Tutti al Mare… Freschezza Solare

Doccia Fredda, 
Trebbiano d’Abruzzo 
e Passerina, Controvento.

Il territorio che ci “dona” questo vino è l’entroterra abruzzese, a Rocca San Giovanni, in provincia di Chieti, dove Vincenzo Di Meo lavora 5 ettari di vigne nel comprensorio del “Fosso delle Farfalle” (che già così, fa storytelling) una riserva naturale protetta. Le etichette di questo eclettico produttore sono molto particolari, caratterizzate da disegni, in pratica delle vignette umoristiche. Prendiamo ad esempio quella di questo vino bianco ottenuto con fermentazione spontanea in acciaio. Il nome del vino è “Doccia Fredda”, giustificato dal fatto che si tratta di una beva molto “scorrevole” e “fresca”, “che va giù tutto d’un fiato”. Insomma una sferzata di gradevole frescura, una sensazione forte come una doccia fredda. A sancire il concept, l’illustrazione in etichetta ci mostra una figura femminile, in situazione spiaggia (con abbigliamento anni ‘60) che si accinge a cogliere l’attimo di una doccia generata da una botte, con il chiaro sospetto che si tratti di vino e non di acqua. Da notare che la beach-girl calza delle scarpe col tacco che sulla sabbia potrebbero rivelarsi estetiche ma anche scomode. La finzione regna sovrana, siamo nel campo del sogno, dell’illusione, del racconto sopra le righe. Certo che il suo “mestiere” lo fa, questa etichetta, attirando l’attenzione almeno per quell’attimo necessario a condizionare la decisione di acquisto o una battuta tra amici.

Capre Sudafricane di Razza Buongustaia

Goats do Roam, Blend di Rossi, Fairview.

Questa azienda vinicola sudafricana ha chiamato una linea di vini “Goats do Roam” che testualmente sarebbe “le capre vanno in giro (vagano)”. L’ironica affermazione deriva da un fatto, che si presume vero, accaduto in azienda e che viene raccontato così nel sito internet del produttore: “La leggenda narra che alcuni capi erranti della mandria di capre di Fairview un giorno fuggirono dal loro recinto dileguandosi nei vigneti dopo che il giovane figlio di Charles Back, Jason, aveva accidentalmente lasciato il cancello aperto. Il piccolo gregge vagò felicemente tra le viti: mostrando raro discernimento fece bottino di alcuni dei grappoli più maturi. Ispirati da questa storia, ora usiamo gli acini migliori nella produzione del nostro vino Goats Do Roam. Molto beverina e di qualità superiore, la gamma Goats Do Roam è composta da vini in stile francese e italiano, ricchi di complessità a prezzi convenienti”. Simpatica la storia delle capre che vanno a scegliersi i grappoli migliori direttamente in vigna. Narrazione in grado di risultare sinergica con la modalità di produzione e la qualità dei vini, in modo poco altezzoso, anzi, raccontato con sincera allegria. Tutto il sito tratta proposte, prodotti e marchio con ironia e sostanzialmente senza prendersi troppo sul serio. Pur mantenendo un livello di credibilità elevato. Etichetta graficamente molto impattante, bella l’antica riproduzione della capra, colori e particolari stilosi. Complimenti.

Con le Bolle sulla Luna

Zuzù, Trebbiano di Spagna e Modenese, Franchina e Giarone.

Chiariamo subito che il nome dell’azienda potrebbe ingannare: Franchina non è una persona bensì un vigneto, così come Giarone non è un cognome ma il nome di un altro vigneto del produttore. Vedendo le etichette di questa giovane azienda vitivinicola possiamo dire che Luca Pizzetti, il titolare, è un sognatore. Portiamo ad esempio l’etichetta del vino che si chiama “Zuzù”, un rifermentato in bottiglia che viene prodotto con l’aggiunta di mosto congelato della medesima annata della pressatura e di zucchero d’uva. Da qui il nome, “zu + zu”, una doppia “zuccheratura” che caratterizza il prodotto. Cosa vediamo in etichetta? In alto una specie di “e” che funge da logo aziendale. In basso il nome del vino con un carattere molto tipografico, di vecchio stampo. Al centro e a tutto spazio una illustrazione molto ben curata ci mostra un uomo sulle colline emiliane, intento a trattenere con un filo una luna/acino/pallone che risplende nel cielo. La grafica è sicuramente di impatto, grazie a una elevata dose di originalità. Forse una stile così narrativo si presterebbe di più alla copertina di un libro, ma il suo lavoro di comunicazione lo fa bene anche su una bottiglia. Grazie a Sara Missaglia per aver scoperto questa interessante etichetta e il suo fantasioso creatore.

Il Superdotato della Bergamasca

Tribàle, Blend Rifermentato, Tosca.

Il produttore definisce questo vino come “divertente”. Dice che si sono divertiti a realizzarlo e che immaginano il divertimento al consumo, conviviale e spensierato. Da parte nostra ci siamo divertiti ad analizzare il nome del vino. Questo “rifermentato naturale”, prodotto con tre vitigni bianchi, si chiama “Tribàle”. Per chi non conosce il dialetto bergamasco (siamo in zona Valcalepio) la parola porta a qualcosa relativo ad antiche tribù, a religioni agnostiche, e anche a tutta l’area dei tatuaggi. Ma… sopra al nome in questione notiamo tre “palle” (tre sfere che rappresentano tre acini d’uva) e se scopriamo che in dialetto bergamasco “tre palle” si dice “tri bàle”, il gioco è fatto. Proprio così, perchè di gioco di parole si tratta. Forse poco elegante ma efficace nell’accostare il significato alla modalità produttiva (tre diversi vitigni bianchi). Certo che le sfumature legate alle “bàle” possono essere anche altre, soprattutto se le sfere dovessero essere due (ma qui sono tre, quindi stiamo tranquilli). Del resto l’etichetta è pulita, ben impaginata, costituita da pochi elementi d’impatto: una “stracciatura” in alto, originale, i tre acini dorati (in forma illustrativa grezza), il nome del vino (che volutamente, con dimensioni diverse delle lettere, fa notare il gioco di parole) e infine la dicitura “frizzante col fondo” alla base. Stop. Tappino d’ordinanza in metallo e fascetta con logo aziendale sul collo della bottiglia. Naming e packaging giocherelloni ma con un buon senso, considerati la basicità del prodotto e il target di consumo di stampo birraiolo.

Chardonnay “Tonico” Mantovano

Belgingin, Chardonnay, Vigne del Pellagroso.

Tre nomi interessanti da analizzare. Il produttore e fondatore  si chiama Antonio Camazzola, detto “Billy”. Il nome dell’azienda, che emerge insieme a una illustrazione di una specie di Passator Cortese con cappello e grappolo, è “Vigne del Pellagroso”. Il nome proviene dalla testata di un giornale popolare dell’800 che incitava gli operai alla rivolta a causa delle condizioni di povertà dell’epoca (che causavano quindi la pellagra, malattia cutanea dovuta a una alimentazione non equilibrata). Il giornale in questione fu fondato a Castel d’Ario nel mantovano, dove ha sede l’azienda (la stampa avveniva proprio nel cortile dove si trova la cantina). Per la cronaca la pubblicazione ebbe vita breve: dopo l’uscita del tredicesimo numero venne arrestato il direttore con l’accusa di aver fomentato scioperi e disordini. Veniamo al nome del vino: “Belgingin”. Inevitabile che la mente fugga in direzione del noto superalcolico caro agli anglosassoni e oggi tornato di gran moda anche alla nostre latitudini. Forse, un limitato pubblico locale potrebbe avere la giusta percezione (dialettale) del nome, quella di qualcosa di piccolo e grazioso. Ma è troppo poco per poterlo definire un nome “riuscito”. Certo, di vino stiamo trattando, la bottiglia ha una forma riconoscibile, ma nel complesso anche la grafica dell’etichetta non aiuta a dirimere il corto circuito semantico, potendo davvero vestire anche una bottiglia di gin, togliendo i riferimenti a “vino bianco”, logicamente. Il packaging ci è stato indicato da Sara Missaglia che ringraziamo per la preziosa ricerca. P.S.: “Possa la mia anima rifiorire innamorata per tutta l’esistenza” (che si legge sul fronte etichetta) ci piace.

Quando la Creatività fa Autogol

Brina d’Estate, Spergola Spumante, Tenuta di Aljano.

La sorpresa di questo vino è il vitigno: un autoctono raro della provincia di Reggio Emilia, la Spergola. In questo caso spumantizzato con metodo Charmat lungo. In etichetta si nota subito, in grande, l’asta della lettera “j”, eletta a simbolo dato che l’azienda si trova esattamente a Jano di Scandiano (non è per la rima, la frazione si chiama proprio così). Dall’etichetta e dal sito internet emerge infatti che il nome e marchio aziendali scaturiscono da questa intuizione “al Jano”. Il dominio quindi è “Tenuta di Aljano”. Il problema si manifesta quando tentiamo di leggere questo nome: “Aljano” (Aliano? Algiano?) Con una aggravante cromatica in questa etichetta laddove la “j” viene riportata in rosso (poco visibile sullo sfondo antracite) generando una lettura del tipo “alano” (il cane) o peggio ancora “al ano” (anatomia). Peccato perché il design del packaging è pulito e ben impaginato. Anche il nome del vino piace: una “Brina d’Estate” che evoca freschezza e piacevolezza, molto coerenti con il tipo di prodotto. Si tratta quindi di un problema di nome (in origine) e di rappresentazione di esso (cromaticamente). Un autogol che porta via quote di attenzione, di prestigio e di memorabilità che di solito è importante salvaguardare. 

Nuove Idee Balenano in Langa

Hiku, Moscato d’Asti, Roberto Garbarino.

Un giovane spumantista piemontese che ha iniziato la propria avventura enoica nel 2010 (con prima vendemmia nel 2013), propone nella propria gamma attuale anche un Moscato d’Asti di quelli classici da 5,5%, adatti ad un consumo sbarazzino (aperidolce). L’etichetta che è stata delegata a comunicare questa bottiglia è invece tutt’altro che classica, tenendo conto anche degli usi e delle tradizioni di quell’angolo di Piemonte (siamo nelle Langhe, a Neviglie). Gli elementi che saltano all’occhio: toni azzurri (per un vino che ha fatto del giallo la propria bandiera), tema marino con coda di balena emergente dai flutti (per una tipologia di vino che con il pesce c’entra come i cavoli a merenda), nome maori (dedicato ai trascorsi neozelandesi del titolare: “Hiku” significa coda e anche la zona dove allignano i vigneti di moscato si chiama così, in questo caso troviamo un sia pur fantasioso collegamento con la realtà locale). Hiku, ai più, potrebbe ricordare anche quella particolare tipologia di poesia giapponese chiamata “Haiku”.  Saremmo comunque concettualmente “fuori zona”. Alla base del mare inclinato che caratterizza il cromatismo dell’etichetta, vediamo il logo/nome del produttore: Roberto Garbarino, con marchio circolare che probabilmente ricorda una “G” specularmente rovesciata. Tutte le etichette di questo produttore sono acquerellate dall’artista Nicola Magrin: troviamo un salmone nell’Alta Langa Rosé “L’istinto” (il significato proposto del produttore: andare contro corrente come i salmoni), idem per l’Alta Langa Docg “Le rapide” (dicono, relativo alle pendenze dei vigneti), ma almeno in questi due casi l’attinenza dei vini con ricette a base di pesce ci potrebbe essere. Possiamo infine dire che le nuove idee che riguardano il packaging sono meritorie, in senso di rinnovamento, un po’ meno se volessimo cercare ganci concettuali che sostengano la comunicazione di prodotto.

Formule che non Formulano

Òua (al quadrato), Vermentino, La Ricolla.

Ce ne sarebbe da dire su questa etichetta… e noi infatti ci proviamo. Impresa non facile: l’affollato packaging fa naufragare l’occhio e l’attenzione un po’ su e un po’ giù. Partiamo da nome del vino che dovrebbe essere “Òua” (al quadrato) e che tratto dal dialetto genovese “oua ghe semo” (il titolare infatti è ligure e i vigneti sono a San Salvatore di Cogorno, nell’entroterra del Tigullio) sarebbe “ora ci siamo” (a sancire l’esatto momento in cui è necessario svinare, in questo caso dopo ben 5 mesi di macerazione sulle bucce). La formula matematica che vediamo sopra al nome non riusciamo a spiegarla se non comprendendo quanto meno che non ci sono solfiti aggiunti. La sagoma nera che comprende tutte le scritte dovrebbe essere un’anfora (che completa la maturazione di questo vino). Sotto al nome una specie di motto/acronimo che complica ancora di più la percezione: Uomo Vitigno Territorio. Chiariamo subito che i messaggi contenuti nel fronte etichetta sono tutti di significato e di valore intrinseco, ma pubblicati in questo modo rischiamo di risultare come un calderone di informazioni (in parte criptiche) dal quale nulla emerge in modo sostanziale. Tante parole per nulla, verrebbe da dire. Ringraziamo Sara Missaglia per lo scouting!


Gli Sconsiderati della Loira

Anna, Alfred, Auguste, Agathe, 
Saget La Perrier.

Questa dinamica azienda vinicola della Loira a gestione famigliare (situata a Pouilly-sur-Loire), produce un’ampia gamma di vini (con diversi marchi) dotati di etichette davvero interessanti che vanno dal classico al trasgressivo. In questo post ci occuperemo della serie di 4 vini di “Château de la Mulonnière” che si collocano senza dubbio nella categoria “etichette trasgressive”. In pratica: su temi colorati pastellosi (tinte morbide) alcuni personaggi storici che dovrebbero avere un contegno nobiliare vengono rappresentati in pose “Rock ‘N Roll” (che è anche il nome dei vini). I vari soggetti vengono commentati in modo arguto nelle schede di prodotto del sito internet (li riportiamo nella lingua originale, perché la traduzione in italiano fa perdere grinta alle definizioni): “Anna (Chenin Blanc), c’est la joyeuse de la clique. Tender et enjouée au premier ras bord, elle n’est pas de nature à cacher son jeu; Alfred (Cabernet Franca), c’est le dandy de la bande. Elégant et joueur, il n’est pas du genre à se tenir à carreau; Auguste (Chenin Blanc), c’est le leader de la troupe. Ancien Colonel d’artillerie, il aime toujours les bons canons; Agathe (rosato da Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Grolleau e Gamay), c’est la friandise du groupe. Fraiche et délicate, sa douceur subtile en fait la compagne parfaite en toutes circonstances”. Complessivamente, colori, grafica, illustrazioni, nomi e loghi, possiamo dire che l’esperimento è riuscito. Potrebbe non piacere ai soloni delle tradizioni, ma la gamma ha buone ragioni per presentarsi al pubblico con una sana sconsideratezza del vivere (e del bere).

Un Vino all’Acqua Pazza

Acqua Pazza, Blaufränkisch (+miele), Beneduce Vineyards.

Mentre nella cucina napoletana per “all’acqua pazza” si intende un pesce cotto in poca acqua, con olio, aglio e pomodorini, questo produttore del New Jersey (Usa) ha deciso di utilizzare questo particolare nome per un suo (particolare) vino. Si tratta del vitigno Blaufränkisch, autoctono della Stiria (Austria), che viene chiamato anche Franconia o Limberger. In questo vino viene aggiunto miele millefiori ad ottenere una “bevanda” da 8 gradi alcolici, della quale ignoriamo l’esatto utilizzo. Forse come aperitivo dolce, forse con un dessert, forse come un rosolio. Ma veniamo all’etichetta, decisamente vintage, con il nome “Acqua Pazza” in grande evidenza, toni cromatici arancioni, sopra e sotto, uno stile “antenato” che comunque riesce a incuriosire. Certo il merito è soprattutto del nome (sicuramente anche del prodotto una volta assaggiato). Gli americani ci sorprendono sempre (del resto bevono litri di latte a tavola, pranzando), in questo caso potrebbero giustificarsi col fatto storico che anche gli Antichi Romani aggiungevano miele ai loro vini (e del resto, popolo che vai, usanze aliene che trovi: i francesi a tavola bevono il pastis). Infine il nome del produttore “Beneduce” che tradisce assonanze italiane o come minimo mediterranee. Forse non lo acquisteremmo, ma l’etichetta tutto sommato piace ed è invitante.

Più Bianco non si Può

Bianco, Vermentino, Mercer Wines.

Un ottimo esempio per definire cos’è un “contrasto”. Cioè cosa significa comunicare per dissonanze (in senso positivo, in questo caso). Abbiamo un’etichetta molto colorata per un vino che si chiama “Bianco”. Si tratta di una giovane azienda australiana che produce i propri nettari nell’Hunter Valley, più o meno a nord di Sydney. In particolare vengono allevati  Vermentino, Malbec, Montepulciano, Tempranillo, ma anche Nebbiolo e Nero d’Avola, tradendo una particolare attenzione verso i vitigni storici italiani. Ma torniamo a questa particolare etichetta. Colori, tanti, frammentati in una composizione (altro contrasto) che richiama le ricerche cromatiche della casa di moda Missoni. Etichetta rotonda all’interno della quale troviamo uno spezzatino di tasselli rattangonali appuntiti e altre varie forme. L’effetto è caleidoscopico, ipnotico, forse subliminale. Sul fronte dell’etichetta, in basso, in verticale, solo un numero e una scritta: “2021 Bianco”. Annata e nome del vino. La forza di questo packaging è ancora una volta la semplicità (e qui piazziamo l’ultimo contrasto), laddove la complessità della tavolozza cromatica diventa percezione univoca per la retina e per la memoria. Semplicemente bianco, la somma di tutti i colori.

Vini Naturali per Cosmonauti Spaziali

Pino Pinot, Pinot Noir e Gris, 
Les Astronautes.

Non c’è dubbio che Emma, francese, e Fredy, argentino, la coppia che produce questi vini, siano fissati con lo spazio. Le loro originali etichette “trasportano” direttamente nel cosmo con una nota di ironia. Già il nome aziendale “Les Astronautes” attira l’attenzione. Le immagini di razzi spaziali e astronauti confermano e attraggono. Curioso in modo particolare il nome dello spumante “Pino Pinot”. E quell’illustrazione dove uno dei due cosmonauti spruzza vino rosso nell’etere. Da dove proviene il concetto generale? Ecco la spiegazione che il produttore fornisce nel sito internet: “ Perché Les Astronautes? Il nome ci è venuto in mente durante un viaggio in treno, mentre viaggiavamo in Francia, sulla strada per Parigi. Stavamo sognando un cosmonauta che suonava il piano su un pianeta lontano, e da lì siamo partiti con il tema dello spazio. Siamo sognatori. In questo viaggio abbiamo deciso che i nostri vini sarebbero stati biologici, naturali, privi di pesticidi agricoli…”. Un sogno quindi, un’immagine, forse un gioco, che diventa il tema ricorrente della gamma dei vini. A volte le idee nascono così. Lo stile fumettoso e, ripetiamo, ironico dei packaging contribuisce a suscitare simpatia e complicità per il progetto. Con la sensazione che il vino (quello buono, senza alterazioni) possa far viaggiare come minimo la mente.