La Possenza dell’Etna (in Etichetta)

Pussenti, Nerello Mascalese, Enò-Trio.

Forse il nome di questo vino viene riferito a una zona particolare o più probabilmente alla “possenza” delle viti (secolari, prefilossera) che consentono alle uve di Nerello Mascalese di esprimere grande intensità. Però non suona bene, “Pussenti”. Ricorda foneticamente qualcosa di puzzolente. Insomma non è molto elegante nella sua formulazione. Interessante, quasi un trattato di psicanalisi, il logo aziendale: un tralcio biramato dove si notano le lettere N e P e subito sotto la scritta “Enò-Trio”. Ricostruiamo l’enigma: la cantina in questione è condotta da tre persone, che sarebbero, Nunzio Puglisi, Stefany e Désirée (scritto e comunicato proprio così, come si legge nel sito internet dell’azienda). Quindi le iniziali sono del primo dei tre, mentre il nome “Enò-Trio” è evidentemente un gioco di parole tra “un trio enologico” ed Enotria. C’è dello studio quindi intorno a questo nome, cioè un pensiero che punta a generare un nome attenzionale. Non sapremmo dire se si tratta di una scelta efficace, forse confonde un po’. La grafica in etichetta propone uno scorcio dell’Etna, in fondo a una piana agricola tipica di quella regione vinicola in quota. L’etichetta risulta in fin dei conti piacevole, ordinata, classicheggiante. Sui nomi si poteva probabilmente optare per qualcosa di più comunicativo.

Un Oro che Sfavilla sulle Colline Astigiane

Orifiamma, Moscato, Cantina di Nizza.

Una visione moderna che scaturisce da un tradizione antica. Quella della cooperativa vinicola, oltre al territorio e al modo di fare vino. Le etichette della Cantina (Cooperativa) di Nizza (Monferrato) hanno un piglio dinamico, un taglio contemporaneo, soluzioni tecnologiche avanzate. Come ad esempio quella che vediamo qui a sinistra che veste il Moscato dell’azienda, fiore all’occhiello di quelle colline. Il nome del vino, “Orifiamma” si merita un excursus: Treccani ci consente di scoprire che “orifiamma viene dal francese oriflamme, che sarebbe una bandiera di colore rosso cosparsa di stelle o di fiamme d’oro e terminante in due o tre punte bordate da una frangia di seta verde e oro, originariamente insegna dell’abbazia di Saint-Denis, alla periferia settentrionale di Parigi sulla riva destra della Senna, e dal secolo 12° al 14° insegna militare dei re di Francia”. E per essere un po’ patrioti (visto che i piemontesi tendono lo sguardo quasi sempre, nostalgicamente, oltr’alpe) aggiungiamo che “Dante usò la parola per indicare la parte più luminosa dell’Empireo, nel centro della quale siede Maria: ‘così quella pacifica oriafiamma nel mezzo s’avvivava’“. A parte le francofilìe, complimenti, gran nome che nella sua semplicità porta con sé tutto il valore storico e anche organolettico del Moscato delle colline astigiane. La grafica in etichetta non delude, con soluzioni decorative di grande gusto e inchiostri e goffrature di pregio. Complimenti ai soci cooperatori.

Giocare col le Onde del Vento

Con Vento, Sauvignon e Viognier, 
Castello del Terriccio.

Si sa che il “terriccio” è il nome che si dà a quei sacchi di materiale composito che serve per piantumare i fiori e le piante sui terrazzi. In questo caso si tratta di un nome storico (toponomastica) dell’ altrimenti detto Castello di Doglia, a nord di quell’ampio territorio chiamato Maremma (che comprende anche vaste aree nell’entroterra toscano in provincia di Grosseto). In questo caso le colline più vicine sono quelle pisane. Territorio che una volta fu degli Etruschi, quasi sempre implicati nelle faccende di vino, soprattutto nel centro Italia. Ampio è anche il possedimento di questa azienda, con ben 1500 ettari di terreni, dei quali 65 vitati. Il vino in questione è un bianco che si chiama “Con Vento”. Il nome incuriosisce perché comprende un gioco di parole (volendo) che porta il significato di “convento” ma principalmente quello di “con il vento”. Siamo infatti di fronte al mare che con le sue brezze salmastre influenza benevolmente la coltivazione dell’uva. Nell’etichetta, sopra al nome in questione, vediamo il logo del produttore, un sole stilizzato ed esattamente, secondo il racconto che troviamo nel sito web dell’azienda “Negli anni ’80, durante gli scassi per piantare i primi vigneti di Lupicaia, è stato ritrovato nel terreno un reperto raffigurante il sole etrusco e da quel momento è stato utilizzato in forma stilizzata come logo aziendale”. Lupicaia è uno dei nomi noti di un vino rosso dell’azienda. Sotto al nome del vino troviamo due tratti “ondeggianti” di colore giallo. Onde anomale che vorrebbero caratterizzare il packaging sia pure in modo semplice e lineare. La grafica si distingue per una certa essenzialità, che non guasta. Alla base il nome dell’azienda. Niente di più su sfondo bianco carta. Il tutto è plausibile ma non sublime. Almeno secondo il nostro modesto parere.

4 Assi per 5 Segni (o 4 Segni per 5 Assi?)

4Cento, vini rossi, CinqueSegni.

Iniziamo subito col citare una frase che appare trionfante nella home-page di questo produttore campano: “CinqueSegni è l’unica azienda vinicola ad offrire un packaging unico al mondo, tutto Made in Italy”. E ancora, nelle pagine successive: “CinqueSegni nasce nel 2008 dal desiderio di 5 amici di dare nuova luce all’antica tradizione vinicola, coniugando due eccellenze italiane: Vino e Arte. E’ un progetto ispirato dal segno che ciascuno dei cinque fondatori ha impresso sulle loro vigne con la promessa di realizzare insieme questo sogno. La valorizzazione del terreno, la salvaguardia della tradizione vinicola e la continua ricerca della qualità da una parte, l’innovazione nel design ispirata dall’arte italiana dall’altra, hanno dato vita a prodotti unici, contraddistinti da una particolare etichetta in ceramica ultra sottile brevettata nei principali paesi del mondo”. Il nome “CinqueSegni” si riferisce a cinque segni distintivi: la Materia, la Vigna, il Liquido, l’Arte, il Tempo. Certo, al posto del “Liquido” avremmo scritto “il Vino”, ma comunque si capisce che ci si riferisce a quello. L’azienda propone diverse linee di prodotto, qui riportiamo la “4Cento”, 4 vini rossi, contraddistinti dai 4 segni delle carte da gioco, di aree diverse: Primitivo di Manduria, Montepulciano d’Abruzzo, Nerello Mascalese e Rosso Toscana Igt. Il packaging viene definito “di lusso” e le 4 bottiglie vengono proposte singolarmente o tutte insieme in un prezioso cofanetto. In etichetta il risultato di questa tecnica di stampa, con ceramica ultrasottile è sicuramente d’impatto. I colori che puntano sul nero e sul rosso, anche. Si tratta senza dubbio di etichette dotate di una forte nota distintiva.

La Storia di Pinocchio Riveduta e “Rinominata”

Pisopo, 36 vitigni diversi, Enosis.

Enosis è un centro di ricerca che si trova a Fubine, in provincia di Alessandria, capitanato da un celebre enologo, Donato Lanati. Le attività spaziano dall’agronomia all’enologia sperimentale vera e propria. E questo vino è proprio un esperimento se si considera che “contiene” ben 36 vitigni diversi. Ma la particolarità più grande riguarda il suo nome e in generale la sua etichetta, come ben spiegato nel sito del suo creatore: “…per una produzione speciale, occorreva un nome altrettanto speciale. Tutto è partito dall’esclamazione del nipotino di un bravo produttore abruzzese il quale, vedendo la grande scultura di legno del burattino di Collodi, sistemata all’ingresso di Enosis, dopo averla indicata, anziché nominarla Pinocchio, disse: “Pisopo”. Quel nomignolo mi colpì e, subito, mi prefigurai il nome stampato sull’etichetta del nostro vino. I Pinocchi disegnati sull’etichetta sono, intenzionalmente, due in quanto, nella costruzione della frase linguistica italiana e inglese, due negazioni possono esprimere una verità. Ecco la metafora: due Pinocchi (bugia-negazione) esprimono la nostra verità enologica. La storia di Pinocchio, inoltre, mi ha sempre affascinato, per via del Grillo Parlante, immagine della coscienza, impossibile da ignorare. Il vino migliore lo avevamo, l’etichetta originale anche e… Pisopo fu! La magia di una favola tutta monferrina”. Cosa aggiungere? Che il design oltre ad essere significativo è anche impattante, attira l’attenzione, genera anche simpatia. Inoltre sembra che il vino in questione non sia in vendita. La qual cosa rende tutta la storia ancora più intrigante.

Sotto il Vestito la “Bag” da 5 Litri

Fidere, Nero di Troia, Fieramosca.


Anche il vino così detto “bag in box” ha bisogno di una veste, di un packaging, e soprattutto di un nome. Ed ecco qui una confezione da 5 litri del marchio pugliese Fieramosca (riconducibile alla Cantina Sociale di Barletta). Si tratta, in realtà e per completezza di informazioni, di una linea di vini che si chiama “Fidere”. Comprende il qui evidenziato rosato da vitigno Nero di Troia oltre a un Nero di Troia in rosso, a una Malvasia e a un blend di rossi. Cosa ci racconta il produttore nel proprio sito internet? “Abbiamo chiamato questa linea Bag in Box “Fidere”. Inserendo una grafica con due mani che si stringono, Fidere dal latino “Fidarsi”, un valore importante che abbiamo voluto evidenziare, poiché ne sosteniamo tutti i principi etici. La scatola comunica tale concetto ma anche la storia della nostra cantina e valorizza il suo contenuto, dandone tutte le informazioni necessarie”. C’è un concetto quindi, e viene portato avanti anche se si tratta di una linea di vini “da quantità”. Cosa buona e giusta, ogni prodotto in gamma ha il proprio pubblico e deve avere il proprio modo di proporsi. Il packaging si presenta in modo piacevole, equilibrato, ordinato. Evidenza al nome di linea ma anche, giustamente, al marchio aziendale. Modalità moderna e funzionale.

Elogio (ma non Troppo) della Semplicità

Passio, Barbera d’Asti, Cascina Collina.

Quando si dice “fai le cose semplici”. E ne esce un’etichetta come questa. Non sempre la semplicità è fattore vincente. Ma vediamo di sfruttare questo esempio per fare alcune considerazioni estetiche e pratiche. L’azienda in questione è anche agriturismo e si trova a Nizza Monferrato, località nota per la Barbera, soprattutto dopo la recente attribuzione della Docg. Pochi elementi molto chiari, distinti, nel packaging: in alto una discutibile stilizzazione di un gruppo di alberi, presumibilmente cipressi. Perché discutibile? Perché di solito questa raffigurazione ricorda la Toscana. Ma diciamo pure che potrebbe portare “italianità”. E’ necessario precisare che l’azienda Cascina Collina appartiene a due norvegesi, Hilde e Stein, che si sono trasferiti in Piemonte nel 2015, ampliando poi l’attività enoturistica. Infatti il sito internet è solo in lingua inglese e norvegese. Tornando all’etichetta: sotto agli alberelli vediamo il nome dell’azienda, scritto in modo lineare, ben leggibile, procedendo ancora verso il basso, denominazione del vino (vitigno) e infine, in un tassello colorato alla base, il nome del vino, “Passio”, dal latino, che però non significa passione, bensì, sofferenza, patimento dell’animo, dolore morale, malattia, accidente. Questo secondo la maggior parte dei dizionari. Il design, come detto all’inizio, è molto spartano: fondo bianco e pochi e ben distinti elementi. Non dispiace, forse qualche emozione in più avrebbe giovato rispetto a questa soluzione molto didascalica. Ma in fin dei conti meglio chiarezza che confusione.

Quando il Nome non è Politically (Correct)

Frojo, Falanghina, Tenuta Vitagliano.

Ci sono nomi di vini che non si sa come pronunciare. In realtà questo si ha “paura” di pronunciarlo. Insomma, soprattutto negli ultimi anni sono aumentate le situazioni in cui certe parole non vengono accettate facilmente. In pratica è meglio non pronunciarle. Offendono, si dice. E quindi anche noi non la scriveremo quella parola, ma vi invitiamo a leggere il nome di questo vino e quindi a pronunciare come vi viene (quella parola). Che fare? Che dire? La modalità sorprende, anche perché non si tratta di una accezione nuova, anzi, affonda le sue radici nei secoli. Allora abbiamo provato a cercare se “Frojo” (testuale, il nome del vino come riportato in etichetta) possa avere qualche altra derivazione. Risultato: niente. Uno studio legale frutto del cognome del titolare. Nel caso di questa azienda vinicola irpina l’origine del nome di questa Falanghina, anche nel sito internet, non viene giustificato in alcun modo. L’azienda ha sede in Valle Caudina, ma niente di più riguardo ad eventuali nomi, cognomi, toponimi, racconti e tradizioni che potrebbero aver consigliato il nome di questo vino. Forse, ipotizziamo, si tratta di un omaggio allo studioso Giuseppe Frojo che nel 1872 scrisse il tomo “Il presente e l’avvenire dei vini d’Italia” descrivendo con particolare cura e dettaglio i vini campani. Ma questo non giustifica l’adozione di questo nome che può generare imbarazzo o peggio ancora ilarità. Per il resto l’etichetta è piacevole, bello l’arcaico logo in alto, bella e originale l’illustrazione della sirena che emerge dai flutti con un grappolo d’uva in mano.

Vino Macerato Figlio del Fato

Fatalità, Malvasia, Cantina Giara.

La fatalità, secondo le definizioni prevalenti dei dizionari, è un “caso ostile” o anche un “destino avverso”, insomma una sfortuna, un contrattempo, una disdetta. Certo, per fatalità possono accadere una varietà di fatti non previsti, ma l’accezione si orienta sempre verso qualcosa di negativo. “Fatalità” è anche il nome di questo vino, una Malvasia macerata della Cantina Giara di Adelfia, in provincia di Bari. Passiamo alla grafica in etichetta, molto decorativa. Infatti nella parte alta vediamo una trama orientaleggiante, forse di ispirazione bizantina, sotto alla quale abbiamo una parte a tinta piatta con il nome del vino, spezzato, il nome del vitigno e infine il logo dell’azienda. Non molto elegante il carattere di scrittura del nome (oltre al fatto che è diviso in due, compromettendo la leggibilità). Interessante il logo del produttore dove, a ben guardare, si scorge la stilizzazione di una collina con dei filari e con una casetta, probabilmente un trullo, costruzione tipica della Puglia. L’etichetta risulta abbastanza originale, si fa guardare, ha una propria innata eleganza, certo non per fatalità, piuttosto per progettualità. Forse il nome del vino non è troppo azzeccato e nemmeno lo stile con il quale viene scritto e quindi comunicato, ma ci sono elementi positivi che danno una valida rilevanza al packaging.

Un Vino Arancione, ma è un’Illusione

Ende Oktober Gold, Albarossa, 
Az. Agr. Gaggino (Roberto Urscheler).

Il cognome del produttore di questo vino (arancione fuori, ma decisamente rosso dentro) tradisce origini teutoniche delle quali non si trova traccia nei racconti della storia di famiglia, ma che si rispecchiano nel nome di questo vino: “Ende Oktober Gold”. L’anamnesi della famiglia racconta di origini antiche nel territorio di Mombaruzzo, Piemonte. In effetti il ramo piemontese è quello materno di Roberto, il bisnonno si chiamava Paolo Gaggino, ecco perché cognome tedesco ma radici italiane. Certo la volontà di dare un nome in tedesco a un vino molto italiano non si comprende fino in fondo. Potrebbe giustificarlo un’alta percentuale di vendite in Europa. Questo sì. Il vino è il risultato della coltivazione del vitigno Albarossa, un incrocio tra Barbera e Nebbiolo di Dronero ad opera del celebre professor Dalmasso (un Nebbiolo particolare, che alligna sui terrazzamenti alle pendici delle Alpi Marittime, poco oltre Cuneo, non distante da Francia e Liguria). Vino italico quindi, derivato da due vitigni emblematici dei territori del Nord. Veniamo all’etichetta: molto arancione, insolito colore per un vino rosso, certamente attira l’occhio. In alto lo stemma di famiglia, in grande evidenza, con la scritta “il Blasone e l’Arme” e a lato le iniziali dell’attuale titolare “R” a sinistra per Roberto e “U” a destra per Urscheler (quindi dal nome al cognome, corretto). Al centro il nome del vino (difficile da pronunciare e da digerire… per chi non è avvezzo al tedesco sarebbe “l’Oro di fine Ottobre”, che potrebbe deviare la percezione verso un passito che non è). Poi la menzione del vitigno e in basso la firma del vignaiolo (mmmh… qui cognome e nome) con la dicitura, poco leggibile, “vinificato con uve di proprietà”, affermazione importante meritevole di una migliore esposizione. Nel complesso alcune scelte di comunicazione non sono totalmente condivisibili, ma l’orgoglio di chi produce questo nettare è alto e fiero. E il vino, dicono, molto buono. Salute!

In Nome della Barbera

Nizza, Barbera, Azienda Agricola Serra Domenico.

Si tratta di una delle più recenti attribuzioni di una Docg, quella del “Nizza”. Praticamente una Barbera geolocalizzata. Una specie di Chianti Classico dell’astigiano. Una “superBarbera”, nelle intenzioni del Comitato Promotore e del conseguente Consorzio. Discutibile aver scelto come parola leader della comunicazione la prima parte del nome di questa cittadina (Nizza Monferrato, appunto) che corrisponde alla ben più nota e frequentata città della Costa Azzurra, in Francia. Nizza a dire il vero in francese si dice Nice (che a sua volta fa corto-circuito con la parola in inglese), ma storicamente, quando quel territorio era ancora italiano, la dizione era proprio quella con la due zeta. “Nizza” è anche il nome protagonista (molto protagonista) di questa etichetta del produttore “Serra Domenico” (sarebbe il caso di invertire il cognome-nome trasformandolo in un nome-cognome più consono), con sede e vigneti ad Agliano Terme. Nel packaging, a tutto campo e a lettere cubitali, viene affermato, nobilitato, urlato il nome “Nizza”. Peccato che sia spezzettato. Solita osservazione, non vogliamo risultare noiosi ma quando si tranciano le parole si commette un piccolo reato nella comunicazione. Belli quei nastri, quei festoni, rosso e oro che aleggiano attorno al nome del vino, ma il nome stesso in quel modo non si può leggere. L’impatto c’è: cromatico e calligrafico, ma infine le soluzioni grafiche messe in atto risultano grossolane.