Acquamarina Floreale Romagnola

Albana, Podere La Berta.

Vini etichettevini brandingdesign packaging mktgQuesto vino non ha nome ma ha un bel colore. Non parliamo esattamente del vino, ma dell’etichetta. A dire il vero anche il nettare che la bottiglia contiene vanta un bel colore: giallo intenso, dorato, tutt’altro che un vino “bianco”. Infatti l’Albana di Romagna si presenta ai propri estimatori sempre con un croma carico di intensità e anche di qualità intrinseche. Si tratta di un vitigno poco nobilitato per quanto invece meriterebbe. Ma torniamo al packaging di questa azienda di Brisighella, di proprietà della famiglia Poggiali. Il colore, dicevamo. Quello dello sfondo dell’etichetta e dei fiori che si vedono nella sua trama. Vediamo cosa scrive in proposito il produttore: “In Romagna un tempo era conosciuto come ‘pomo reale’. In primavera si carica di una folta chioma di fiori bianchissimi e molto profumati, in estate inoltrata ed inizio autunno si riempie di frutti rosso vermiglio con una polpa dolce, gustosa e croccante. Vicino alla nostra collina, precisamente alla Torre di Oriolo, c’è l’azzeruolo più antico della Romagna. L’Albana si veste d’acquamarina per farci vivere i profumi che ricordano l’estate tutto l’anno, e rende omaggio a questa pianta”. Il giallo, il bianco, l’acquamarina: un’armonia di cromatismi che dona bellezza. Eleganza e naturalità al tempo stesso. L’unica nota stonata, a nostro modesto parere, è il nome del vitigno (e in questo caso anche del vino) spezzato in tre parti e inserito nella vegetazione floreale. Ma per tutto il resto, complimenti e prosit.

Se Vuoi Fare l’Americano, Copriti

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Cala N.2, Tempranillo Graciano, Tinedo.

Che popolo gli americani. Giocano da sempre ai cow-boys (con pistole e fucili veri) e poi fingono di scandalizzarsi per qualche nudità. Emblematico l’esempio di questa etichetta spagnola che è stata rivestita per poter esordire nel mercato Usa. Certo, la donna ritratta in etichetta (in quella europea, che potete vedere alla fine del testo) è proprio “come mamma l’ha fatta”. Ma coprirla in quel modo vuol dire coprirsi di ridicolo. Nell’etichetta “ricondizionata”, infatti, si vede un bollino rotondo con il nome del produttore, applicato sul seno della donna, una decorazione floreale si è spostata sulle natiche della giunonica testimonial e sopra a sinistra altre vegetazioni sono state delegate a celare le pudenda della venere ritratta di fronte. Peccato (dicono gli americani). Peccato, diciamo noi ma in modo diverso: il packaging è bello (nella versione non castigata), artistico, originale, coraggioso, rinascimentale, decorativo, vitale... Nella versione con la censura rimane lo stile artistico e la sensazione d’antan, ma il tutto perde grip. Non è più graffiante. A limite qui da noi potrebbero partire polemiche di genere per l’uso del corpo femminile nell’attirare l’attenzione a fini commerciali. Ma in fin dei conti il corpo della donna e anche quello dell’uomo, certamente e da sempre, hanno un ruolo anche estetico, tutto sommato a fini riproduttivi. Tutta natura, insomma.

Sciarada Futurista sui Colli Albani

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Meraco, Cesanese, 
Villa Cavalletti 
(Cantine San Marco).

L’arte moderna, si sa, è interpretabile. Nel senso che la sua bellezza e grado di accettazione dipende molto dalla soggettività. Definiamo così, in senso ampio, “arte moderna” (o contemporanea) lo stile con il quale è stato più illustrato che scritto il nome di questo vino. Si chiama “Meraco” che dal latino riconduce a “puro, schietto” (la parola suona male ma il significato, per un vino, è interessante). Purtroppo le lettere di questo nome non sono facilmente intellegibili. Tanto che in basso il nome del vino viene ripetuto con un carattere di scrittura più normale: semplicemente leggibile. L’illustrazione artistica che vorrebbe riportare al nome è di fatto protagonista dell’etichetta. Il packaging ruota tutto attorno a quella somma di forme e di colori, al centro, nella parte alta del fronte. I colori attirano l’attenzione. E anche le forme, che sono molto particolari. Ma proprio quelle forme rischiano di confondere le idee invece di edulcorarle, di stimolare la percezione. L’altro vino di questa azienda (il marchio è Villa Cavalletti, in sostanza una prestigiosa residenza sui Colli Albani) che si chiama Cantine San Marco, è il “Roma”. Nome semplice (ove possa essere ritenuto semplice citare la Città Eterna), trucco facile: una Doc che si chiama come la Capitale d’Italia e dell’Antico Impero si vende praticamente da sé. Anche in questo caso la scrittura è una specie di omaggio al futurismo, ma almeno i colori sono solo due, rosso e oro (con l’eccezione della “A” di Roma, in bianco, che non aiuta) e quindi l’occhio trova un compito più facile arrivare alla soluzione della sciarada. 

La Magia dell’Argilla, Passato e Presente

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Lupinella Rossa (e Rosa), Sangiovese, La Lupinella.

Davvero piacevole da consultare il sito web di questa azienda toscana. Semplice, elegante, immagini grandi, testi corti: la migliore soluzione per una consultazione rapida ed efficace. E poi, finalmente, nel menù vediamo una sezione dedicata al nome dell’azienda (che è anche nome dei vini), una sezione che si chiama proprio “Nome”. Leggiamo e riportiamo qui queste belle parole: “Ci piace pensare alla Lupinella come a una ninfa dalla chioma vermiglia. Schiva e riservata, amante dei luoghi impenetrabili. Ad ogni suo passo, cresce l’omonimo fiore, che spinge verso il cielo la sua corolla purpurea. Il rosso è il suo colore: lo stesso delle argille di Montelupo Fiorentino, luogo natìo della nostra famiglia di ceramisti, il cui toponimo richiama leggende e fiabe legate al “principe dei boschi”. Ci piace pensare così alla Lupinella: driade delle foreste, progenie dei lupi, emanazione viva della natura più autentica. Ma anche laboriosa creatrice connessa alla terra, capace di manipolarne i doni della natura in manufatti di autentica bellezza”. La Lupinella, conosciuta anche come Sulla, è una “pianta foraggera” (il suo frutto è di fatto un legume) a crescita spontanea che popola i boschi di tutto il Mediterraneo. Un altro aspetto interessante di questa storia (che incide evidentemente nelle scelte di design delle etichette) è quello legato al passato da ceramisti della famiglia proprietaria che oggi ha differenziato le proprie attività, iniziando a produrre vino. Il comune denominatore è la terra, l’argilla, ideale per le ceramiche artistiche, perfetta per il Sangiovese. Le etichette che distinguono i due vini attualmente in produzione sono molto particolari: frutto di una elaborazione storica di un passato creativo che si rispecchia oggi nella ricerca della bellezza anche nel vino (sembra che ci sia anche un ultimo nato, il Lupinella Bianca, Trebbiano, che in etichetta ritrae un pesce accompagnato dal consueto stile floreale).
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Attenzione vs Tradizione

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Uvenere, Vino Rosso, 
Paride Iaretti.

Un vignaiolo semplice non può che avere etichette semplici. O forse non averne per nulla. Sfuggendo a ogni definizione. Il packaging di Paride Iaretti è molto lineare: colori diversi per i tre vini in gamma (che in fin dei conti sono il nero, il bianco e il viola-vino che vediamo qui a sinistra), tutti con il medesimo disegno, una stilizzazione della cittadina di Gattinara. Per il resto, una cornice e via. Cambiano i nomi, certo. I nomi dei vini. Uno è dedicato al padre, Pietro, l’altro a Gattinara, il terzo è questo qua: “Uvenere”, e non è affatto male. Innanzitutto è necessario dire che le uve nere in questione sono tante, infatti il vino si compone dei seguenti vitigni: Vespolina, Croatina, Nebbiolo e Bonarda (Novarese). Si tratta di un vino modesto, anche nel prezzo, un vino “da tavola”. Un rosso per tutti i giorni. Quello che colpisce in questo nome è, ugualmente (come per l’etichetta in generale), la semplicità. “Uve nere” (a bacca rossa dice la maggioranza ma la dicitura corretta sarebbe, in effetti, a bacca nera) diventa “Uvenere”, tutto attaccato. E funziona. Sarà perché all’inizio si legge “venere” o perché il cervello non è abituato e quindi “spezza”, ma di fatto questo nome attira l’attenzione. E l’attenzione spesso fa più effetto della tradizione. A tal punto che il design di questa etichetta avrebbe bisogno di un bel refresh (e ci scusiamo per l’inglesismo fuori luogo).

Un Cappello Prezioso ma Non Lezioso

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Novecento, Bonarda Frizzante, 
Alberto Fiori.

La particolarità di questo vino rosso risiede nel cappello. No, non stiamo parlando di quell’ammasso di vinacce che si forma in superficie nelle vasche, in fase di fermentazione. Stiamo accennando al cappello che Nonno Ezio, fieramente, indossa nell’illustrazione in etichetta. Possiamo infatti scorgere una luminescenza dorata (un inchiostro speciale) che si ripete anche nel carattere di stampa del nome di questo vino. La Bonarda (Croatina) in questione, infatti, si chiama “Novecento”, in omaggio al grande avo, nato nel 1904, come si legge nel sito dell’azienda, “portatore dei valori di attaccamento al lavoro e al sacrificio, tipici di quel secolo...”. La bottiglia è particolare (forma insolita), l’etichetta semplice ma “svasata”, cioè frutto di una fustella (cartotecnica) pensata apposta per il design del vetro. In stampa pochi elementi ben in vista: la figura del nonno, il nome del vino, il nome e il logo del produttore. Stop. Benfatto. Elegante ma “genuino”. Pulito ma con tutte le cose importanti da dire e da far percepire. Il progetto, anche, interessante: rilanciare la Bonarda attraverso un accordo tra un gruppo di produttori virtuosi che si è dato regole più restrittive, quindi più qualitative. Da qualche parte c’è anche un Oltrepò che funziona. 

Colline Fiorite e Stelle (Forse) Marine

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Erba Salata, Montepulciano d’Abruzzo, Colle Florido.

Si tratta di un piccolo produttore che coltiva vigne e produce vino nella zona di Pescara (sulle colline limitrofe). Il rosso dell’azienda ha un nome curioso per un vino: “Erba Salata”. Dentro la bottiglia c’è Montepulciano in purezza, fermentato in barriques usate. Frutto di processi assolutamente naturali (un vanto della giovane azienda) sia in vigna che in cantina. L’etichetta è di quelle “essenziali”, solo qualche scritta, fondo bianco. Si nota una stella marina color carminio come unico spunto emozionale (sarà che il mare è vicino): la stella marina è una nostra interpretazione, in realtà potremmo parlare di un asterisco, di un normale segno di stampa rosso. Ma torniamo al nome particolare, cosa si scopre in rete? Che l’erba salata in questione è relativa a... una carota selvatica! Una specie di erba dal gambo robusto che cresce soprattutto in estate, anche quando l’acqua piovana scarseggia, e forma un tappeto verde alla base delle viti. Il suolo così risulta drenante (assorbe molto bene l’acqua dei temporali estivi) e da questo la vigna trae un vantaggio del tutto naturale. E infine un’occhiata al logo dell’azienda, in alto nell’etichetta, dove si vede un piccolo vulcano, o almeno così sembrerebbe. In realtà probabilmente è la rappresentazione della collina soleggiata e “fiorita”. Il tutto è migliorabile ma almeno risulta originale.

Un Muscat che Prende Posizione

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Kammasutra, Muscat, Vins-Kamm.

I due produttori e vignaioli si chiamano Jean Luis ed Eric Kamm. Siamo in Alsazia ed esattamente a Dambach-la-Ville. La premessa è necessaria per arrivare a descrivere questo nome coraggioso: “Kammasutra”. Come è noto il Kamasutra è un manuale in sanscrito che si occupa anche di sessualità (ma non solo). Nella cultura indiana è ritenuto un tomo essenziale per la ricerca del Kama (“piacere” in sanscrito). Per gli indiani il sesso non è considerato peccato, bensì rappresenta una della ragioni di vita insieme al benessere, all’etica e alla libertà dal mondo materiale. In buona sostanza il Kamasutra è un caposaldo della letteratura sanscrita redatto tra il VI e il VII secolo dal filosofo indiano Vatsyayana. Tornando ai tempi nostri, l’etichetta di questo vino, un Muscat alsaziano, propone, anche nell’illustrazione che presiede il packaging, un inequivocabile tema erotico. Evidenzia infatti una delle famose “posizioni”, messe in atto, in questo caso, da due tralci di vite umanizzati. Diciamo pure che si tratta del trionfo della natura, e anche del coraggio di proporre una tema che forse non a tutti potrebbe andare a genio. L’illustrazione è molto bella, l’etichetta pulita e graficamente corretta. Tutto il resto viene rimandato alla percezione soggettiva e alla cultura personale degli osservatori (voyeur compresi).

Un Piccolo Morbo Vulcanico

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Morbino, Basilicata Bianco Igt, 
Az. Agr. Michele Laluce.

Siamo in Basilicata, nel Vulture, zona da tempo immemore famosa, in particolare, per i vini rossi (Aglianico). Questo vino invece è un bianco, prodotto con uve Moscato e Malvasia (non meglio precisati come varietali) presenti in parti quasi uguali (60-40). Ha attirato la nostra attenzione il suo nome: “Morbino”. Nel sito del produttore e nei siti specializzati di vendita on-line non si trovano riferimenti in merito e quindi non possiamo fare altro che cercare di immaginare cosa potrebbe pensare un qualsiasi avventore: “Morbino” fa venire in mente il morbillo e subito dopo la parola “morbo” o “ammorbato”, due accezioni non propriamente positive. Probabile che si tratti di una dizione di originale toponomastica, forse antica, ma questo non può andare a discolpa di una scelta criticabile, almeno dal punto di vista della lingua italiana e delle sue sfaccettature. E’ bene aggiungere che, in ogni caso, il diminutivo “ino” va sempre a detrimento dei valori della comunicazione di un prodotto. Salvo casi particolari, naturalmente, ove la simpatia del termine possa avere un senso. Nel complesso l’etichetta qui analizzata non presenta sfarzi creativi: colore e impaginazione rientrano nei canoni di un packaging fin troppo “regolare”. Diciamo che prende la sufficienza: non oltre.

Nomi che Fanno Titolo

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Ti voglio bene, Cortese, Az. Agr. Daniele Ricci.

Cosa può spingere un produttore a chiamare un vino con una frase affettuosa? Ad utilizzare una frase molto comune, molto ripetuta nella lingua parlata: “Ti voglio bene”. Una frase che potrebbe essere indirizzata a una persona vicina, a un partner, a un genitore, insomma una dedica. Romantica e/o amorevole. Oppure si tratta di una scelta di marketing? Pensata apposta per vendere di più. Scrivendo “ti voglio bene” sulla bottiglia qualche consumatore, indipendentemente dal vino contenuto in essa, potrebbe essere tentato di fare un regalo a qualcuno di amato. Semplice e risolutivo: bottiglia più dedica, tutto compreso. Siamo quindi agli antipodi delle ipotesi: frase romantica o idea commerciale? A parte queste considerazioni l’etichetta risulta elegante, fondo blu, stemma in oro in alto, cornicetta d’ordinanza, pulizia grafica, equilibrio generale. Un packaging “per bene”, insomma. Certo che un nome-frase non è, di fatto, un vero nome. Si tratta di una affermazione, manca la sintesi. Ma in questo caso, di affetto o di marketing che sia, l’attenzione viene catturata. Tutto sommato, un “ti voglio bene” non si nega a nessuno.

Il Re è Pazzo e si Mette a Nudo

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Il Re Pazzo, Valpolicella Classico, 
Terre di Leone.

Secondo il produttore questo vino è “un tributo alla terra d’origine di Nonno Leone”. Va da sé che anche il nome dell’azienda deriva dall’antenato in questione. Ma quello che ha attirato la nostra attenzione è “il Re Pazzo” (che non è riferito al nonno, ci mancherebbe) e la sua rappresentazione in etichetta. Si tratta di un Valpolicella, viene specificato dall’azienda, senza la due “A”, cioè affinamento e appassimento. Solo acciaio. E comunque realizzato con i vitigni classici di quelle zone: Corvina, Corvinone, Molinara, Rondinella, Oseleta. Bello, dicevamo, lo stile illustrativo del personaggio regale, tra l’artistico e il teatrale. Bello anche il concetto che ha dato vita al nome del vino, spiegato così nel sito aziendale (riportiamo il testo integrale, perché davvero interessante): “Cercavo un immagine per il nostro vino che fosse capace di raccontare qualcosa di lui e di noi, ma non sapevo quale. Come trovarla! Si tratta di un vino che mi hanno insegnato essere semplice, giovane, "il base" della denominazione fatto con uve straordinarie ma non così nobili da poter essere usate per dar vita all'Amarone.
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Vitale, come ogni giovane creatura, contraddittorio, un po’ ’ folle, pieno di energia. Pensando e ripensando mi sono ricordata di qualcosa e questo qualcosa ha preso forma. Una forma sempre più precisa, quella di un burattino capace di camminare senza fili che si credeva un re perché unico e pensava di avere un cuore perché diverso e ballava perché felice sul palcoscenico, al circo! Sicuramente folle, pazzo perché si credeva ciò che non era o forse l'inverso era veramente un re che pensava di essere (o voleva essere) un semplice burattino libero di sognare e di ballare su un palcoscenico credendo di poter sfidare il mondo, in un circo, perché qui tutto può accadere! Che Re Pazzo! Che sia un re o un burattino poco importa, perché l'unica verità, per me, è la follia di credere che lui sia la parte mancante dello spettacolo, necessaria perché finalmente lo spettacolo possa avere inizio, perché Terre di Leone possa dirsi completa! Forse follia è credere questo, che i nostri prodotti siano parte integrante di qualcosa, del ciclo vitale che ogni anno si rinnova, la fanciullezza vitale nel Re Pazzo, la vigoria della giovinezza nel Superiore, la consapevolezza della piena maturità nel Ripasso e la saggezza, l'essenza di una vita nell'Amarone! Si forse follia è credere che sia davvero così, dare un senso al proprio mestiere pensandolo unico, e un cuore a ciò che si fa pensando ogni prodotto come una creatura a cui dare un'identità. Lui non è il più importante dei nostri vini ma può sentirsi o credersi un re visto che innegabilmente è lui a chiudere il cerchio! Oppure no è tutto il contrario!! Vedi che contraddizione, in fondo la vita è come un circo dove tutto può accadere e allora che lo spettacolo abbia inizio”. I nostri complimenti per la soluzione di packaging e tutto quello che c’è dietro.

Campane a Festa per il Design

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Bell Hill, Pinot Noir, Bell Hill Vineyard.

Questa etichetta neozelandese ha caratteristiche di unicità negli elementi che la compongono, sia pure in un contesto di grande semplicità grafica. Fondo chiaro, pulito, con scritte in nero e rosso: leggibilità assoluta se non fosse per il carattere del nome in grande, particolare al punto da compromettere la percezione delle singole lettere. Si tratta di un font di scrittura originale, artistico, creativo, ma anche di difficile intelleggibilità (manca immediatezza). In particolare il nome del vino (che è anche nome dell’azienda) viene spiegato così nel sito del produttore: “the name Bell Hill comes from its bell-like shape on the southern side, once the first view for travellers coming into the Waikari Valley”. Due gli elementi di spicco insolitamente posti sul fronte-etichetta: il numero della bottiglia in alto, in rosso, e il sintetico elenco informativo in basso dove vengono comunicati la data della vendemmia e dell’imbottigliamento, unitamente ad altre caratteristiche biochimiche. Sintesi e chiarezza, non solo per quanto riguarda il packaging ma anche per ciò che attiene al prodotto stesso. In generale questa etichetta attira, nonostante il problema di leggibilità del nome, grazie a una “limpidezza grafica” invidiabile e raramente riscontrabile nel settore bevande alcoliche.

Missa Est: Deo Gratias

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Messapia, Verdeca, Leone De Castris.

Prima considerazione: il vitigno in questione non è tra i più conosciuti in Italia. Anzi, si tratta di uno degli autoctoni che si sentono nominare meno, nel circo enologico della penisola più vitata del mondo. Siamo in Puglia, dove troviamo molti altri vitigni che possiamo considerare davvero “locali”, come il Primitivo, il Nero di Troia, il Bombino, etc. Passiamo al nome di questo vino, davvero curioso. Sorge subito un’incertezza per quanto riguarda l’accentazione della parola. Sarà “Messàpia” o molto più probabilmente “Messapìa”? In quest’ultimo caso il significato clericale viene chiaramente alla luce. Una messa non può che essere pia, se celebrata secondo i canoni... canonici. Terra molto religiosa, la Puglia, con la presenza ancora oggi di numerose feste a sfondo storico-cattolico. Processioni, santi e madonne incidono profondamente nel vissuto delle popolazioni e nei loro usi e costumi. Ha poco di canonico invece il colore di questa etichetta: un azzurro “carta da zucchero” che si riscontra poche volte nel panorama del packaging enologico mondiale. Si tratta infatti di un croma poco alimentare, ma certamente distintivo a scaffale. Impaginazione ordinata, centrata, semplice e lineare. Particolari in oro che arricchiscono l’elaborato quasi come i paramenti delle cerimonie importanti di Madre Ecclesia.

Filosofie Vinicole a Nord-Est

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Aristos, Sylvaner, Cantina Valle Isarco.

Le nuove etichette della linea “alta” di Cantina Valle Isarco sono gentili ed eleganti. Il fondo scuro aiuta sempre nell’impresa di comunicare qualcosa di valoriale. Protagonista della parte illustrativa è un paesaggio tipico dell’Alto Adige con case e chiese, realizzato con uno stile tra il pittorico e l’onirico, e ben raffigurato alla base dell’etichetta. Piacevole, turistico ma artistico. Veniamo al nome, solenne, nobile, colto, evocativo dell’Antica Grecia, fonetico e suadente: “Aristos”. Sappiamo infatti che questa parola significa “il migliore” e anche che ricorda molto il celebre Aristotele. La “s” finale, come sospesa in un vuoto filosofico che in realtà è pieno di significati, rende la pronuncia leziosa e preziosa: sibila morbida a voler ribadire una ricchezza di contenuto che in questo specifico caso riguarda un nettare degli Déi da vitigno Sylvaner in purezza. Le scritte in verticale certo non aiutano la leggibilità e anche il carattere del nome risulta molto (forse troppo) arzigogolato. Ma nel complesso la semplicità di questa etichetta gioca a favore di una comunicazione sobria ma coinvolgente.

Urla la Tempesta, Parla il Vino

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Urra di Mare, Sauvignon Blanc, Mandrarossa.

Davvero particolare il nome di questo vino, insieme a quello del suo “fratello di gamma” che si chiama “Cava di Serpe” (da citare anche “Timperosse” del medesimo produttore siciliano). Le etichette in effetti non si stagliano per originalità se non, appunto, per i nomi di questi vini. Un logo in alto, il nome del vino, ben visibile al centro, la dicitura di legge in basso (Sicilia Doc). Il nome “Urra di Mare è riconducibile al nome della contrada, nella Valle del Belice, dove mettono radici le vigne di questa azienda. Ecco una descrizione del produttore: “I vigneti sorgono a ridosso della riserva naturale del fiume Belìce, con vigneti che digradano fino al mare, godendo così di fresche brezze marine”.

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Alla quale aggiungere che la parola “Urra” nulla da spartire con il noto grido di gioia che potrebbe essere Hurrà! - all’inglese - o Urrà, mutuato in italiano. Bensì attiene al dialetto siciliano e dovrebbe essere traducibile con “urla del mare”. Pittoresco ed evocativo, quale il grido del mare in burrasca che fa sentire la propria incombente presenza (spargendo sale e iodio sulle terre limitrofe all’onda, a beneficio delle coltivazioni). Per quanto riguarda Cava di Serpe, evocativo anch’esso, diciamo pure allarmante, risulta certamente memorabile evocando luoghi selvaggi e incontaminati.

Santi Bevitori o Panificatori?

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Rivana, Friulano, Vigneto Due Santi.

Il nome di questa azienda non è chiaro. Per due motivi: il sito web è registrato sotto la definizione “Vigneto Due Santi” (che figura anche nel retro-etichetta) mentre sul fronte di tutti i packaging della gamma risulta il cognome dei titolari, cioè Zonta. La seconda ragione di non comprensione è relativa alla leggibilità del carattere di scrittura che porta alla definizione di  “Lonta” o “Sonta”, piuttosto che condurre al cognome corretto. Si tratta di due “indecisioni” che potrebbero nuocere alla riconoscibilità dell’azienda e dei suoi prodotti. Il problema viene reiterato, in particolar modo per il vino da vitigno Friulano al 100%, per quanto riguarda il nome del vino stesso: “Rivana”. Scritto in basso a destra, nel fronte etichetta, in modo davvero poco leggibile.
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Clamoroso, in un certo senso, l’autogol commesso dall’azienda nel retro dell’etichetta: una specie di ammissione di colpa, ove vengono riportati sia il nome del produttore, sia il nome del vino, “in chiaro”, cioè con un carattere di stampa finalmente leggibili. Anche dal punto di vista grafico la chiarezza non è il punto forte di questa azienda veneta: i “due santi” che vengono stilizzati al centro dell’etichetta non forniscono punti di riferimento iconografici se non attraverso le due aureole accennate sopra al capo. Davanti a queste due sagome, vediamo delle linee oblique che potrebbero sembrare degli sfilatini appena sfornati o qualsiasi altra cosa (basta usare l’immaginazione). Design essenziale, quindi, cromatismi eleganti, ma elementi e testi che lasciano molte perplessità.

Charme e Avicoltura nella “Campagna” Francese

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Marie-Amélie, Champagne, Henriet-Bazin.

Nella maggior parte dei casi, per il loro vini, i cugini francesi creano etichette molto classiche. Alcune riescono bene perché non vi è dubbio che il gusto appartiene anche a quella porzione di Vecchio Continente, oltre che all’Italia, naturalmente. L’etichetta di questo Champagne è graziosa, gentile, sfiziosa, come la dama fatale che recita una parte da protagonista nell’illustrazione. Ma non finisce qui. Ad attenti osservatori non sfuggiranno alcuni particolari di spessore: il cappello della donna, il fatto che sostiene una gabbietta, la bici d’antan, il cromatismo accentuato sulla gonna e, nella cartografica, un bollo in rilievo con il logo dell’azienda produttrice. Impaginazione degli elementi del design centrata, caratteri di scrittura graziati, tutto molto elegante, ma con un tocco un più: quella charmosa presenza femminile che nella posa e nella situazione nella quale è collocata incuriosisce. Va oltre: prova a raccontare una storia. Prova a farcela immaginare. Una donna e il suo pappagallino? Dove lo sta trasportando? Perché è cosi elegante? Si tratta di un party ornitologico? Siamo a Parigi o in provincia? A Reims o Èpernay? Esattamente a Villers-Marmery, complimenti a tutti.