Trutta, la Trota che “Rutta”
La Sofferenza del Merlot, nelle Marche
Pathos, Marche Rosso Igt, Cantina Santa Barbara.
Iniziamo con il nome della cantina, Santa Barbara, che è tutt’altro che di fantasia; si scopre subito, infatti, consultando il sito del produttore, che la sede dell’azienda è a Barbara, anche nome di donna, ma nelle Marche nome di un paese che si trova nell’entroterra di Senigallia. Il nome deriva infatti dai “barbari” Longobardi che lo abitarono nel IV secolo. L’aggiunta di “Santa” non viene quindi da qualche patrona o mistica della zona. Così formulato, però, può far venire in mente un’altra accezione, quella relativa a una polveriera, deposito di esplosivi. Dice la nomenclatura che Santa Barbara è la martire di Nicodemia, uccisa da suo padre, a sua volta deceduto, subito dopo, colpito da un fulmine. Ecco perché, con l’invenzione della polvere da sparo, nei depositi veniva affissa l’immagine della Santa per scongiurare, per intercessione suprema, il pericolo di esplosioni. Ma veniamo al nome del vino, Pathos, piuttosto diffuso in ogni genere di settore merceologico, essendo una parola ormai entrata nell’uso comune (dal verbo “soffrire”, ma anche impeto, calore, intensità emotiva). In questo caso è scritto in greco, e per chi non conosce questa lingua antica, risulta indecifrabile (nel retro etichetta viene scritto in lettere normali, per cui, girando la bottiglia si può leggerlo tranquillamente). Certo che in generale l’etichetta è di quel tipo di elaborazioni grafiche che lascia perplessi, forse volutamente evanescente, un po’ misteriosa, poco esaustiva (sul fronte) se non per la scritta, originale questo sì, alla base del packaging, con il millesimo di vendemmia.
Le Gesta di Egesta a Segesta
Vino Rosso in Bottiglia Lattea
Alternativ (Wein), Zweigelt, Schrammel 2.0.
Fare la Scarpetta (col Maiale)
Timido, Pinot Nero Spumante Rosé, Scarpetta Wine.
Un “Dipinto” Senza Gloria
La Pitturina, Bonarda Ferma, Poggio Rebasti.
Tacchi, Nacchi e Datteri nel Logudorese
Nacchinono, Blend di Rossi, Tenute Rossini.
“Siamo” in Sardegna, ad analizzare l’etichetta di questo vino rosso, targato Isola dei Nuraghi Igt, cioè un blend di Cannonau, Cabernet Sauvignon e Syrah. Lo sfondo è costituito dalla tipica “carta da pacchi”, color nocciola, leggermente goffrata, sulla quale si stagliano alcune forme grafiche a rappresentare dei calici (quelle linee rosse), alcuni cerchi più sfumati (forse richiamano disegni antenati), il marchio del produttore (una R con al centro un calice), scritte di legge alla base e naturalmente il nome del vino, in alto, ben visibile. Nome strano, difficile da pronunciare e da decifrare. Ma in questo caso ci giunge in aiuto un breve testo contenuto nel sito del produttore: “Nacchinono, l’ultimo nato in Tenute Rossini è stato chiamato come una ricorrente esclamazione in (dialetto) Sardo Logudorese: Nacchi nono!!! Sarcasticamente “hai visto? Dici di no?”, si usa per acclamare una scommessa vinta”. Bene, la storia c’è. Diciamo la sponda concettuale. Curiosa, narrabile, territoriale. Rimane il fatto che la memorabilità del nome non è facile. Non è agevolata. Almeno per chi sardo non è. Per il resto, l’etichetta appare molto spartana, tecnicamente corretta, giustamente originale (ma non troppo), sufficientemente avvistabile.
Uccellacci e Uccellini in Chiantishire
The Raven, Sangiovese, Podere Erica.
Il corvo, si sa, non è mai stato molto simpatico. E’ nero. Dicono anche che porti sfortuna. E soprattutto “pilucca” golosamente gli acini d’uva maturi, rovinando il raccolto. Allora meglio il merlo (dal quale, sembra, il nome del vitigno Merlot). Ma torniamo a noi, e a questa variopinta etichetta di un Sangiovese beverino della zona del Chianti. Come si può vedere il nero dell’uccellaccio viene ampiamente sdoganato da una sventagliata di colori arcobalenanti, alle sue spalle. Non che questo riesca a mitigare gli influssi corvacei, ma insomma i colori servono a rallegrare l’attenzione. Veniamo al nome del vino, “The Raven”. Che sarebbe “il corvo” in inglese. La ragione dell’utilizzo della lingua anglosassone, crediamo possa risiedere nella nazionalità dei due proprietari, Neal e Jan Dempsey, americani. Mentre l’enologo è italiano, Marco Giordano. In alto troviamo il nome dell’azienda, Podere Erica, fortunatamente in italiano. L’illustrazione dell’etichetta è realizzata in modo pittorico, con un tratto di certo non raffinato. Questo non contribuisce a fugare i timori apotropaici che sopravvengono nell’osservare il mefistofelico pennuto nero. In generale si tratta di una etichetta che attira l’attenzione ma che manifesta qualche problema concettuale, a monte.
Enigma Semantico sulle Colline Pisane
Lo Sbiado, Rosso Igt Toscana, la Chientima.
Strano il nome del vino (un blend di Sangiovese, Ciliegiolo, Colorino e Buonamico), ancora più strano il nome dell’azienda che lo produce. Ma andiamo con ordine, iniziando proprio dal nome del produttore, sito in Toscana, a Terricciola, sulle Colline Pisane: la cantina si chiama “la Chientima”. Da alcune ricerche in rete sembra proprio che questo nome origini da una località detta Chientina (con la “n”) nei pressi del comune dove ha sede l’azienda in questione. Forse la leggera deformazione del nome, utilizzando la “m” invece che la “n”, potrebbe far pensare all’intenzione di differenziare il nome per ragioni burocratico-fiscali (in questo modo però si perde comprensione oltre che pronunciabilità). Per quanto riguarda il nome del vino, “lo Sbiado”, sembra, da una ricerca su vocabolari di parole desuete, che possa significare “sgombero delle biade dal campo“; ma anche sciupìo o scialo. Soprassediamo sui nomi, entrambi molto difficoltosi, per concentrarci sulla gradevole etichetta: unica protagonista della parte visuale una bicicletta “tandem” su fondo chiaro, in alto il nome del vino scritto con un carattere anni ‘40, in giallo ocra. Etichetta collezionabile, in quando proposta in tre versioni: ruota posteriore, parte centrale, ruota anteriore. Un gioco, niente più. Ma la grafica è accattivante, simpatica, coinvolgente.
Cavalli e Colori in Libertà
Wallah Wallah, Syrah, Cayuse Vineyards.
Il gioco è semplice: il luogo dove ha sede questa azienda vitivinicola americana è la nota Walla Walla Valley, tra lo stato di Washington e l’Oregon. Da qui al nome del vino “Wallah Wallah” il passo è breve. E si tratta, tra l’altro, di un passo equestre, vista l’importanza che viene data a quei tre cavallini che appaiono coloratissimi in etichetta. Si tratta sicuramente di un packaging fuori dal comune. Coraggioso, per il modo di porsi, per la fantasia e l’allegria che riesce a stimolare. L’illustrazione è semplice, quasi bambinesca, ma al tempo stesso può vantare un proprio stile artistico. Insomma, si fa notare, ed è quello che conta. Sotto a un sole giallo e ad una “nevicata” di pallini bianchi, tre cavallini che sembrano quelli dei giochi a dondolo, galoppano liberi e felici. Anche il nome del vino, alla base, sembra poter esprimere di più rispetto alla composizione delle sue lettere: risulta onomatopeico, un incitamento alla corsa dei cavalli, un grido nella prateria, un moto liberatorio. Certo i cavalli c’entrano poco col vino, ma in questo caso lo prendiamo come un inno alla natura e al rispetto dei suoi equilibri faunistici.