Fare a Pezzi l’Eleganza

Chardonnay, Castiglion del Bosco.

Ogni tanto, in verità troppo spesso, a qualche produttore di vino viene la tentazione di spezzare le parole in tronconi, sillabando in modo bislacco. Succede ai nomi dei vini e anche ai nomi di vitigni (che fanno da nomi dei vini) come in questo caso. La vittima questa volta è la parola “Chardonnay”, suddivisa e distribuita su 4 righe. Non si può leggere. In tutti i sensi. La “Y”, abbandonata e navigante nel vuoto nell’ultima spezzatura, viene ancorata, bontà sua, all’annata (sezionando anch’essa in due seminumeri). Praticamente un lavoro di cesoia, di potatura semantica potremmo dire, agito nei confronti del packaging. Del resto l’etichetta è preziosa: bella la carta, ordinata l’impaginazione, distintivi alcuni elementi come la lepre stilizzata in alto, il carattere graziato della dicitura Igt, la piccola illustrazione delle vestigia in basso. L’azienda è di quelle serie e preparate, che ha il Brunello di Montalcino come fiore all’occhiello, con una storia che risale al 1100 e una proprietà “di nome” (Ferragamo). L’eleganza rimane pur sempre una questione soggettiva ma nel packaging ad una bellezza formale si deve sempre aggiungere una fruibilità funzionale.

Un Vino Alpino, di Moda in America

Alta Luna, Pinot Grigio, Dolomite Alps (Cavit).

Di bottiglie di Pinot Grigio ne circolano milioni. Soprattutto negli Stati Uniti. Infinte anche le aziende che si tuffano in questo mercato che assorbe grandi quantità di questo vino bianco “leggero”. La differenza spesso la fa la rete commerciale, oppure il marchio e logicamente l’etichetta. Ve ne proponiamo una, la matrice è Cavit, ben fatta, con caratteristiche tecniche, degne di nota. Il vino si chiama “Alta Luna”, diverso dal solito “luna piena” perché indica la posizione non la porzione della luna. Quando si trova al centro del cielo si può definire “alta”. Il nome funziona sia nei paesi anglofoni sia in Italia (forse da noi verrebbe da scrivere “Luna Alta”, ma è soggettivo). Gli altri elementi del packaging: la luna, in alto a destra, in verde luminescente (inchiostro speciale), è rivolta verso ovest ed è quindi crescente. Il carattere di scrittura del nome del vino è un corsivo molto leggibile e realizzato con un inchiostro in rilievo. Nella parte bassa dell’etichetta vediamo le sagome di alcune montagne: si tratta di un vero e proprio taglio nella carta che crea un effetto di profondità ottica. Gli elementi sono semplici, tutto sommato, ma anche ben valorizzati e armonizzati. Il risultato nel complesso offre la percezione di qualcosa di valoriale e di concettualmente legato al terroir (confermato dalla firma/logo, in basso “Dolomite Alps”).

Se le Pareti Potessero Parlare (di Arte e di Vino)

Allegracore, Etna Rosso, Fattorie Romeo del Castello.

Andiamo con ordine perché le cose da raccontare sono tante. Iniziamo col dire che il nome di questo vino è molto bello. Forse un po’ lungo, ma si fa perdonare con indubbia solarità: “Allegracore”. Insomma è un nome che “rallegra il cuore” e la sua origine lo conferma: si tratta del nome di un luogo, una contrada nel comune di Randazzo, sulle pendici dell’ iconico vulcano siciliano, che consente alla vista di spaziare su un panorama bucolico ed emozionante, a 700 mt. di altitudine. Anche il produttore si presenta con un nome particolare: Romeo del Castello. Si tratta in realtà del cognome nobile della famiglia della proprietà. L’azienda è diretta oggi da Rosanna Romeo del Castello e dalla figlia Chiara Vigo. E poi ci sono le etichette, molto semplici ma caratterizzate dalla collaborazione dell’artista contemporaneo genovese Luca Vitone. Sul lato destro di ogni etichetta (ogni anno diverse) si trova un tema decorativo frutto della selezione di alcune carte da parati presenti nella villa padronale dell’azienda, selezionate dall’artista che ne ha fatto una collezione, con l’indicazione degli ambienti dai quali sono state tratte (notare l’ultima a destra in basso, relativa all’anticucina, termine desueto come l’ambiente stesso che indica). Certo le carte da parati potrebbero avere nulla da spartire con un discorso enologico, se non il fatto che sono state testimoni nei secoli dei brindisi avvenuti nelle varie zone della casa. Nonché testimonianza di epoche diverse. Si merita una citazione anche lo scudo/marchio di famiglia in alto a sinistra nell’etichetta.

Non Solo il Lambrusco Disseta l’Emilia

Tarbianaaz, Trebbiano, Vittorio Graziano.

Su segnalazione e selezione di Sara Missaglia che ringraziamo, ecco una nuova puntata della sequela dei vini molto regionali. Davvero particolare questo Trebbiano prodotto in terra di Lambrusco! L’azienda agricola infatti ha sede a Castelvetro in provincia di Modena. Si tratta di una bottiglia che consente diverse narrazioni interessanti. Innanzitutto il suo nome, espressione dialettale per “Trebbiano”, anzi, precisamente la traduzione di “Tarbianaaz” sarebbe “Trebbianaccio”, con quel fare vezzeggiativo al limite del peggiorativo. Un prodotto enologico particolare anche per la produzione: si noti, in piccolo, sotto al nome principale, la dicitura “(il murato)”. Questo perché viene prodotto con macerazione sulle bucce per 2 mesi in una vasca chiusa, imitando una antica pratica contadina che consisteva nel chiudere le vasche di cemento con una sigillatura in gesso, con una piccola apertura per far sfiatare l’anidride carbonica come residuo gassoso della fermentazione. Questa modalità si chiamava “pratica della muratura”. L’etichetta si presenta in modo molto semplice, quasi una di quelle stampe da tipografia improvvisata. Fatto salvo l’unico elemento graficamente più complesso, sulla sinistra: il bollo/marchio del produttore in rosso acceso. Un ultimo vezzo: la firma “Graziano” sotto al nome, in corsivo. Orgoglio contadino che male non fa.

Le “V” e Soprattutto le “I”.

Levii, Brut Millesimato (Chardonnay).


L’etichetta spicca per originalità rincorrendo la verticalità di quella “V” che si colloca al centro del nome/marchio. Un taglio particolare che consente alla bottiglia di distinguersi. Quello che non va, a nostro modesto ma professionale parere, è proprio il nome dell’azienda (che funge anche da nome del vino): “Levii”. Si fatica a leggerlo sulla bottiglia ma possiamo confermare che è proprio così, “Levii” con due “i” finali. Certo il carattere di scrittura non aiuta, viene il sospetto che le due “i” possano essere due “l”, oppure una “l” seguita da una “i” (complice il fatto che le due lettere in questione sono di dimensioni diverse, una più corta dell’altra). Ma insomma non è nemmeno questo il punto. Perché “Levii”? Cosa può aver spinto il produttore a decidere per un nome così strano (poco comprensibile, poco memorabile, cacofonico, etc.) e soprattutto cosa significa? Vediamo cosa scrive a tal proposito l’azienda nel sito internet (non riuscendo a chiarire completamente l’arcano): “Il marchio si traduce in Le Vigne (probabilmente in dialetto n.d.r.) e identifica la passione per la Viticoltura. Deriva dal toponimo locale dei vigneti ed esprime il legame con il Territorio. Infine la B ricamata in oro al centro sta per Berasi ed è garante d’Impegno e Attenzione per la qualità. Cesare Berasi si impegna in prima persona affinché ogni singolo aspetto della filiera sia curato in ogni dettaglio garantendo l’eccellenza”. Si aggiunge qui la descrizione di quella “B” molto arzigogolata che avviluppa la “v” del nome. Si tratta di una ulteriore complicazione che non consente una serena e diretta percezione del  marchio, quindi del prodotto stesso. La strada per la semplicità è irta di complessità, a quanto sembra.

Un Simpatico Rè che Classico non è.

Migliorè, Taglio Bordolese, Vallepicciola.

Questa allegra etichetta viene dalla Toscana, esattamente da Castelnuovo Berardenga in provincia di Siena, dove il produttore Vallepicciola (laddove “piccola” viene proposto in versione vernacolare) vinifica, oltre al Chianti Classico, anche vitigni internazionali come questo “Migliorè”. Interessante il nome che come si può facilmente dedurre nasce dalla crasi delle parole “migliore” e “Rè”. La spiegazione esatta va trovata nel gioco di parole che deriva da “il miglior vino del Rè”, figura coronata che è anche il simbolo dell’azienda (lo vediamo in alto nel packaging). Questo vino infatti si erge a top di gamma (anche per il costo, molto impegnativo) con sole 2500 bottiglie/anno. C’è davvero bisogno di produrre un taglio bordolese in Toscana? Ormai lo fanno in molti, sulla scia degli storici Igt che hanno tracciato la via nel secolo scorso. A suo favore (di questo Migliorè) sta (stava, poi vedremo perché) la simpatica illlustrazione di un Rè beone (che in realtà “beve” un grappolo d’uva) che disincanta e rende meno seriosa la dinamica simil-francese del prodotto. Recentemente è stata realizzata una nuova etichetta (sempre con lo stesso nome del vino) molto più pacata nel design e nei colori. A noi non piace, per cui abbiamo deciso di proporre e prendere in esame questa versione. 

Un Caos Anche per i Nomi

Il Chaos, Primitivo, Enoz (Masseria Torricella).

Secondo Treccani la parola caos (anche “cao” o “càosse”, dal latino “chaos”) contiene la stessa base di un verbo greco che significa “essere aperto, spalancato”. In particoalare: “nelle antiche cosmologie greche sarebbe il complesso degli elementi materiali senza ordine che preesiste al κόσμος, cioè all’universo ordinato”. In italiano “caos” ha acquisito un significato negativo, di confusione e disordine che non vogliamo nemmeno prendere in considerazione, tanto è complesso ed elevato il significato originale. Il caos (in questo caso, il nome esatto del vino è “Il Chaos”) vuole essere l’inizio di tutto, la terra e il cielo, la natura e la biodinamica (adottata da questo produttore, con lavorazioni esclusivamente in anfora) la forza degli elementi, l’immensa ricchezza culturale e storica del vino, la voglia di ricominciare ad ogni vendemmia, lo spirito degli antenati, la passione per il proprio lavoro. In etichetta questa “confusione positiva di elementi” viene ben rappresentata da un groviglio di tratti di forma arrotondata, una illustrazione ipnotica che sicuramente attira l’attenzione. Un bisticcio percettivo ci fa credere che il nome del vino possa essere “Enoz”, le dimensioni ingannano (e si tratta di un errore). Tra l’altro il nome ufficiale, diciamo burocratico, dell’azienda è “Masseria Torricella” (considerata come azienda agricola che comprende anche la produzione di olio d’oliva). Bella la carta utilizzata per l’etichetta: materica, preziosa e genuina al tempo stesso. Grazie a Sara Missaglia per aver segnalato questa interessante etichetta.

Mille Anni di Lenta Saggezza

Castello Monterinaldi, Chianti Classico. 

Il simbolo di questo storico sito vinicolo (vanta oltre “mill’anni”, come direbbero da quelle parti) ai giorni nostri riguarda una tartaruga. Animale esotico che poco ha da condividere con la Toscana. Eppure possiamo provare a dare un senso a tutto ciò. Curiosa innanzitutto questa definizione che troviamo nel sito aziendale: “Monterinaldi è un carapace di 18 vigneti…”. Bella l’idea di mutuare il guscio della tartaruga come immagine di una collina, suddivisa in tanti appezzamenti. In più vediamo alla base dell’etichetta un motto: “Tempo & Temperanza”, sormontato dal profilo di una tartaruga, questa volta di lato e non di fronte come nella grande illustrazione che domina il packaging. Siamo nel vero cuore del Chianti Classico a Radda in Chianti. Il produttore non fa mistero, anzi ne fa un vanto, delle antichissime origini e vicissitudini di quel Castello che dà nome al vino e alla tenuta, conquistato, semidistrutto e ora sopravvissuto e tornato ad antichi splendori come azienda vitivinicola. Cosa dire del design? Molto classico, una specie di stereotipo in quella zona della Toscana, ma in questo caso la tradizione assiste a una trasgressione, tanto è sorprendente, come detto all’inizio di questo post, vedere una tartaruga rappresentare il Sangiovese sacro a quelle colline. Vale sempre il consueto discorso: distinguere per distinguersi. Osare per farsi notare. Pur sempre con eleganza e intelligenza emotiva.

Dall’Abruzzo con Fulgore

Vitapiena, Brut, Contesa.

Uno spumante brut abruzzese fa già notizia. La sua etichetta e il nome del vino aggiungono curiosità e spingono all’approfondimento. Si tratta di una bollicina quindi, da vitigni Montepulciano d’Abruzzo e Sangiovese (logicamente vinificati in bianco). La zona di coltivazione delle uve si trova a 400 metri di altitudine a Catignano, entroterra pescarese. Veniamo al nome: “Vitapiena”. Il significato è di facile intercettazione, alludendo a uno stile di vita colmo di soddisfazioni, traguardi, affetti e perché no, celebrazioni. Avere una vita “piena”, non necessariamente di impegni e preoccupazioni, ha un significato positivo, di realizzazione. Le bollicine in effetti sono prevalentemente gradite nel caso in cui si ha qualcosa da festeggiare: ancora oggi gli spumanti non riescono a sdoganarsi da questa immagine e questo nome mantiene il prodotto in questa dimensione. O forse, per chi vuole comprenderlo in modo alternativo, indica la strada per una “vita piena” tutti i giorni, chissà, proprio per merito di questo vino. Il design dell’etichetta è modernista, tutto “nero e acciaio”, molto tagliente, estremo, di una semplicità facile piuttosto che estrosa. Diciamo pure che nel panorama degli spumanti italiani si fa notare.

Un Sangiovese con un Taglio Moderno

Azzero, Sangiovese, Podere il Palazzino.

L’etichetta, intesa come grafica e cartotecnica è molto originale. Attira l’attenzione quel taglio disassato che destabilizza l’occhio e travalica l’orizzonte. Un’etichetta storta, direbbe qualcuno. Incollata male. Invece si tratta di design. Minimalista, possiamo aggiungere. Al punto che anche il nome del vino viene proposto in modo semplice, diretto, nero su bianco, con un leggero rilievo dato dall’inchiostro materico. Per il resto, sul fronte etichetta, null’altro. Carta bianca, nel doppio senso delle parole, ad un gusto estetico che sa di arte contemporanea e che vendica la caducità di un’area vinicola tra le più classiche e storiche d’Italia. Il nome del vino è “Azzero” ed è facile intuire che si tratta proprio quel non-numero, nullo e rotondo, ad indicare la totale assenza di solfiti aggiunti. Una moda? Forse. Perdurante? Chi lo sa? Certo non sono in molti a optare per questa scelta estrema, che richiede molta accuratezza nelle lavorazioni di uve e mosti. Il nome è significante e significativo. Veloce e affilato. Va aggiunto solo che i lieviti sono indigeni e che, sì, c’è anche qualcosa d’altro nell’etichetta, in rosso: l’annata di vendemmia. Di quel che serve non manca niente. 

Alle Origini dell’Italianità

ZioBaffa, Pinot Grigio,
Tenuta Poggio al Casone
(famiglia Castellani).

Un nome decisamente buffo, “Baffa”. In realtà è il cognome di un regista americano, Jason Baffa, per altro di origini italiane. Ma vediamo tutta la storia, divertente, che origina questa etichetta. C’entrano il surf e le riprese di un film dal titolo “Bella Vita”, girato nel 2012 in molte zone d’Italia, tra le quali anche il litorale e le colline pisane. Si tratta di un vino biologico, un pinot grigio, prodotto grazie all’esperienza della famiglia Castellani titolare della Tenuta “Poggio al Casone” di Crespina in provincia di Pisa. Tornando al film in questione, la narrazione racconta della vera storia di un giovane, Chris Del Moro l’attore, che arriva in Italia per scoprire le proprie origini. Si racconta che nelle giornate dedicate alle riprese la troupe ha partecipato alla concomitante vendemmia e ai conseguenti banchetti all’imbrunire, da qui l’idea di chiamare il vino “ZioBaffa” in omaggio all’appetito e alla “sete vinicola” del regista. Graficamente il packaging presenta la forma dello stivale italico avvolto in un originale moto ondoso (con bussola). Risultano simpatici il nome, naturalmente, ma anche la grafica, con caratteri di scrittura un po’ “western”. Rivolgendosi principalmente al mercato americano vediamo le classiche scritte che riguardano la coltivazione “organic” (in inglese) delle uve (grapes). Curioso infine il tappo a fungo. Anch’esso siglato col nome del vino. Da filmmaker a winemaker a volte il passo è breve: con un sorso di italianità.

Un Inchino Trentino a Carlo V

Inkino, Spumante Metodo Classico,
Mas dei Chini.

Il Metodo Classico Trento Doc ha molti estimatori e anche molti produttori, sia pure in un territorio davvero ristretto e spesso impervio. Si tratta di bollicine. Il nostro Champagne, insomma. L’etichetta che portiamo in osservazione fa parte di una famiglia di prodotti dell’Azienda Agricola “Mas dei Chini”, azienda anche agrituristica con una significativa produzione di vini, anche fermi, della tradizione trentina. Il nome del vino, in questo caso, è una commistione tra una parola di senso compiuto (sia pure con quella “k”  che somiglia a una “r” e che fa un po’ strano e anche straniero) e il riferimento ai “Chini” del nome aziendale. Immaginiamo che i chini (le chine) siano gli appezzamenti scoscesi che a destra e a sinistra della Val d’Adige dipingono il territorio montano del Trentino. Inchino è anche, naturalmente, un gesto di cortesia, di rispetto, di circostanza ma anche di riverenza. Da qui il fatto che può attirare l’attenzione ed essere memorabile. L’etichetta è “spumantosa”, con tratti neri, antracite, argentati, decorativi, graziati, tipici di un’eleganza celebrativa. Il prodotto in questione (Chardonnay 60% e Pinot Nero 40%) si avvale anche di un sottonome, tale “Carlo V”, il famoso imperatore di “un impero dove non tramontava mai il sole” che si estendeva, nel periodo di massimo splendore, a metà del ‘500, dalla Spagna al Nord Italia, dalle Fiandre al Regno di Sicilia. In ultima analisi è notabile e notevole il carattere di scrittura del nome “Inkino”: un graziato sfizioso dove i puntini sulle “i” sono mezzelune e la “k” protagonista al centro dell’etichetta ricorda una sciabola.