sito (il concetto che tiene in piedi il “sistema”): “Chi è PIGRO? È un personaggio che vive con gioia e felicità, ama stare con gli amici, adora la convivialità e ha anche un'anima profonda. Si, perchè PIGRO è un sognatore passionale, ha uno spirito romantico e corteggiatore che lo coinvolge, dolce e innamorato, nelle situazioni più piacevoli. PIGRO è anche uno scopritore, l'entusiasmo lo conduce nei luoghi più belli del mondo e ovviamente d'Italia. Il suo singolare fiuto maialino gli permette di individuare e selezionare i vini di territorio, ricchi di personalità, con un ottimo rapporto qualità prezzo, buoni da gustare tutti i giorni: vini speciali, speciali come PIGRO”. Per chi non l’avesse capito, il nome del maialino-icona (e del vino) è “Pigro”.
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Le illustrazioni sono tratte da una foto vera di un porcellino, poi elaborate graficamente con l’aggiunta di particolari divertenti (occhiali da sole, una Vespa, un ombrello, arco e frecce, etc.). Nelle etichette dei vini il maialino Pigro si presenta sempre in modo diverso, in vari atteggiamenti. In particolare sull’etichetta di questo rosato, sfondo total white, si scorge anche un timbro con scritto “Limited Edition”, che male non fa. Il simpatico personaggio strappa un sorriso, e a volte basta quello per sollecitare l’acquisto.

Ti Racconto una Cosa


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C’osa, Gamay del Trasimeno, Madrevite.

Da cosa nasce cosa, ma solo per chi osa. Potrebbe essere un buon claim per questo vino. A parte i giochi di parole, che spesso contraddistinguono i nomi dei vini, l’interpretazione del produttore è esattamente questa: “Si legge C’osa, si intende “chi osa”, un’autentica e originale interpretazione di un vitigno storico”. Il vitigno infatti non è tra i più comuni, si tratta di un Gamay, ma diverso da quello del Sud della Borgogna, quello del Beaujolais per intenderci. Questo sembra essere autoctono della Sardegna (infatti appartiene alla famiglia del Cannonau). Ma torniamo all’etichetta. Un nome che sembra generico (“cosa” è una delle parole più utilizzate in italiano per dire... quella e quell’altra cosa, in frequenti circostanze) ma si rivela particolare: C’osa, chi osa. Nel packaging design questo nome impera su un mare chiaro (etichetta bianca) dove si fa notare anche una macchiolina di oro, una specie di sigillo, in basso. In accoppiata con l’oro dell’apostrofo del nome di cui sopra. Interessante ma enigmatico il marchio (e il logo) del produttore (che sul fronte di questa etichetta non appare), Madrevite. Come già riportato in un precedente post, “il nome Madrevite riprende quello di un omonimo strumento che veniva usato dagli antichi vignaioli umbri per fissare l’usciolo (la porticina frontale delle botti di legno)”.

Belle Parole, Gentilezza Romagnola

Barlume, Cabernet e Merlot, Giovanna Madonia.

Ci sono nomi, parole, accezioni che cadono nel dimenticatoio delle lingue. Questo accade soprattutto per quanto riguarda la lingue “complesse” come quella italiana che si struttura, in un certo senso si disperde, in oltre 2 milioni di lemmi. Qualche parola va in “disuso”, diventa “desueta”, viene abbandonata. Ci sono parole belle come “Barlume” che non meritano di finire nel buio della dimenticanza. Suona bene, innanzitutto, foneticamente e poeticamente, barlume. E’ morbido, suadente, ti abbraccia mentre lo dici. E così, un barlume di speranza diventa un barlume in cantina, la fiamma di una candela. Prosa per scrittori ardimentosi. Sono molto interessanti anche gli altri nomi dei vini di Giovanna Madonia, produttrice di Bertinoro: Sterpigno (Merlot in purezza), Tenentino (Sangiovese), Fermavento (Sangiovese anch’esso, così come l’Ombroso) e poi Neblina, Chimera e Remoto (tre Albana di Romagna, fratelli di vitigno ma diversi nella lavorazione).
Le etichette sono semplici, lineari, quadrate, spaziose, quasi elementari. Ma quei nomi sdoganano l’immaginazione, la voglia di ricordarseli. Ad accompagnare i nomi di questi vini ci sono delle illustrazioni “gentili”, al tratto, appena accennate, ma presenti. Un sostegno visivo che non invade, che non vuole essere esuberante, al contrario, accennato come una brezza d’estate. Alla fine queste etichette hanno trovato il loro modo di farsi notare. Senza strèpiti, senza allegorie esagerate, senza colori fiammanti. Bensì con la forza tranquilla delle parole. Quelle belle.