Un Signor Cavallo Umbro

Esimio, Grechetto (e altri bianchi), Eraldo Dentici.

Una bella e alquanto semplice illustrazione contraddistingue questa etichetta umbra. Si tratta di un cavallo acquarellato, soggetto molto utilizzato nell’arte e spesso nel packaging dei vini. Questo in particolare sembra davvero ben realizzato, con un’anima propria, con uno stile che si fa notare, sia pure con estrema semplicità. È la dote straordinaria del genio, la semplicità. Notiamo anche il nome del vino, che incuriosisce: “Esimio”. Si intende dare dell’esimio al cavallo? Forse no. Forse all’artista che l’ha eseguito. In ogni caso esimio, dal latino eximius, secondo Treccani significa “di rare qualità, egregio”. Un “signor vino” insomma, sia pure scomodando una nota catena di enoteche italiane che, per inciso, ha trovato a nostro parere un nome azzeccato. Tornando a questa etichetta, molto equilibrata, quasi classica, notiamo in alto il marchio del produttore, una D incentrata in un cerchio rosso.

100 Anni Dedicati al Vino

100 Kent’Annos, Mandrolisai Doc, 
Cantina del Mandrolisai.

Di primo acchito potrebbe sembrare un vino del Kent (in latino Cantium, regione a nord-est di Londra con capoluogo Canterbury). Niente di più avverso: siamo nel Mandrolisai, regione della Sardegna centrale. Certo quel nome, “Kent” potrebbe ingannare. Subito dopo c’è scritto Annos e quindi si inizia a fare dei collegamenti anche per la presenza del numero 100, logicamente. Il nome del vino completo è quindi “100 Kent’Annos”. Interessante il “rational”: “In Sardegna esiste da sempre un grande principio… il rispetto per le persone anziane! Sono loro che ci hanno lasciato le vere ricchezze e ci hanno insegnato i veri valori di questa terra. Ed è per questo che solo qui, nella serenità delle cose, con aria pura, cibo sano e ottimo vino, possono vivere così a lungo”. Ci sta tutto. E anche con grande ammirazione per questa affermazione. L’azienda aggiunge, ed è importante: “Kent’annos è la prima linea vini che la cantina del Mandrolisai ha dedicato al suo territorio, un territorio oggi conosciuto anche per la straordinaria presenza di un numero elevato di persone centenarie. In base alle tante ricerche volte a capire l’elisir di lunga vita, che avvolge il mistero di queste persone, ossia il segreto, la ricetta, gli elementi che compongono questa straordinaria longevità, si è arrivati a stabilire che elementi fondamentali di questo percorso fortunato di vita siano il territorio, la serenità, il cibo. Ma componente fondamentale accertato dell’alimentazione di questi fortunati centenari, o quasi centenari, è il vino”. Giù il cappello! Anzi su, perché, tornando all’etichetta in questione, il centenario ivi rappresentato ha un cappellino, tipo coppoletta, tipico del luogo. Davvero originale il racconto, ma anche molto radicato. E davvero originale l’elaborato del packaging con il nero a fare da base e i particolari in rosso ad attirare l’attenzione. Molto bene.

Etichetta “da Parati” in Tono Barocco

Il Barocco, Vino Rosso, Perego & Perego.

Un vino in una veste particolare, in quanto composto da Croatina, Moradella, Vespolina e Barbera, e per quella livrea elegante con la quale si presenta al mondo. Il nome è “Il Barocco”, e andiamo subito a scoprire cosa c’è dietro questa accezione storico-culturale: la parola barocco che indica un movimento ideologico nato in Italia verso la fine del XVI secolo, deriva da una parte dal francese “baroque”, simile al portoghese “barroco” e allo spagnolo “barrueco”, nel significato di “perla di forma irregolare” (in italiano “scaramazza”) e d’altro canto viene utilizzata in senso estetico per indicare qualcosa di innovativo in quanto bizzarro. Rimane in ogni caso la sua origine come termine derisorio e quindi negativo. Musica, arte o cultura barocca, fatto sta che ci ritroviamo un’etichetta con una texture, appunto, barocca. Cioè quello sfondo blu carta da zucchero (la carta da zucchero veniva utilizzata per impacchettare lo zucchero venduto al dettaglio in quanto in grado di generare, per contrasto ottico, un effetto di "sbiancamento" quando il prodotto era poco raffinato e quindi di colore giallastro) con quei ricami che fanno un po’ carta da parati. Originale, in alto, l’annata scritta in verticale (ma poco leggibile). Lineari, ordinate e preziose (in oro) le scritte del nome del vino e del nome dell’azienda, alla base. Nel complesso si tratta di un’etichetta elegante, che stimola sensazioni arcaiche, artistiche, religiose e culturali che male non fanno anche a un vino dai vitigni non troppo nobili.

Trutta, la Trota che “Rutta”

Trutta, Shiraz.

È proprio questo il nome del produttore australiano della regione del Central Victorian, del quale parleremo in questo post: Trutta. Viene il sospetto che questo nome aziendale possa aver avuto origine dalla parola italiana “trota”. A parte le illustrazioni delle etichette che riguardano tutte dei pesci, e in particolar modo questa, dello Shiraz, che raffigura proprio una trota di fiume, nelle pagine del sito web troviamo questa affermazione: “Trutta is inspired by our family's love of fly fishing. The connection one feels with nature when fishing a pristine high country stream, is something we hold dear. This connection to nature, and the growing seasons expressed in our vineyards, is what we strive to portray in our wines”. Davvero curiosa questa modalità di riferirsi in modo così specifico al mondo ittico. Anche perché, si sa che, in particolare, il vino rosso con il pesce poco ci azzecca. Forse in quelle lande sperdute e in generale nei paesi di lingua anglosassone non si fanno tutti i problemi che ci facciamo noi europei nell’abbinare cibo e vino. Fatto sta che sull’etichetta di questo Shiraz guizza una bella trota. Altro discorso, se davvero l’ispirazione del nome “Trutta” viene dalla parola “trota”, sarebbe quello di verificare sempre le lingue affini e attigue di un nome, giacché “Trutta” in italiano suona un po’ come “rutta”, risonanza non piacevole, sia foneticamente sia culturalmente. Ci consoliamo dicendo che tutto sommato il moto digestivo alla fine (del pranzo o ancora meglio della cena) fa gioco e fa bene.

La Sofferenza del Merlot, nelle Marche

Pathos, Marche Rosso Igt, Cantina Santa Barbara.

Iniziamo con il nome della cantina, Santa Barbara, che è tutt’altro che di fantasia; si scopre subito, infatti, consultando il sito del produttore, che la sede dell’azienda è a Barbara, anche nome di donna, ma nelle Marche nome di un paese che si trova nell’entroterra di Senigallia. Il nome deriva infatti dai “barbari” Longobardi che lo abitarono nel IV secolo. L’aggiunta di “Santa” non viene quindi da qualche patrona o mistica della zona. Così formulato, però, può far venire in mente un’altra accezione, quella relativa a una polveriera, deposito di esplosivi. Dice la nomenclatura che Santa Barbara è la martire di Nicodemia, uccisa da suo padre, a sua volta deceduto, subito dopo, colpito da un fulmine. Ecco perché, con l’invenzione della polvere da sparo, nei depositi veniva affissa l’immagine della Santa per scongiurare, per intercessione suprema, il pericolo di esplosioni. Ma veniamo al nome del vino, Pathos, piuttosto diffuso in ogni genere di settore merceologico, essendo una parola ormai entrata nell’uso comune (dal verbo “soffrire”, ma anche impeto, calore, intensità emotiva). In questo caso è scritto in greco, e per chi non conosce questa lingua antica, risulta indecifrabile (nel retro etichetta viene scritto in lettere normali, per cui, girando la bottiglia si può leggerlo tranquillamente). Certo che in generale l’etichetta è di quel tipo di elaborazioni grafiche che lascia perplessi, forse volutamente evanescente, un po’ misteriosa, poco esaustiva (sul fronte) se non per la scritta, originale questo sì, alla base del packaging, con il millesimo di vendemmia.

Le Gesta di Egesta a Segesta

Egesta, Grillo, Aldo Viola.

Tra le etichette più semplici sulla faccia della terra, annoveriamo questa, relativa a un vino “orange”, frutto dell’ispirazione e del lavoro del produttore Aldo Viola. Il territorio è quello siciliano, nei pressi di Alcamo, dove regna libero e felice il Grillo (anche quello che canta in estate, ma qui si tratta del vitigno). L’azienda vinicola opera in regime biologico purista naturalista estremo. Ma torniamo all’etichetta. Su fondo chiaro, in alto leggiamo il nome del vino, Egesta. Si tratta di un personaggio femminile della mitologia greca, vi risparmiamo la storia completa, molto intricata, stile telenovelas argentina ma di più. Salvo il fatto che in un certo modo la faccenda riguarda anche la fondazione della città di Segesta (sede ancora oggi del noto tempio greco). Al centro dell’etichetta vediamo in piccolo il nome del già citato vitigno autoctono siciliano. Alla base il logo aziendale formato da due divinità gemellari con le iniziali A e V, che stanno per Aldo Viola, nome ripetuto alla base dell’etichetta, all’esterno della spartana cornice che racchiude il tutto (quel poco che c’è, insomma). I grandi spazi “puliti” nel design non sono negativi, anzi. Lasciano agio e visibilità agli elementi grafici che vengono collocati nell’elaborato. Certo che qui siamo di fronte a un minimalismo forse esagerato. Diciamo che se in questo modo il produttore intende esprimere la naturalità del prodotto, con pochi e semplici elementi anche in etichetta, possiamo comprendere.

Vino Rosso in Bottiglia Lattea

Alternativ (Wein), Zweigelt, Schrammel 2.0.

È davvero “alternativo” questo vino austriaco. Di nome e di fatto. Non sfugge innanzitutto che la bottiglia non è in vetro bensì in ceramica. Total white. Certo un modo davvero originale per staccarsi dalla concorrenza sullo scaffale. A parte il bianco assoluto della bottiglia, non sfugge nemmeno l’estremo minimalismo del design in etichetta: poche indicazioni, centrate, ordinate, che nuotano in un oceano bianco (questo non è assolutamente negativo, anzi). Al centro del packaging vediamo il nome del vino, reso in modo molto particolare, tra la formula matematica e la sintassi ufologica. Insomma, lì al centro c’è scritto “Alternativ”. Nome che viene riportato anche alla base: forse il produttore non è così sicuro che tutti quanti riescano a interpretare l’enigma. Sopra al nome del vino due triangoli intersecati aggiungono mistero. Per quanto riguarda il prodotto vero e proprio, cioé quello che c’è dentro a questa strana bottiglia, è tutto molto normale: vino rosso, fermentazione in acciaio, vitigno tipico della regione Niederösterreich, cioè lo Zweigelt. Se accettiamo la dicotomia che un vino rosso può presentarsi dentro a una bottiglia del latte, allora tutto bene (a parte il prezzo, 25 Euro).

Fare la Scarpetta (col Maiale)


Timido, Pinot Nero Spumante Rosé, Scarpetta Wine.

Proprio così, il nome di questa azienda, “Scarpetta”, fa riferimento a quel gesto cosi familiare che si compie (generalmente non al ristorante, meglio tra le pareti di casa) alla fine di un piatto, per raccogliere col pane anche l’ultima sporcatura di intingolo. Nel sito, rigorosamente in inglese visto che i vini in questione vengono commercializzati solo nelle Americhe, questo “accorgimento” viene spiegato così: “True to Italian traditions, part of everyday meals include drinking good wine, great conversation, and little moments of celebration. Scarpetta was created as an homage to this lifestyle. Scarpetta refers to a small piece of bread used to soak up the last bit of delicious sauce on your plate that you can't possibly leave behind”. In tutte le etichette della gamma Scarpetta campeggia, diciamo pure che trionfa, un grosso suino. Viene probabilmente anch’esso proposto come simbolo di italianità (certo non stilosa) al pari del nome dell’azienda attraverso la già nota e sopra citata “presa di sugo”. Le bollicine rosate qui rappresentate hanno anche un nome: Timido. Forse riferito anch’esso al maiale che se ne sta “sulle sue” nel packaging senza grufolare oltremisura. Sicuramente simpatica. Molto particolare. Genera riflessioni.

Un “Dipinto” Senza Gloria

La Pitturina, Bonarda Ferma, Poggio Rebasti.

Crediamo di essere proprio di fronte a una etichetta senza possibilità di appello. Le motivazioni sono diverse ed evidenti. Ma vediamo di analizzare il tutto in ordine “di apparizione”. In alto vediamo il logo del produttore, “Poggio Rebasti” (cognome di famiglia), un logo ovale, stile anni ‘60, piuttosto anonimo, simile a molti altri, insomma senza gloria né memoria. Al centro dell’etichetta c’è un disegno, accennato, quindi molto approssimativo, che rappresenta un grappolo. Non riusciamo a definirlo artistico, diciamo che non riesce a conquistare l’attenzione, anzi, esteticamente sembra essere deficitario, senza velleità dal punto di vista creativo. Alla base del packaging ecco il nome del vino, “La Pitturina”. Leggiamo la spiegazione offerta dall’azienda nel proprio sito internet: “Col termine Pitturina si identifica un vigneto che da sempre produce uve nere atte a dare vini rossi di qualità caratterizzati da ottima struttura e dall’intensa carica antocianica da cui il nome della vigna. Il colore di questo vino è talmente intenso che i nostri padri dicevano che ” poteva essere utilizzato per pitturare”. Il senso c’è: un vino molto denso, scuro, cromatico, come un inchiostro. Ma la definizione che origina dalla parola “pittura” non è certo elegante. Un diminutivo che sminuisce. Possiamo dire che si fa capire, ma anche che non aggiunge spessore comunicativo all’insieme. Attorno a questi tre elementi una semplice cornice a riquadrare (anzi, a “rettangolare”) il tutto. Non c’è infamia, ma nemmeno possibilità di lode.

Tacchi, Nacchi e Datteri nel Logudorese

Nacchinono, Blend di Rossi, Tenute Rossini.

“Siamo” in Sardegna, ad analizzare l’etichetta di questo vino rosso, targato Isola dei Nuraghi Igt, cioè un blend di Cannonau, Cabernet Sauvignon e Syrah. Lo sfondo è costituito dalla tipica “carta da pacchi”, color nocciola, leggermente goffrata, sulla quale si stagliano alcune forme grafiche a rappresentare dei calici (quelle linee rosse), alcuni cerchi più sfumati (forse richiamano disegni antenati), il marchio del produttore (una R con al centro un calice), scritte di legge alla base e naturalmente il nome del vino, in alto, ben visibile. Nome strano, difficile da pronunciare e da decifrare. Ma in questo caso ci giunge in aiuto un breve testo contenuto nel sito del produttore: “Nacchinono, l’ultimo nato in Tenute Rossini è stato chiamato come una ricorrente esclamazione in (dialetto) Sardo Logudorese: Nacchi nono!!! Sarcasticamente “hai visto? Dici di no?”, si usa per acclamare una scommessa vinta”. Bene, la storia c’è. Diciamo la sponda concettuale. Curiosa, narrabile, territoriale. Rimane il fatto che la memorabilità del nome non è facile. Non è agevolata. Almeno per chi sardo non è. Per il resto, l’etichetta appare molto spartana, tecnicamente corretta, giustamente originale (ma non troppo), sufficientemente avvistabile.

Uccellacci e Uccellini in Chiantishire

The Raven, Sangiovese, Podere Erica.

Il corvo, si sa, non è mai stato molto simpatico. E’ nero. Dicono anche che porti sfortuna. E soprattutto “pilucca” golosamente gli acini d’uva maturi, rovinando il raccolto. Allora meglio il merlo (dal quale, sembra, il nome del vitigno Merlot). Ma torniamo a noi, e a questa variopinta etichetta di un Sangiovese beverino della zona del Chianti. Come si può vedere il nero dell’uccellaccio viene ampiamente sdoganato da una sventagliata di colori arcobalenanti, alle sue spalle. Non che questo riesca a mitigare gli influssi corvacei, ma insomma i colori servono a rallegrare l’attenzione. Veniamo al nome del vino, “The Raven”. Che sarebbe “il corvo” in inglese. La ragione dell’utilizzo della lingua anglosassone, crediamo possa risiedere nella nazionalità dei due proprietari, Neal e Jan Dempsey, americani. Mentre l’enologo è italiano, Marco Giordano.  In alto troviamo il nome dell’azienda, Podere Erica, fortunatamente in italiano. L’illustrazione dell’etichetta è realizzata in modo pittorico, con un tratto di certo non raffinato. Questo non contribuisce a fugare i timori apotropaici che sopravvengono nell’osservare il mefistofelico pennuto nero. In generale si tratta di una etichetta che attira l’attenzione ma che manifesta qualche problema concettuale, a monte.

Enigma Semantico sulle Colline Pisane

Lo Sbiado, Rosso Igt Toscana, la Chientima.

Strano il nome del vino (un blend di Sangiovese, Ciliegiolo, Colorino e Buonamico), ancora più strano il nome dell’azienda che lo produce. Ma andiamo con ordine, iniziando proprio dal nome del produttore, sito in Toscana, a Terricciola, sulle Colline Pisane: la cantina si chiama “la Chientima”. Da alcune ricerche in rete sembra proprio che questo nome origini da una località detta Chientina (con la “n”) nei pressi del comune dove ha sede l’azienda in questione. La scelta di utilizzare l’attuale nome aziendale nasce dall’intenzione di onorare l’antico toponimo catastale Leopoldino nel quale la località viene riportata proprio con la “m”. Per quanto riguarda il nome del vino, “lo Sbiado”, sembra, da una ricerca su vocabolari di parole desuete, che possa significare “sgombero delle biade dal campo“; ma anche sciupìo o scialo. Il produttore ci riferisce, in questo caso, che “sbiado” è il nome della strada interpoderale che univa tra loro vari cascinali della zona. Passiamo alla grafica in etichetta: unica protagonista della parte visuale una bicicletta “tandem” su fondo chiaro, in alto il nome del vino scritto con un carattere anni ‘40, in giallo ocra. Il tandem acquisisce un significato romantico ed emozionale, infatti come ci riferiscono Daria e Alessandro, titolari dell’azienda: “Il tandem ci riporta all’unico mezzo meccanico usato dai nostri nonni per muoversi tra quelle strade polverose d’estate e fangose d’inverno. Loro usavano la bicicletta, noi abbiamo voluto prendere quell’immagine iconica e portarla sulla nostra etichetta. Il tandem perchè questo percorso lo facciamo in due ed è un percorso fatto di sali e scendi proprio come queste strade collinari, faticoso si, ma la fatica in due si sopporta meglio, perché quando siamo stanchi possiamo fermarci , prenderci il nostro tempo e stenderci sull’erba fresca a primavera o all’ombra di un grande quercia in estate. Un percorso a dimensione d’uomo con le sue stagioni le sue pause ma dove comunque per raggiungere gli obiettivi è necessario pedalare”. Concludiamo dicendo che l’etichetta è “collezionabile”, in quando proposta in tre versioni: ruota posteriore, parte centrale, ruota anteriore. Un gioco, niente più. Ma la grafica è accattivante, simpatica, coinvolgente.

Cavalli e Colori in Libertà

Wallah Wallah, Syrah, Cayuse Vineyards.

Il gioco è semplice: il luogo dove ha sede questa azienda vitivinicola americana è la nota Walla Walla Valley, tra lo stato di Washington e l’Oregon. Da qui al nome del vino “Wallah Wallah” il passo è breve. E si tratta, tra l’altro, di un passo equestre, vista l’importanza che viene data a quei tre cavallini che appaiono coloratissimi in etichetta. Si tratta sicuramente di un packaging fuori dal comune. Coraggioso, per il modo di porsi, per la fantasia e l’allegria che riesce a stimolare. L’illustrazione è semplice, quasi bambinesca, ma al tempo stesso può vantare un proprio stile artistico. Insomma, si fa notare, ed è quello che conta. Sotto a un sole giallo e ad una “nevicata” di pallini bianchi, tre cavallini che sembrano quelli dei giochi a dondolo, galoppano liberi e felici. Anche il nome del vino, alla base, sembra poter esprimere di più rispetto alla composizione delle sue lettere: risulta onomatopeico, un incitamento alla corsa dei cavalli, un grido nella prateria, un moto liberatorio. Certo i cavalli c’entrano poco col vino, ma in questo caso lo prendiamo come un inno alla natura e al rispetto dei suoi equilibri faunistici.