Un Cinghiale Stellato sulla Costa Etrusca

Pervale, Blend di Rossi, Az. Agr. Urlari.

In prima battuta è interessante spiegare le origini del nome aziendale “Urlari”. Potrebbe sembrare un cognome e invece il titolare di questa vitivinicola toscana si chiama Roberto Cristoforetti. Il significato lo spiega egli stesso nella pagina dedicata alle presentazioni, nel sito web: “Si racconta che durante la Seconda Guerra Mondiale l’esercito  alleato si nascondeva nei boschi della zona, circondato dalle truppe di Mussolini…”. In sostanza, per evitare comunicazioni intercettabili via radio, gli alleati comunicavano tra loro urlando. Quel luogo, dove ora si trova l’azienda, veniva quindi detto “degli Urlari”. Tornando a questa originale e vistosa etichetta, vediamo che il vino si chiama “Pervale”, chiaramente un riferimento a una persona che si chiama Valentina, che nel dettaglio è la giovane figlia del titolare. Al centro, evidenziato da un tassello a sfondo rosso, vediamo l’illustrazione di un cinghiale, amico e nemico di chi abita queste terre ed è abituato a convivere con questa pelosa specie. Amico perchè a volte finisce gustosamente nel piatto, nemico perché distrugge le vigne e si nutre dell’uva matura. Il cinghiale in questione è disegnato in modo molto particolare: sembra una divinità, o un personaggio dei tarocchi. Dietro la sagoma del cinghialotto vediamo raggi di luce solare e stellare, come ad illuminare il protagonista della scena. In generale si tratta di un’etichetta molto attenzionale che fa il proprio dovere (in termini di visibilità) per aumentare le vendite.

Canta un Gallo Sgarrulo, sulle Colline Ungheresi

Kakas, Pinot Noir e Merlot, Vylyan.

Il produttore, ungherese, ha sede in Pannonia. L’etichetta è senza dubbio di quelle che attirano l’attenzione: lo stile fumettoso e cromaticamente intenso dell’immagine centrale (in linea con il colore del vino, un rosato) suscita subito simpatia. Si tratta di uno spelacchiato pennuto e infatti, in ungherese, “Kakas” (nome del vino) significa proprio gallo. Il racconto del produttore, che si trova tra le pagine del sito internet aziendale, narra che “Kakas”, è uno dei personaggi dell'antica leggenda di Villány (località dove si trovano i vigneti) cioè il gallo salvifico che, sgarrulo, annuncia che il sole è ormai sorto. Il packaging risulta molto accattivante, gli elementi si stagliano su un fondo bianco, i colori dell’illustrazione sono molto vistosi, così come il nome del vino, in rosso. Il nome del produttore, invece, in alto nell’etichetta, viene proposto in nero con un carattere di scrittura antico, arcaico, amanuense, tale da compromettere l’esatta lettura del nome stesso. La presenza di ben due “y” complica le cose, soprattutto per chi non è aduso alla complicatissima lingua ungherese. Nel complesso una bella operazione di packaging che porta notorietà ed empatia.

Un Riesling Italico “Tipico” del Lago Balaton

Badacsonyi Olaszrizling, Szaszi Birtok.

A parte l’estrema difficoltà (in lettura e in pronuncia) delle parole in ungherese, siamo di fronte a una curiosità che potrebbe sorprendere: il vitigno che è all’origine di questo vino è il Riesling Italico (Olaszrizling in ungherese, mentre Badacsonyi è il nome della regione vinicola che si affaccia sul lago Balaton). Ebbene, il Riesling Italico in Italia non è molto rinomato e rispettato, mentre in Ungheria ne hanno fatto un tema di specificità. Vediamo un brano tradotto dal sito del produttore: “Una vera varietà mitteleuropea del bacino dei Carpazi, che ha molti sinonimi… (il Riesling Italico). La sua origine è avvolta nell'oscurità, ma è abbastanza certo che (in Ungheria) è impossibile immaginare un Riesling Italico lontano dal lago Balaton”. A parte questo la curiosità nasce anche dall’osservazione dell’etichetta: molto pittorica, al punto che la carta risulta in rilievo, come se fosse rimasta traccia delle pennellate di colore. L’effetto è proprio quello di un quadro, con al centro il nome del produttore. Molto bucolico, campestre, ma al tempo stesso artistico e valoriale. Davvero una soluzione originale. E il vino? I nostri emissari a Budapest, dove è stato trovato e degustato, dicono che è molto buono! Egészségére! (che dovrebbe essere un “prosit” in Ungherese)

Il Latte lo Berremo un Altro Giorno

No Milk Today, Savagnin, 
Les Bottes Rouges.

Abbiamo qui un’etichetta da premiare moralmente anche solo per il simpatico nome del vino: “No Milk Today”. Si tratta di un “orange wine” di un produttore francese, dello Jura. Il nome dell’azienda “Les Bottes Rouges” si rifà a un brano del gruppo francese “Les Wampas”. Tornando all’etichetta dobbiamo dire che graficamente sembra piuttosto improvvisata: una parte centrale con un quadrato formato da altri piccoli quadrati colorati (che impediscono la lettura lineare del nome), un bollo rosso in alto a sinistra col nome dell’azienda e del proprietario, scritte di legge in basso con la classica tipografia (carattere di scrittura) che simula la macchina da scrivere. Il tutto tenuto insieme in modo approssimativo. Ma è il nome del vino, come dicevamo, che assurge ad assoluto protagonista. La dicotomia tra il latte e il vino è nota a tutti e in tutto il mondo: il latte è salute, il vino è vizio (ma anche gioia e condivisione, logico). In questi termini l’affermazione “no milk today” ci porta simpaticamente in un clima di trasgressione che celebra il vino senza denigrare del tutto il latte e il suo “mondo”: ci saranno giorni anche per il latte, ma questo è dedicato al vino e a tutto quello che ne consegue.

Camillo Benso, Quello è il Senso

Cavuret, Metodo Classico (Nebbiolo),
Cascina Quarino.

Iniziamo in modo ironico col dire che la sede di questa azienda piemontese è Aramengo. Si tratta proprio del nome del paese, in provincia di Asti, dove vengono coltivate le uve e prodotti i vini, da cinque generazioni, dalla famiglia Fasoglio. Un’altra indubbia particolarità è dovuta al vitigno con il quale viene prodotto questo spumante (che vanta 36 mesi sui lieviti): il Nebbiolo. Esperimento che in Italia conta davvero pochi eguali. Eppure questo vino è nato (produzione limitata, per ora) ed è stato nominato… col soprannome di nonno Giulio: “Cavuret”. Cosa significa? Sembra proprio che il nonno in questione avesse un carattere combattivo e tenace simile al ben noto politico torinese Cavour (onore ai suoi meriti, anche vitivinicoli). L’etichetta si caratterizza per ben pochi particolari: il fondo tutto nero, le scritte in oro (il nome, Cavuret, in corsivo e obliquo), il logo della Cascina Quarino in alto (una “Q” che comporta anche una botte stilizzata e un accenno di grappolo). Non siamo abituati a questo tipo di vini, e nemmeno tanto spesso a questo tipo di etichette, soprattutto in un Piemonte tipicamente conservatore. Possiamo però dire che l’esperimento è riuscito: incuriosisce il nome, così come l’etichetta e anche il vino, che sfida la tradizione con leggiadria. Gli elementi da “portare in tavola” ci sono tutti. Un pezzo di storia anche. Il calice può essere elevato con orgoglio.

Un Pinot Nero Proiettato nell’Azzurro

Astropinot, Pinot Nero, Ca’ del Conte.

Paolo e Martina Macconi coltivano nella zona di Rivanazzano Terme, in provincia di Pavia, 16 ettari di vigne con prevalenza di Pinot Nero. La punta di diamante della loro produzione è questo straordinario “Astropinot”, che loro amano definire come “un Pinot stellare”. Frutto della raccolta selettiva di uve dalle migliori posizioni dell’azienda, viene lasciato macerare per 25 giorni. Il regime di produzione è biologico. Ma veniamo alla sorprendente etichetta che ci mostra una illustrazione con stile di fumetto dove un personaggio tra il buffo e l’avventuroso cavalca una bottiglia e a briglie sciolte si dirige, come se pilotasse un razzo spaziale, verso l’immensità del cosmo. Sotto alla bottiglia leggiamo il nome, integrato graficamente con la divertente illustrazione. Alla base dell’etichetta leggiamo il nome del produttore e la localizzazione. Si tratta di quel tipo di etichetta che vuole essere scanzonata, a rischio di sembrare poco seria. Attira l’attenzione, genera simpatia, favorisce l’acquisto. Per la fidelizzazione dei clienti, logicamente, il compito viene demandato alla qualità del vino, ma per tutto il resto la comunicazione di questa azienda verte principalmente sull’ironia e la fantasia. Tanto che gli altri vini della gamma si chiamano: “Opulus, il tutore delle vigne antiche” (Pinot Bianco e Chardonnay), “Nuvola Bianca, la purezza del bianco” (Pinot Bianco, Chardonnay e Riesling), “Fenice, il frutto muore rinascendo vino” (Chardonnay), “Magush, i mago del naturale” (Pinot Bianco e Chardonnay), “Noah, la sete dopo la tempesta” (Timorasso), “Asor, naturalmente rosa” (Pinot Nero), “Mousikè, parole, suoni, saperi e sapori dal mondo” (Riesling Italico).

Uno “Champagne” che Viene da Lontano

Tasmania e Marlborough, Metodo Classico, Mumm.

La nota casa produttrice di Champagne si lancia alla conquista di vigneti al di là del mare (diciamo pure dall’altra parte del mondo). I vitigni sono sempre quelli classici che vanno a performare  le bollicine francesi, ma in questo caso sono coltivati in Tasmania e Nuova Zelanda dove il Pinot Nero in particolare, cresce bene. Ma veniamo alle etichette: non si può evitare di notare le grandi lettere che caratterizzano questi due nuovi packaging. Sono le lettere di Mumm spezzate su due righe, MU e MM, stampate con inchiostro rilucente e in rilievo. La “U” di Mumm viene interrotta dallo stemma dell’azienda (la storica aquila coronata). In mezzo alle 4 “letterone” troviamo i nomi delle prestigiose zone vinicole di quei posti lontani e la precisazione della categoria di prodotto, Brut Prestige (che non significa molto, ma fornisce valore concettuale). Il collarino è particolarmente estetico: si tratta di due nastri che si sovrappongono con un effetto decorativo efficace di tipo celebrativo, nobiliare, festoso. Lo stile è nel complesso molto dinamico, attuale, potremmo dire anche giovane, cioè rivolto a un target di acquirenti che cerca nelle bollicine qualcosa di divertente oltre che tradizionale.

Passione e Passito: l’Effetto Psicologico delle Parole

L’Afrodisiaco, Passito Rosso (Oselèta), Buglioni.

Tra le stranezze vinicole d’Italia (chiamiamole eccellenze) possiamo annoverare anche qualche raro passito in rosso. Questo, che esula dal disciplinare di zona, quello del Recioto, è prodotto con uve Oselèta al 100% e si fa chiamare “l’Afrodisiaco”. L’etichetta è di quelle anonime, ordinate, “pulite”, ma fin troppo sobrie. Il nome invece ci fornisce l’occasione di esplorare l’area della trasgressione partendo da osservazioni etimologiche: letteralmente “sostanza che stimola l’eccitamento sessuale”, la parola ha origine da Afrodite, dea greca dell’amore (Venere per gli Antichi Romani). O anche, secondo un antico dizionario etimologico: “Attributo di sostanza che eccita la libidine amorosa, come la cantaridina o il fosforo”. Per la cronaca la cantaridina viene ricavata dalle elitre di un coleottero. Di certo, a parte l’effetto disinibitorio del vino, le caratteristiche afrodisiache vengono attribuite più che altro a cibo come ostriche, tartufi, peperoncino, cioccolato, zenzero… ma sono tutte fanfaluche. Diciamo piuttosto che l’idea stessa di bere o mangiare qualcosa che si presume possa essere afrodisiaco, crea una effetto psicologico. Forse è questa l’intenzione di questa azienda nel proporre un passito, dolce, suadente, galeotto, che si chiama “l’Afrodisiaco”, come fine pasto e “inizio” di un altro tipo di serata.

Uno Spumante Roccioso in Tutti i Sensi

Dolomis, Trento Doc (Chardonnay), Finrise.

L’utilizzo di carte, inchiostri e tecnologie speciali per le etichette dei vini sta diventando prassi comune. Complice anche la diminuzione dei costi di stampa (dispositivi digitali, minor apporto di ore-lavoro umano e più automatismi). Un sobrio ma elegante esempio lo abbiamo con la nuova etichetta di questo Trento Doc che intende valorizzare la sua provenienza “rocciosa”. Il nome del vino, “Dolomis”, richiama direttamente le Dolomiti (dal nome “Dolomia” della roccia tipica di quei pendii). In tal guisa, Wikipedia ci informa che: “La dolomia è una roccia sedimentaria carbonata costituita principalmente dal minerale dolomite, chimicamente un carbonato doppio di calcio e magnesio. Questa roccia prende il suo nome (come il minerale dolomite) dal naturalista e geologo francese Déodat Gratet de Dolomieu (1750–1801), il quale osservò tale roccia nei gruppi montuosi dei Monti Pallidi”. Insomma anche in questo caso abbiamo tra i piedi un francese. Aggiungiamo che alcuni Trento Doc nulla hanno da invidiare allo Champagne. Bollicine di montagna, come vuole fortemente affermare questo produttore con il pay-off “Plasmato dalla roccia”. Vediamo i particolari di questa etichetta: l’accento giusto (sulla seconda “o”) con il quale pronunciare il nome del vino viene indicato da un simbolo che somiglia a un picco della montagna. La scritta stessa del nome viene adombrata (tagliata dal basso) da un profilo montuoso. Nei tasselli che formano il design dell’etichetta ne vediamo alcuni stampati con un inchiostro ruvido, polveroso, roccioso. Il resto lo fa l’immaginazione, ben attivata da una comunicazione studiata nei dettagli e concettualmente strutturata.

Preziosità sui Generis, Concentrazione e Comunicazione

Aprimondo (Appassimento), Sangiovese/Primitivo/Nero d’Avola, Caviro.

La nota e colossale organizzazione enoproduttiva Caviro, con sede in Romagna ma ormai ramificata in tutto il mondo, ha creato la linea “Aprimondo”, tre vini da appassimento, da vitigni diversi, autoctoni italiani. Il nome è evocativo anche se non bellissimo (nel significato sì, nella fonetica meno). Si tratta di una trovata che si rivolge principalmente all’estero, sia pure “significando” in italiano. Una apertura verso il mondo che per l’azienda è soprattutto commerciale, concretamente. Ha però anche un suo percepito nel senso di “donare” al mondo (a pagamento, s’intende) vini prodotti con vitigni storici e tradizionali dello stivale, con una vaga intenzione didattica. Il vino, si può anche dire, apre dei mondi, che sono quelli della gastronomica, dell’accoglienza, della cultura locale, della convivialità. In questi casi accomunati della ricerca di concentrazione gustativa e olfattiva generata dall’’appassimento. Graficamente l’etichetta è ben curata, anche se l’illustrazione arzigogolata protagonista del packaging è un po’ stereotipata. Insomma se ne vedono molte con questo stile. La decorazione e la finezza del design genera preziosità, non c’è dubbio, e attribuisce al prodotto un surplus di valore percepito. Il marketing ha lavorato bene e, siamo sicuri, anche il plotone di enologi che segue le produzioni dei questa azienda leader della vitivinicoltura.

La Potenza Magnetica del Gufo

Gufo, Cabernet Sauvignon, Cantina Tollo.

Questa nota cantina abruzzese, ha creato una linea di vini che si chiama e si ispira al “Gufo”. Inequivocabilmente, nelle etichette (la linea è composta da vitigni vari) si vede a tutto campo il nobile rapace. Due immagini: quella superiore, in particolare, a testa in giù. Il packaging attira l’attenzione, inoltre la grafica è molto ben eseguita con dovizia anche di inchiostri speciali (luminescenti). Ma torniamo al gufo e alla sua percezione nel vissuto popolare. La prima nota curiosa è che tra le specie di gufi che vivono in Italia troviamo il Duca Cornuto (gufo comune) e il Bubo Bubo (gufo reale). Tra le definizioni di “gufo” che ci fornisce Treccani abbiamo: “Persona, abitualmente di umore tetro e cupo, che vive rintanata per poca socievolezza…” e anche “…fare l’uccello del malaugurio”. Il gufo però, di contraltare, è simpatico: molti disegni, sculture, portachiavi, ninnoli di varia natura, lo ritraggono. Per cui c’è anche qualcuno che ritiene che possa portare fortuna. Certo, incontrarne uno, di notte, in un bosco, potrebbe essere un’esperienza segnante. Come dicevamo l’etichetta in questione è dotata di originalità e sicuramente è in grado di imprimere un ricordo: saranno forse gli occhi del gufo?

Quando c’è un’Idea

El Truc (Ancestral), Xarel-lo,
Masia de la Roqua.

Le etichette dei vini così come la comunicazione (e la vita) in generale, vengono meglio quando ci sono le idee. E l’idea deve logicamente venire prima della realizzazione. Questo produttore catalano che opera a Olivella (Barcellona) ha deciso di chiamare una linea dei propri vini “el Truc”. Il catalano è una lingua diversa dallo spagnolo (e loro ci tengono molto) tanto da somigliare ancora più all’italiano. Si intuisce facilmente che “el Truc” significa “il trucco”. E il gioco viene svelato dall’immagine, al centro dell’etichetta, dove un vignaiolo regge un grappolo d’uva che per effetto della luce e dell’ombra da essa generata… diventa una bottiglia di vino. Una magia che l’uomo, complice la natura, compie da millenni. Ricordare con un gioco di parole e di immagini la trasformazione dell’uva in nettare degli Dei è una trovata semplice quanto geniale. Perché fa simpatia nell’immediato, ma il suo effetto non finisce nel lampo di un’idea: fa pensare, fa riflettere sulle molteplici componenti che, insieme, riescono a portare una bottiglia di vino sulla tavola e a farla condividere con gioia. La storia, la cultura, le modalità produttive, il meteo, le tradizioni, la maestria dell’uomo, le peculiarità della natura, il grappolo d’uva… tutto questo è dentro una bottiglia di vino. E in ogni calice.

Per Sempre e Mai, l’Infinito Adesso

Sempremai (Sorte), Abrostine (vitigno), Cuna (Federico Staderini).

Decisamente intrigante il nome di questo rosso toscano che nasce in provincia di Arezzo. Particolare anche il vino, da un antico vitigno etrusco praticamente sconosciuto. Ma vediamo cosa si legge in etichetta: in alto quello che si può ritenere il nome ufficiale di questo rosso, “Sempremai Sorte”. Laddove la sorte non è sinonimo di destino (o di fortuna, come si dice, buona sorte) bensì una accezione toscana per il verbo “uscire”, sortire. L’attenzione va innanzitutto sull’unione delle parole sempre e mai, a formare un Sempremai del quale si potrebbe parlare per ore, tanto filosoficamente intraprende vie infinite. Sempre e mai, nello stesso tempo, il vuoto cosmico, un pieno d’anima. Oppure un “mai” che succede sempre, e quindi afferma e nega se stesso allo stesso tempo. E’ un dedalo infinito che si rincorre e che annebbia la mente. Probabilmente lo stesso effetto di questo vino, forte, denso, scuro e inebriante. Sempremai Sorte significa, di fatto, che il “prodotto” esce, cioè si manifesta, cioè viene messo in commercio “sempremai”. Cioè attenti voi che lo desiderate perché se ne producono solo 3000 bottiglie e spariscono subito. Alla base del packaging ancora un enigma: “Sortirà” e il nome dell’azienda, Cuna. Sortirà, uscirà, chissà. Stranezze che attirano l’attenzione, per un vino sostanzialmente sperimentale e per pochi. E il disegno al centro dell’etichetta? Un acino umanizzato? La dea della vigna? Un disegno infantile? Per oggi (e per sempre) basta così.