Arte Vinicola Irpina

Fiano di Avellino, Fonzone.


Non c’è molto da dire su questa etichetta, perché in effetti c’è poco “da vedere”. Fondo bianco, nome dell’azienda alla base, due righe di separazione, nome del vitigno poco sopra, e un enigmatico tratto arancione al centro. Certo, almeno il colore vivace attira l’occhio, ma resta un dubbio sull’interpretazione di quel disegno. Andiamo con ordine: si tratta di un Fiano di Avellino di una azienda ben strutturata e con un sito internet moderno e funzionale. Molto bella la cantina, realizzata con una architettura di design. E le etichette? Mistero. Tutta la gamma è caratterizzata da tratti appena accennati, molto rastremati, diciamo “immaginativi”, come questo “scarabocchio” che vediamo sulla bottiglia del Fiano. Cosa potrebbe rappresentare (andiamo per tentativi)? Un muro, i tralci di una vite, arte moderna, un geroglifico, una scritta in qualche idioma orientale, i contorni di un paesaggio, un quadro astratto, il cielo in una stanza, chissà. Non potendo dire di più, a questo punto, di curioso, segnaliamo il nome della frazione dove ha sede l’azienda: Scorzagalline, che è diventato anche il buffo nome del Taurasi Riserva, per altro l’unico vino in gamma dotato di un vero e proprio nome.

Tra Nuvole e Buon Vino

Nuvole e Pane, 
Montepulciano d’Abruzzo, 
Fonte Riccione.

Diciamo subito che il nome di questa azienda agrituristica che produce anche vino, nulla c’entra con la nota località balneare romagnola. Infatti siamo in Abruzzo (Rosciano, entroterra pescarese) dove nei pressi della sede si trova una sorgente che porta questo nome. In secondo luogo, per parlare di questa etichetta, in particolare del nome del vino, citiamo una strofa di una famosa canzone dei Negramaro (il gruppo musicale, non il vitigno): “Ore che lente e inesorabili attraversano il silenzio del mio cielo per poi nascondersi ad un tratto dietro a nuvole che straziano il sereno... stringimi ancora, tra nuvole e lenzuola”. Nel caso di questo vino è probabile che l’appetito abbia preso il sopravvento e quindi: “Nuvole e Pane”. Immaginiamo ci possa essere anche una buona pietanza. Ma diciamo che con vino, pane e nuvole lo spettro delle necessità primarie è già completo ed esaustivo (sia pure in compagnia). Per quanto riguarda la parte visiva dell’etichetta non riusciamo a interpretare il ghirigoro che la pervade: forse i rivoli del vino versati in un calice, forse una folata di vento che scompiglia le nuvole. Vederci del pane è sinceramente difficile. Ma in fondo tifiamo per una interpretazione di tipo non didascalico e soprattutto anticonformista. Per sommi capi avanzano perplessità.

Figlio di un Vitigno Minore (o Superiore?)

Il Buon Bastardo, Cabernet Sauvignon, Cantina Gaffino.


Può esistere un “buon bastardo”? Oppure siamo di fronte ad una contraddizione in termini, ad un conflitto semantico? Sicuramente si tratta di un corto circuito percettivo, probabilmente voluto, in grado di innescare la miccia della curiosità. Il vino, dunque, si chiama “il Buon Bastardo” e si tratta di un Cabernet Sauvignon del Lazio. Sarà questa la “bastardaggine”? Un vitigno che, sia pure universale, con quella zona nulla c’entra. Vediamo di approfondire. Innanzitutto apprendiamo attraverso l’elegante sito del produttore una curiosità riguardo il Cabernet: “La prima menzione ufficiale appare con il nome “Petit Cabernet” nel Libro delle uve di Antoine Feuilhade, scritto tra il 1763 e il 1777. Nel 1784 Dupré de Saint-Maur ne scriveva in un catalogo chiamandolo “Grande cavernet (sic) sauvignon”. Il nome “Cabernet sauvignon” appare per la prima volta solo dopo il 1840”. Buono a sapersi. Del resto, il “bastardo” in questione si presenta smargiasso in ogni continente. Il mondo è casa sua. Passando ad una breve analisi dell’etichetta negli aspetti di design, possiamo dire che il fondo monocolore attizza, le parole piccole attirano, il packaging in generale attrae. Da notare in alto, sotto al nome della cantina, la dicitura “Post Vinum Eloquentes”, vale a dire che il vino fa parlare, o ancora meglio cantare. Bastardo ma verace.

44 Gatti che si Mordono la Coda

Curiosità 69, Chardonnay, 
Vini De Marco.

La paura fa 90, dicono a Napoli. Ed è infatti nelle pieghe della smorfia napoletana che abbiamo provato a dare un significato al numero 69 che troviamo su questa etichetta. La prima “traduzione”, rigorosamente in dialetto, è “sott’e ‘ncoppa”, riferito a una nota posizione ginnica da materasso, da professarsi in due. Poi ci sono altri significati, come il vestito da sposa non utilizzato, oppure un bambino intento a fare le capriole. Insomma c’è di tutto ma non la “Curiosità”, il nome di questo vino, che viene anteposto al numero in questione. Che dire del design dell’etichetta in generale? Quasi nulla. Si tratta di uno di quei packaging che praticamente propone una serie di parole, ordinate, centrate, su fondo chiaro, senza altre emozioni se non il tipo di carattere di scrittura (qui in parte arzigogolato, ma ci vuole altro) e il nome del vino. Incuriosiscono il nome (va da sé che “curiosità” incuriosisce, anche se è come un gatto che si morde la coda) e il fatidico e poliedrico numero. Beh, a dirla tutta incuriosisce anche uno Chardonnay in Salento. Ma questa è un’altra storia. Per la cronaca l’azienda propone anche un “San Carmelo 39”, un “Armonico 3”, un “Gocciarossa 5” e un “Lu Rafaeli 66” (per chi volesse giocarli al lotto).

Charmat Demoniaci alle Pendici dell’Etna

Valdemone, Nerello Mascalese Spumante, Az. Agr. Tornatore.


Questo vino spumante viene prodotto col metodo Charmat, utilizzando solo uve di Nerello Mascalese (vinificate in bianco). A livello di prodotto si tratta certamente di una orginalità: il valore è rappresentato dal vitigno (tipico della zona), il minus emerge con le bollicine (e col metodo utilizzato per produrle), piuttosto insolite (tradizionalmente) in Sicilia. Ma andiamo oltre. Ci interessa il nome del vino. L’azienda è molto legata ai toponimi, altri vini in gamma infatti prendono nome dalle contrade della zona di origine. Anche in questo caso dovrebbe trattarsi di una dizione toponomastica. Una scelta meno oculata di altre, visto che il nome “Valdemone”, sia pure senza accenti che possano influenzarne la pronuncia, potrebbe ricondurre al “dèmone”. Far pensare, insomma, a una specie di “valle del diavolo”. E visto che stiamo parlando di vigne sull’Etna, ci starebbe tutta. La lava, il magma, il fuoco, il cratere incandescente, potrebbero far pensare a qualcosa di infernale. Ma la parola dèmone, in particolare, non si porta dietro un significato neutro e pacificante. Anzi, nel vissuto e nel parlato italiano una (e forse più) sfumatura semantica negativa è proprio dietro l’angolo. Per il resto apprezziamo l’ordine e la pulizia grafica dell’etichetta e i suoi cromatismi: niente di eccezionale, chiariamo, ma comunque qualcosa di presentabile.

Iniziali che Atterriscono

Cà Viti, Orvieto Classico Superiore, Cantine Neri.


Una volta c’era la “Z” di Zorro. Questa invece è la “N” di Neri. Cantine Neri da Orvieto. Il tratto è inquietante, assomiglia a certe parole tracciate dall’assassino nei film di terrore (tipo “R-E-D-R-U-M”, da leggere al contrario, del celebre Shining, e chi non se lo ricorda?). Nelle etichette della gamma aziendale la “N” in questione viene resa un po’ in tutti i colori. Il risultato è il medesimo: si nota da lontano, questo sì; caratterizza, questo anche; si può anche definire originale... ma inquieta. Simpatici alcuni nomi dei vini, come “Bianco dei Neri” e anche “Rosso dei Neri”. Tornando alla grafica, al packaging come lo chiamano gli americani, potremmo dire che è essenziale, forse troppo. Con pensiero positivo diciamo che è senza fronzoli: sotto alla famigerata “N” troviamo il nome del produttore e il “Made in Italy”. Nient’altro. In favore delle etichette: fondi scuri, sempre eleganti. Almeno a priori. Mentre a intenditori... dipende molto da cosa ci si mette sopra (al fondo scuro).

Tini, Casini e Buoni Vini

I Casini, Terrazze Retiche di Sondrio, Assoviuno.

A pensar male si fa sempre bene, dicono. Ma noi vogliamo iniziare col pensar bene (poi passiamo anche al maligno, la nostra analisi prenderà una strada “obbligata”). Il nome di questo vino, di una piccola cooperativa valtellinese, è “I Casini”. In ordine di benevolenza: i casini sono delle piccole casette, dei casolari, delle minuscole cascine. Oppure, nel gergo popolare, i “casini” sono dei tramesti, dei guai, delle difficoltà. Passando ad analizzare il visual di questa etichetta cosa vediamo in primo piano? Un baccanale con un uomo e due donne (tutti nudi) che sembrano divertirsi molto. E allora sovviene il terzo significato di casini: un casotto, in senso di lupanare, postribolo, di bordello insomma (che deriva, quest’ultimo, dal francese antico “bordel” o “borda” che stanno per “casetta” o “capanna di assi”). E dunque si torna all’inizio, ai “Casini”. Da notare anche la scritta in latino subito sotto i festanti ignudi: “Vinum his qui amaro sunt animo”, significa in pratica “date del vino agli afflitti” (così si divertiranno un po’ anche loro, si presume). Per la cronaca la bottiglia in questione, a quanto pare, varia il proprio contenuto ogni anno. Ad esempio nel millesimo 2019 il vino pare sia stato prodotto con Incrocio Manzoni (40%), Cortese (40%), Rossola (10%) e Chiavennaschina Bianca (10%). Insomma, è un bel casino (magari anche buono).

Sperando che Non Siano Cavoli Amari

Cavolo, 
Amarone della Valpolicella, 
Brigaldara.

L’Amarone è un vino che ha voluto e saputo presentarsi ai mercati internazionali con un’aura di prestigio e di raffinatezza, a dispetto della sua origine campagnola (e dei vitigni “fruttoni” che lo compongono). Importante quindi, non solo il metodo di produzione, ma anche la veste, l’immagine, la comunicazione. Oggi l’Amarone si posiziona, a livello di prezzo, molto in alto. Le etichette dei vari produttori di spicco sono molto simili tra loro. Molto classicheggianti. Compresa questa che mostriamo qui a sinistra, dell’Azienda Brigaldara. Quello che ci ha stupito è il nome del vino: “Cavolo”. Certamente un vegetale molto salutare, il cavolo, ma anche molto “grezzo”, nei suoi sapori e odori. Un cibo spartano, da trattoria. Cosa cavolo c’entra tutto questo con un Amarone? Dunque, l’origine è toponomastica: a Grezzana, in Valpantena, sottozona della Valpolicella, c’è una via, una zona, una collina, un vigneto che storicamente si chiama Cavolo. E quindi l’azienda in questione non ha resistito alla tentazione di chiamare così, storicamente, il proprio Amarone. Ma, “cavolo!” diciamo noi, un nome così invece che nobilitare, svilisce. Soprattutto per un Amarone Docg che, come si diceva all’inizio, vuole rappresentare la punta di diamante delle produzioni venete. Infatti, leggendo il nome del vino direttamente in etichetta, il cervello non può che andare a pescare in ricordi gastronomici, probabilmente non totalmente felici, legati all’ingrediente chiamato cavolo e a tutti i suoi derivati. Certo una minestra di cavoli non si nega a nessuno, ma di certo non si presta ad essere degustata con un vino rosso di grandi velleità. E col cavolo che l’Amarone riesce a coprire gli afrori di questa varietà Brassica delle Crucifere!

Il Mio Nome è Nethun

Nethun, Vermentino, Muscari Tomajoli.

Questa azienda del viterbese riesce a generare un nome così originale che digitandolo nelle ricerche risulta al terzo posto. Nethun(s) è il nome in etrusco (antecedente) del Dio Romano delle acque e del mare, Nettuno. Ma è così poco utilizzato, nella versione etrusca, da risultare molto “ricercato”. Anche il vitigno è di quelli poco frequenti: si tratta di un clone di Vermentino di origini còrse. E per concludere l’opera anche il design dell’etichetta presenta qualcosa di originale: una illustrazione di un piccolo banco di pesci dalle velleità artistiche (a cura di Guido Sileoni). I cromatismi suggeriscono il concept: la lettera iniziale del nome del vino è in rosso, e anche uno dei quattro pesci raffigurati è del medesimo colore. A suggerire una unicità di stile, nonché ampelografica. Del resto l’etichetta è molto semplice, alla base vediamo un evidente tassello colorato che racchiude il (doppio) cognome del produttore. Non possiamo catalogarla come una delle migliori etichette in assoluto ma lo stile attira: è un packaging che colpisce e che con la sua paciosa semplicità è in grado si suscitare la giusta attenzione e simpatia.

Sangiovese, Sangioveto, Sergioveto


Sergioveto, Chianti Classico Riserva, 
Rocca della Macìe.

Questa grande e strutturata azienda fondata da Italo Zingarelli, noto produttore cinematografico, si distingue da molti anni per una gestione accurata delle proprie attività e per la comunicazione ad esse collegata. In particolare parliamo delle etichette ma, altro valido esempio, anche l’accoglienza presso la cantina e quindi l’attenzione verso il pubblico dei consumatori è encomiabile. L’azienda nasce nel Chianti anche se ha diversificato, nel tempo, le produzioni, anche in Trentino, Franciacorta e Campania. L’etichetta che mostriamo qui a sinistra è quella del Chianti Classico Riserva che si chiama “Sergioveto”. La curiosità in questo caso è che questo nome si riferisce ad una antica accezione per Sangiovese, cioè “Sangioveto”, ma anche al padre del fondatore (nonché al figlio che attualmente gestisce l’azienda insieme ai fratelli) Sergio. Ne deriva un “Sergioveto” che tiene insieme tutti gli elementi non senza un pizzico di egoica ironia. L’etichetta graficamente è uno splendore. In primo luogo perché emergono alcuni particolari in oro, ma anche perché gli elementi sono sapientemente articolati sulla superficie disponibile. Vediamo quindi gli appezzamenti vinicoli con una trama ad inchiostro speciale e in rilievo, integrati in una illustrazione di ottima qualità. Il particolare dell’indicazione del Nord geografico (a sinistra dell’illustrazione) e la scritta “Single Vineyard” (sotto al nome) sono delle piacevoli ed utili aggiunte. Per il resto: ottima scelta dei caratteri di scrittura, impaginazione pulita e ordinata, eleganza formale ma senza perdere un carattere anche rurale.

Con la Vite negli Occhi

Lagosud, Bardolino (Corvina e Rondinella), Poggio delle Grazie.

Questo Bardolino che si chiama “Lagosud”, commercializzato in esclusiva da Meteri (e-commerce), ha un aspetto decisamente inquietante. Giocando un po’ con le parole possiamo dire che nonostante le evidenze non è stata operata una scelta oculata. Vediamo perché. Al centro dell’etichetta si impone un occhio umano, color “bardolino”, che nell’iride sembra proprio “iniettato di sangue”. Visione e situazione non proprio rilassante e positiva, al di là delle velleità illustrative. Il colore della realizzazione certamente non aiuta. Ma l’elemento più insolito e poco tranquillizzante sono, appunto, quei tratti serpeggianti che si diramano dalla pupilla. Per colpire colpisce. Ma probabilmente il colpo arriva fin troppo in profondità. Non si intuisce nemmeno un legame sinergico possibile col prodotto o col territorio (non viene spiegato nel sito dell’e-commerce o dal produttore, il noto Poggio delle Grazie di Castelnuovo del Garda). Forse quei tratti al centro dell’occhio simulano delle radici? Non sappiamo. Possiamo dire di sicuro che non sono rilassanti. E per quanto riguarda il nome del vino? “Lagosud”, sinceramente, sembra il nome di una uscita autostradale. Certo “posiziona” il prodotto, ma lo fa con una modalità tra il turistico e il segnaletico.

I Fantastici Danzatori del Pinot

Winedesign branding
Tongue Dancer, Pinot Noir. 

Non può sfuggire a curiosità e attenzione una azienda vinicola californiana che ha deciso di chiamarsi “Tongue Dancer Wines” e che ha fatto di queste parole un logo, applicandolo su alcune delle proprie etichette in gamma. Il tutto viene rafforzato da una immagine che ugualmente colpisce: un cane (forse una volpe), a bocca spalancata, estende la propria lingua, sulla punta della quale danza una aggraziata ballerina. I titolari dell’azienda dichiarano apertamente il loro appassionato amore per il Pinot Nero, vino di punta della produzione. Ed è proprio l’etichetta del Pinot Nero che mostriamo qui a sinistra e quella del rosato sempre da Pinot Nero, a destra. Il curioso nome, più che un nome possiamo definirlo come una vera e propria “filosofia degustativa”, viene spiegato dal produttore nel sito web:
“So, I’m  sure you’re wondering about the name we chose. Why “Tongue Dancer Wines”? Well, what better way to give you an image of our wine’s taste and texture? You know me and my wines, and you know I like them to have a great “mouthfeel”. We wanted to create an image of taste, and as hard as that is sometimes, we think this labels captures what we’re trying to convey. In short, we make wine that dances on your tongue!”. Davvero ispirata, originale, creativa, la comunicazione di questa azienda. Forse risulterà anche un po’ strana, insolita, estrema, ma riesce a suscitare simpatia, oltre che attenzione. Riesce così a “farsi leggere”, a farsi comprendere e amare a prima vista. La vendita del vino avviene in seguito ma anche di conseguenza. E certamente gratificherà.

Confusioni tra Vini e Liquori

 Elfo, Negroamaro, Apollonio 1870.

Etichetta particolare per diversi aspetti. Sul fronte leggiamo innanzitutto il nome del vino in grande evidenza: “Elfo”. Niente di particolare se non il romantico, ecologico, fiabesco richiamo ai piccoli esseri della foresta vestiti di verde (col cappello rosso). Alla voce Elfo, Treccani risponde: “Nella mitologia germanica, piccolo essere semidivino, generalmente benevolo, che vive nelle caverne, nei boschi e in altri luoghi inaccessibili, in allegre e festose comunità“. A parte le origini tedesche del termine che nulla hanno a che fare con un vino autoctono pugliese, forse un riferimento plausibile riguarda le “allegre e festose comunità” che immaginiamo si possano radunare attorno a questo Negroamaro di elevata gradazione. Procedendo nell’analisi del packaging vediamo che il nome del vitigno in alto è scritto in blu (colore discutibile in quanto poco “alimentare”) e con un carattere (font) che ricorda quello dell’Amaro Averna. E vista l’identità delle due accezioni potrebbe verificarsi un problema di cortocircuito percettivo. Quindi leggiamo la poesia dedicata al vino che troviamo al centro dell’etichetta e scopriamo dei termini non proprio lusinghieri: t’insulta, t’uccide, t’agghiaccia, t’atterra. Oltre al fatto che il vino viene definito “liquore”. Diciamo che si tratta di una etichetta impulsiva. Non frutto di meditate riflessioni.

Una Buona Lezione di Comunicazione

Mariuolo, Rasprilli e Rampìno, Camaiola, Davide Campagnano.

Per un vignaiolo partire con il piede giusto non significa solo dotarsi di attrezzature tecniche per la vinificazione (oltre che di un bel vigneto), ma anche partire bene con la comunicazione. Questo giovane enologo ha fatto proprio così. Siamo in provincia di Caserta, dove Davide Campagnano ha iniziato a produrre vino recentemente, puntando su vitigni autoctoni come il Pallagrello Nero e Bianco e la Camaiola (che si chiama anche Barbera ma nulla c’entra con quella del nord). La nostra analisi riguarda la comunicazione e su quella torniamo. Il logo, innanzitutto. Come scrive l’agenzia che ha creato la sua realizzazione: “Un segno grafico ‘tirato a mano’. Solchi, filari, percorsi. Linee sinuose e insieme anche brusche e faticose. Nella loro traccia, la presenza delle iniziali di famiglia: la C di Campagnano, la S di Santoro, la D di Davide. tre segni di terra, nella terra, per la terra“.
E poi le etichette dei primi tre vini dell’azienda. Molto cromatiche, molto semplici in apparenza, ma con un proprio carattere. Eleganza essenziale ma in grado di farsi notare e di essere distintive. I nomi dei vini sono: Mariuolo (Camaiola), Rasprilli (Pallagrello Bianco) e Rampìno (Pallagrello Nero). Il primo si riferisce a una conosciuta terminologia per indicare un piccolo monello, il secondo, un po’ difficile da pronunciare, lo possiamo ricondurre a un mix tra “raspi” e “lapilli” (terra di vulcani), il terzo forse si riferisce a un attrezzo di lavoro. Come texture delle etichette (lo sfondo della parte cromatica) troviamo un richiamo del marchio con i tre “solchi” descritti prima. In generale ci sembra di poter dire che gli aspetti estetici sono stati ben curati.