Duri e Puri, in Favore Della Vernaccia Tradizionale

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'ppiccato, Marche Rosso Passito 
(Vernaccia di Serrapetrona), Fattoria Duri.

marketing immagine comunicazione arcaniIn quel crogiuolo di vitigni, usi, costumi e tradizioni del nostro bel paese, l'Italia intera, è possibile scoprire una delizia al giorno per anni e anni. Basta girare di regione in regione, di provincia in provincia, di paese in paese. Il piccolo borgo in questione è, questa volta, Serrapetrona, in provincia di Macerata, nelle Marche. Le sottovalutate e bellissime Marche. Qui cresce e viene lavorato un vitigno poco noto fuori dai confini regionali che si chiama Vernaccia Nera. In pratica, la Vernaccia di Serrapetrona, vinificata in maggior parte come Docg in versione spumantizzata e anche come Doc Serrapetrona nella tipologia vino rosso fermo. La Vernaccia di Serrapetrona si presta inoltre ad essere vinificata come passito da fine pasto o da "meditazione" come negli ultimi anni è di moda definire. Ci sono molti modi di ottenere un passito, cioè di fare appassire l'uva così che si possa verificare una concentrazione naturale di sapori e zuccheri. Parleremo in particolare del passito fiore all'occhiello della Fattoria Duri ottenuto secondo una modalità tra le più... dure. E anche più costose in termini di tempo e fatica. Le uve infatti vengono appese su canne naturali per evitare che possano entrare in contatto né tra un grappolo e l'altro, né tra gli acini e altre superfici. Da qui nasce il nome di questo vino, "'ppiccato", nome che ricorda foneticamente (e figuratamente) l'Impiccato degli Arcani Maggiori che per i Tarocchi di Marsiglia, in francese, sarebbe "Le Pendu", il numero XII. Niente di drammatico, nemmeno in quel caso, perché il significato, il senso da cogliere è: "attaccato su", "appeso", più che impiccato. La forma dialettale fa il resto, connotando tale modalità di appassimento con forza semantica e iconografica. Riassumendo, la modalità di produzione prevede la raccolta manuale dei grappoli migliori in vigna, quelli intatti, maturi, perfetti. Il trasporto in cassette separate fino al locale apposito adibito all'appassimento (che alla Fattoria Duri hanno ribattezzato "Galleria del Vento", perché dotato di ventilatori sempre in funzione). Infine la pazienza per appendere uno ad uno i grappoli e poi l'attesa: da 5 a 6 mesi prima di torchiare l'uva. Nell'etichetta del passito di Fattoria Duri, dove appare il nome del vino in verticale a grandi lettere, viene anche rappresentato un grappolo ancora fornito del proprio tralcetto superiore (lasciato affinché possa essere appeso stabilmente). Si tratta di un'etichetta semplice, schietta, come il carattere degli abitanti di quelle zone, che nasconde però un vino complesso e ricco di personalità, con sfumature organolettiche da estasi enogastronomica. Alla salute delle Marche e delle splendide tradizioni d'Italia.

Nome Sferzante in Etichetta Elegante

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Ferzo, Abruzzo Pecorino Superiore, Citra.

branding grafica marketing storytellingLa nota e strutturata azienda Citra Vini ha dato vita a una linea di vini autoctoni che si chiama "Ferzo". Il nome, spigoloso, sferzante, tagliente, trova subito riscontro nella cartotecnica dell'etichetta, davvero particolare, ed esattamente definibile come irregolare. Angoli sporgenti rappresentano vele di barche d'alto mare e infatti tutto il concept del design si basa sul nome di una particella di una vela, che insieme ad altre compone poi una forma adatta alla fruizione dei venti e quindi alla navigazione. Pezzi di vela come appezzamenti di vigna, a comporre il frastagliato panorama vitivinicolo abruzzese, fatto di piccole parti come accade storicamente e ancora oggi in molte altre zone d'Italia. La linea "Ferzo" comprende, oltre al Pecorino, anche la Cococciola, la Passerina, il Montepulciano e il Cerasuolo d'Abruzzo. I tagli delle etichette sono tutti diversi così come sono diversi gli autoctoni abruzzesi protagonisti di questa linea. Questo ha rappresentato sicuramente voci di costo maggiori per l'azienda (rispetto al produrre un solo "taglio" di etichetta) ma il valore aggiunto a livello di immagine è significativo. Unica immagine nella grafica dell'etichetta è un tratto in bianco e nero di un veliero. Eleganza, semplicità, storybranding: tre elementi che possono ampliare in modo più che proporzionale la percezione semantica e quindi il successo estetico, oltre che qualitativo, di questi vini.

Lettere che Tracciano Segni nella Mente

winemakers winelbels winedesignK, Merlot, Edi Keber.

marketing comunicazioneQuesto produttore che ha sede in un angolo d'Italia all'estremo Est del paese, nel così detto Collio, ha puntato tutto su una lettera: l'iniziale del proprio cognome. Il cognome, Keber, come è facilmente intuibile, viene dall'altra parte del confine, dalla Slovenia e scavando nelle dinastie probabilmente anche più in là, verso gli estesi confini che segnarono le conquiste dell'Impero Austro-Ungarico. A noi qui importa che una lettera, la "K", è diventata marchio. Molto distintivo, tra l'altro. La lettera in questione non è stata scritta con caratteri tipografici bensì tratteggiata con i rapidi segni di un pennello. Campeggia su tutte le bottiglie dell'azienda e giustamente viene utilizzata ovunque: non solo nel pac(K)aging ma anche per la comunicazione e il mar(K)eting in generale. Anche nel sito aziendale, piuttosto originale, la K di Keber ha un ruolo da protagonista e si fa vedere in mille modi e colori dominando la scena. Se vogliamo, le etichette dei vini sono abbastanza spoglie: fondo a tinta piatta, la grande K al centro, il cognome del produttore per esteso, il suo nome "Edi" in modalità firma autografa e il nome del vitigno alla base del fronte etichetta (sul retro vengono raggruppate tutti gli altri dati e le menzioni di legge). Ma la semplicità dell'etichetta non preclude, anzi enfatizza, l'efficacia di questo segno preminente. Un mossa da esperti comunicatori, pensata e realizzata da un uomo (illuminato) che si definisce orgogliosamente "un contadino". Insomma la K non scappa.

Geologismi che Diventano Nome

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Ciuèt, Coste della Sesia Nebbiolo, Pietro Cassina.

C'è una zona nell'Alto Piemonte (anzi, più di una) dove il Nebbiolo cresce bene e si fa valere (a livello commerciale non così tanto come il Barolo e il Barbaresco) e conoscere per la qualità dei vini che ivi si producono. A Lessona infatti pochi validi produttori (sono pochi in generale) immettono sul mercato vini di spessore. In tutti i sensi. È la terra che fa la differenza, oltre alla "nobiltà" del vitigno, il Nebbiolo, ritenuto da molti il "Re d'Italia". E dalla terra infatti prende il nome questo vino, ufficialmente della tipologia Coste della Sesia, che si chiama "Ciuèt". Ecco cosa significa questo nome, spiegato da un sito di vendita on-line di vini italiani: "the Nebbiolo grapes used for this wine are grown in an area of the vineyard that has a greater concentration of sandy-clay, also known as Ciuèt, hence the name of this wine". Si tratta di dialetto, è chiaro. Come molte volte accade, soprattutto in un Piemonte ancora molto tradizionalista, i nomi vengono "presi" dal volgo locale, da idiomi dialettali, modi di dire, proverbi e via dicendo. In questo caso il nome compensa la propria incomprensibilità al di fuori dalla zona di origine, con una brevità e una fonetica che aiutano la comunicazione. Almeno questo. Cosa dire infine del resto? L'etichetta è piuttosto elementare: parole centrate su fondo chiaro, nome ben leggibile in rosso (bene), unica concessione a un briciolo di emozione è quell'onda sotto al nome del titolare che simula, crediamo, delle colline vitate e l'opportuna citazione del "lieu-dit": Lessona. Il vino nel calice farà certo di meglio.

Storicità Modernista e Packaging Auto-Ironico

Pandolfo, Sangiovese di Romagna, La Pandolfa.

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L'azienda vitivinicola che ha creato queste etichette è stata doppiamente coraggiosa: ha adottato un design insolito e "ingaggiante", fuori dagli schemi, e lo ha fatto prendendosi un po' in giro. Infatti i personaggi che vengono rappresentati e citati nelle etichette dei vini della gamma proposta al pubblico, sono dei nobili che hanno avuto trascorsi significativi in quella zona. In particolare Sigismondo Pandolfo Malatesta, detto "il Lupo di Rimini" noto per aver assaltato nel 1400 il Castello di Fiumana. La tenuta, che fu dei Marchesi Albicini per un lungo periodo (1626-1941), viene in seguito acquisita dalla Famiglia Ricci che ancora oggi (quarta generazione) la gestisce. I tre nobili raffigurati con colori molto forti sono quindi Pandolfo (che si ripete nella versione Riserva), un tale Battista (che a dire il vero sembra essere una donna) e Federico. Nomi altisonanti che in questa elaborazione hanno ricevuto "in dono" nasi da pupazzi di neve, occhi strabuzzati e zigomi pomellati da clown. Una modalità grafica decisamente dissacrante o, come minimo, molto ironica. Certo siamo in Romagna, provincia di Forlì-Cesena, e si sa che il carattere di quelle genti è decisamente ridanciano. Scappa un sorriso e anche di più. Dal canto loro le etichette, come scritto nelle prime righe di questo articolo, sono molto originali e cromaticamente attenzionali. Le nostre preferenze vanno a Pandolfo e in particolare al suo taglio di capelli. 

Un Pinot Nero Molto Ben Quotato

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Q500, Pinot Nero, 
Azienda Agricola Baldessari.

Paolo Conte recita "...e i francesi ci rispettano che le balle ancora gli girano" cantando allegramente di ciclismo eroico nel brano dedicato a Bartali. Perché è vero che i francesi ci guardano con ammirazione (spesso malcelata) anche nel mondo del vino. Lo sanno che sui rossi (come nel ciclismo) siamo competitivi, forse i migliori al mondo, noi italiani. E allora come e dove produrre un Pinot "Noir" che possa competere con quelli di Borgogna? La risposta è: in quota, sia essa latitudine o altezza sul livello del mare. Il Pinot Nero, a quanto pare, ha bisogno, più di altri vitigni, delle escursioni termiche che solo un clima fresco può assicurare (in ogni caso tra giorno e notte). Ed ecco quindi l'etichetta di un Pinot Nero trentino, ottenuto da vigneti posizionati, come è facilmente intuibile, a 500 mt di altezza (a Est della città di Trento, frazione Povo). Il nome del vino infatti, "Q500", allude chiaramente a questa condizione pedemontana. Girano quindi tutti attorno al nome gli elementi di questa etichetta molto semplice: il concept, il design stesso, i colori, la grafica. Vengono utilizzati in modo forse un po' "sfacciato" i colori rosso e nero su sfondo bianco: da manuale di comunicazione, sono le combinazioni cromatiche più attenzionali, lo dicono le ricerche scientifiche. E allora parole grandi, colori forti, intenzioni chiare, messaggio efficace. Certo non viene lasciato molto agire all'eleganza e all'emozione raffinata, ma è il risultato quello che conta. O no? P.S.: dicono che il vino sia molto buono. Piace e dispiace molto anche ai francesi. Photo credits: @vaniagram

Francia, Egitto, Geroglifici e Comunicazione

winedesign grafica branding comunicazione12 Cloud, Chardonnay, Domaine Prieure Roch.

marketing packaging grafica illustrazioneGrazie alla nostra amica Claudia, ottima esploratrice di etichette e di bellezza della vita in generale, scopriamo questo produttore davvero "iconografico". Le etichette non sono belle bisogna dirlo subito: ripetitive (sono tutte uguali nel simbolo in basso, cambia solo la scritta sopra di esso che spesso non è un nome ma semplicemente la definizione del vigneto/zona), sterili, enigmatiche, poco emozionanti, se non si conosce dettagliatamente la storia che le ha generate. Dunque, il produttore è francese, e opera in quella zona prestigiosa (Borgogna) dove ogni piccola parcella di vigna ha un nome, spesso altisonante (o quanto meno intrigante, come sanno fare bene i francesi del vino). Ettari spezzettati con rese molto basse che generano vini costosi. Così è, se vi piace, in quella parte di mondo enologico. Il titolare prima dell'attuale attività (iniziata attorno al 1990) ha vissuto in Egitto nella Valle del Nilo dove ha scoperto l'iconografia criptica che ha deciso di raffigurare sulla proprie etichette in Francia. È interessante leggere il "rational" che si trova nel sito del produttore, insieme ad una coinvolgente filosofia aziendale, e che riguarda i simboli dell'iconografia egizia in questione: "The symbol or “crest” of the domain of Prieuré Roch, presented on its wine labels, borrows from the wine-making hieroglyph of ancient Egypt. Before the creation of the domain in 1988, Henry Frédéric Roch had previously lived and worked in the Nile Valley, had found in the composition of this hieroglyph a true expression of the values which he intended to carry high whilst developing culture and vinification according to entirely ‘natural” methods, which were at that time “avant-garde” in Burgundy. The glyph of the two yellow “mouths” at the top, the upper representing the divine eye corresponding to the powers which are beyond us: the powers of nature, the region, the weather, all shaping the vintage, below, the human eye, the power which knows itself as being limited, which receives, acknowledges, respects and protects that which comes from the other. Below that, the three egg shapes symbolizing grapes, all different, unique, this primary material of vinification where the Burgundy vigneron selects the distinguished “millerandés”, the smallest, most concentrated berries from which the finest wines are produced. To the side, the papyrus leaf symbolizes both vegetation and the work of the scribe which records and rules human actions, which decant the movement of time. The "Roch" name adorns the base, more than just a signature, it designates those, who up to now, are responsible for these values: the team of the domain, and further, the friends who share and cherish them". Cosa dire? Chapeau per la filosofia. Perplessità per il design. Rispetto per gli antichi egizi e il loro modo di comunicare, molto di sintesi, con i geroglifici. 

Dalle Marche alla Toscana (fino all'Etna) il Passo è Breve

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Guardoilvento (e N'anticchia), 
Nerello Mascalese, Tenuta delle Macchie.

concept branding marketing comunicazioneLa storia, diciamo il percorso, di questa azienda vinicola è complesso, così come il nome di questo vino, sia pure nella sua semplicità. Ed è questo il bello. Andiamo con ordine: Pietro Caciorgna fa parte di una famiglia originaria delle Marche, che ha scoperto che la Toscana è ancora più bella (le Marche sono bellissime, sia chiaro) trasferendosi a Casole d'Elsa (effettivamente una delle zone più paesaggistiche del centro Italia) e acquistando un casale dove varie attività agricole sono state portate avanti dal 1953 a oggi. Compresa la produzione di vino, Sangiovese naturalmente. La cantina è giovane come produzione (solo poche vendemmie negli annali) ma la voglia di sperimentare è tanta. Quindi l'ecquisto di vigneti sull'Etna per approcciare un altro grande vitigno, il Nerello Mascalese. Inizia così, grazie anche all'amicizia e al supporto logistico di un noto produttore siciliano, Tenuta delle Terre Nere, una nuova avventura vinicola. Infatti l'azienda di Pietro Caciorgna raccoglie sull'Etna uve proprie ma vinifica, per ora, nella cantina di Terre Nere. Veniamo al nome del vino: "Guardo il vento" o "Guardoilvento" tutto attaccato, come scritto in etichetta. Bella citazione (del titolo di un romanzo di Francesco Antonelli), evocativa al massimo. Cosa significa guardare il vento? Niente e molto al tempo stesso. Significa vedere e respirare al tempo stesso. Godere di uno dei fenomeni più poetici della natura, il vento, che tra l'altro è medicina per la vite e l'uva. E i vignaioli lo sanno bene. A tal proposito il produttore aggiunge: "Il nome del vino rappresenta l’immagine della vite coltivata ad alberello che viene attraversata in tutte le direzioni dal vento, talvolta accarezzata dolcemente per darle sollievo, talvolta sferzata da una forza violenta. Ma lei, la vite, con le sue radici ben ancorate alla terra che la nutre, e stretta al palo al quale l’uomo l’ha affidata, resta lì a guardare ed ascoltare quel vento, che è anche salubrità, è qualità". L'azienda produce anche un altro vino da Nerello Mascalese, che si chiama "N'anticchia". Nome questa volta in dialetto siciliano, che significa "un pochino", vista l'esigua produzione, di nicchia, di questo vino. Passione per il vino, non solo a livello produttivo, ma anche storico, culturale, letterario e letterale si riscontrano così nelle etichette di questo produttore.

Farsetto e Dialetto (Piemontese)

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Fanciotein e Farfuien, Cortese e Barbera, 
Cà ed Cerutti.

branding grafica comunicazioneFarsa, simpatia, folklore... mettiamola così. I nomi in dialetto hanno un problema di pronunciabilità fuori dai confini locali ma se evocano qualcosa di allegro possono risultare almeno gioviali. Si tratta,  in questo caso, dell'ennesimo esempio di nomi dialettali di vini che soprattutto in Piemonte sono molto frequenti. Chissà, forse si tratta di radicamento alle origini (che in Piemonte pescano un po' anche in Francia, forse l'uso "ufficiale" del dialetto locale è una forma di "ribellione" ai trascorsi linguistici francofoni, finta ribellione in quanto gli idiomi inevitabilmente si mescolano), forse si tratta della ferma volontà di manifestare la piemontesità come garanzia di qualità. Vediamo comunque cosa significano questi due nomi, "Fanciotein" e "Farfuien". Riferisce il produttore nel proprio sito internet che il primo è "ragazzino", "fanciulletto" mentre il secondo è riferito alle "numerose farfalle che popolano i vigneti di Barbera". I due nomi si somigliano, foneticamente, ma i significati sono diversi. Entrambi evocano comunque immagini belle, solari, allegre, colorate, positive, di gioco, di luce, di magia. Per quanto riguarda le due etichette, il design, ci sarebbe da soprassedere, in quanto risultano davvero "minimali". Un disegno e le scritte centrate, è tutto. Notiamo comunque che il disegno del primo vino è coerente con il nome: si vede un ragazzino con una carriola e dentro ci sono due cani. Nel secondo non troviamo connessioni con il nome: sembra un disegno artistico di un bacco e di una giovane donna in una vigna. Diciamo allora che si tratta di due etichette "genuine", e tanto deve bastare (e probabialmente basta al produttore stesso). Ultima considerazione, per chiudere il cerchio sulla questione dialetto: anche il nome dell'azienda è in vernacolo piemontese: "Cà ed Cerutti", cioè la Casa del Cerutti (Bruno Cerutti per l'esattezza), dove "ed" altro non è che il ribaltamento di "del". Difficile però da cogliere per chi non è piemontese: sembra un errore.

Un Vino e un Nome che Non Lasciano l'Amaro in Bocca

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Sine Felle, Chianti Riserva, 
Azienda Agricola Moretti.

packaging naming etichette vinoSi tratta di etichette molto classiche e anche molto frequenti in Toscana, sia dalle parti di Montalcino sia nel Chianti Classimo o Geografico. Fondo nero, scritte centrate, stemma di famiglia. Si somigliano tutte. E queste non rompono di certo la regola. L'azienda produce Chianti, Toscana Rosso, Vin Santo e Passito. Lo stile è sempre quello. Abbiamo notato però quel nome "Sine Felle", chiaramente in latino, che viene così racconato nel sito del produttore: "è un "ex libris", della fine del '500, ritrovato durante la ristrutturazione della cantina. L'espressione si trova per la prima volta nel trattato di Cornelio Celso, famoso medico del primo secolo D.C. In senso traslato significa "senza amarezza", motto che ben si addice ai nostri vini dove la morbidezza è il denominatore comune". Interessante e non così scontato l'utilizzo di un ex libris come logo e come racconto. Denota storia, cultura, ricerca, radicamento, prestigio. Bello anche il significato, quel "senza amarezza" che potrebbe essere sì riferito alle qualità organolettiche del vino ma anche a qualcosa di filosofico, comportamentale, caratteriale. Il marchio (che vede il tratto di un'aquila o sparviero) viene riportato centralmente su tutte le etichette dell'azienda, con cromatismi diversi, e diventa così un segno distintivo. 

Ma Davvero Questo Vino si Chiama "DaVero"?

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DaVero, Barbera Rosato,
DaVero Farms and Winery.

Il galletto in etichetta è un riferimento francese (lo usano anche quelli del Chianti Gallo Nero, però lì c'è dietro una storia), mentre lo psudo-nome di questo vino richiama echi italiani, così come la definizione del prodotto: Barbera Rosato. Cosa è successo quindi? Come giustificare la "mescolanza" di stimoli ottici e verbali che questa etichetta trasmette? DaVero è anche il nome dell'azienda e sembra proprio che si tratti di una specie di neologismo che possa risultare foneticamente italianizzante (il titolare dell'azienda è un uomo d'affari americano dal cognome anglofono). Poi: la decisione di definire i vini nella dizione italiana (Barbera, Sangiovese, Sagrantino etc... le produzioni dell'azienda coprono un totale di 7 vitigni di origine italiana) affiancandoli a parole come "rosato" in questo caso, attiene sempre al richiamare toni mediterranei, come dichiarato nelle retro-etichette dal produttore. Il galletto fa molto fattoria e forse gli americani non lo ricollegano alla Francia come è invece facile per noi. Questioni culturali: Europa e America sono due continenti che distano ormai solo poche ore di volo ma centinaia di anni di storia, e questi ultimi non si colmano velcocemente. Forse mai. In generale: etichetta che cromaticamente (otticamente) colpisce essendo dotata di una propria originalità (le striature). Nome ben chiaro su tassello nero (ma quel DaVero con una sola "v" disturba un po' noi italiani, proabilmente in Usa la prendono più alla leggera). Galletto ruspante a definire la genuinità. Insomma, in America ci provano. Ci imitano. Perché ci amano.