Il Mulo delle Ferriere sulla Costiera Amalfitana

Rudus, Falanghina, Casa Esposito.

Una piccola azienda vitivinicola campana, con sede a Scala (il borgo più antico della Costiera Amalfitana, posto a 450mt. s.l.m.) con questa originale etichetta rende omaggio al mezzo di trasporto per eccellenza di quelle scoscese coste: il mulo. Lo era almeno fino a qualche decennio orsono quando il nonno degli attuali titolari coltivava uva e produceva vino in quei luoghi, come da tradizione. Il nome di questa Falanghina, “Rudus”, viene dal latino e sta per “rudere”, infatti si riferisce ai Ruderi delle Ferriere che si trovano in una valle profonda che si insinua nel territorio di Amalfi. È una zona con molti percorsi difficoltosi dove il mulo è sempre stato il migliore mezzo di trasporto. A conferma dell’0rigine toponomastica di questo nome, nell’etichetta che abbiamo trovato in rete si possono leggere, sotto a “Rudus”, altre due parole: “delle ferriere”. Il packaging a nostro parere si fa notare soprattutto per il simpatico animale da trasporto, evidenziato con una illustrazione molto cromatica, con toni tendenti al carminio. L’opera pittorica è dovuta a Mary Cinque, artista che vive e lavora in Costiera Amalfitana lasciandosi ispirare dalla vivacità di quei luoghi. Nel complesso si tratta di una etichetta ben riuscita e dal punto di vista stilistico da considerarsi moderna. In un mondo rurale ancora abbastanza incontaminato, rappresenta una coraggiosa presa di posizione.

Un Salamino non Troppo Scuro

Puro!, Lambrusco Salamino, Vitivinicola Fangareggi.

L’etichetta di questo Lambrusco è di quelle “scherzose”, ovvero fantasiose. Cioè non si curano troppo di trasmettere tradizione o classicità, bensì puntano sulla simpatia. Lo stile è fumettoso-pittorico e in prima battuta vediamo tre bottiglie che versano vino sulle colline. Anzi (e qui c’è un’idea), inondano le colline come se le stessero conformando e colorando. Sullo sfondo un grande sole bianco. Due particolari: il colore del vino versato dalle tre bottiglie è di gradazioni diverse di rosso proprio come le principali tipologie di Lambrusco; alcuni infatti sono molto scuri, altri addirittura rosati. In questo caso si tratta di una via di mezzo: il Lambrusco Salamino di Santa Croce, infatti, dona un vino non troppo scuro (lo troviamo scritto anche sulla bottiglia, nella parte bassa dell’etichetta, in dialetto, “Lambròsc mia trop scur”). Un’altra particolarità di questa illustrazione artistica la troviamo in alto a destra: le sagome di alcuni cipressi (o almeno quello sembrano). Strano, perché siamo in Emilia, a Correggio e non in Toscana nei pressi di Siena. E infine il nome del vino: “Puro!”, proprio così, con il punto esclamativo. Una sentenza che va dritta alla questione della genuinità, o almeno ci prova a convincere di tale mozione il potenziale pubblico acquirente.

La Ricerca dell’Equilibrio, nella Vita, nella Vite, nel Vino

Serché, Barbera, 
Cantina Produttori del Monferrato.

A una prima occhiata si potrebbe leggere “perché” invece di “Serché”, che è il vero nome di questo vino. Il cervello per abitudine cerca subito un significato tra quelli di cui dispone. Infatti il nome di questa Barbera del Monferrato viene dal dialetto locale, che se non si è nativi di lì, non si può conoscere. Questa cantina cooperativa piemontese ha dunque trovato e comunicato un concetto interessante: “Serché” significa “cercare”. E sul fronte stesso dell’etichetta viene spiegato che la ricerca ha riguardato il voler trovare un equilibrio tra vino e territorio. Tra prodotto e storia del luogo. Il concetto è pregnante perchè tiene conto dei due elementi essenziali di una bottiglia di vino. Il contenuto, naturalmente, e le sue origini, intese non solo come vite e vigna piantate in un certo luogo (terreno, collina, paese) ma anche tutto quello che ci sta dietro, come dicono i francesi, il “terroir”, come la tradizione, la storia, i racconti, le generazioni che si sono susseguite, i racconti degli anziani, la toponomastica, l’agronomia, la geologia dei luoghi e cosi via, si potrebbero aggiungere molte altre cose. Il patrimonio che il vino porta dentro di sé è ampio e variegato: è una somma liquida che ci dona sensazioni che partono da lontano e toccano l’anima.

Il Correttore del Testo è Stato Scorretto

Grillo, Cantine Simonetti.

Come può essere accaduto che in stampa non siano stati corretti ben due errori contenuti nel breve spazio, 7 righe, di un retro-etichetta? Siamo in un’epoca in cui, se dovesse essere latente l’opera dell’uomo, i correttori automatici dei programmi di scrittura fanno egregiamente il loro dovere. E quindi? Distrazione? Noncuranza? Inadeguatezza professionale? Forse tutto assieme. Sta di fatto che alla terza riga vediamo “sicilia” in minuscolo e alla quinta riga leggiamo “erbe selavatiche” (e in più manca una virgola dopo “pesce” nella settima riga). È così difficile sbagliare che anche il nostro correttore ci impedisce di scrivere “selavatiche”, se non forzando la battitura. Forse chi ha redatto questo testo lo ha fatto a mano. Forse lo stampatore non è dotato dei più recenti programmi di elaborazione del testo. Non lo sappiamo. Certo c’è da essere preoccupati per il testo sottostante in inglese… che ci siano errori anche lì? Per assurdo probabilmente no… visto che “Sicily” è scritto giustamente in maiuscolo. Allora sovviene un’altra ipotesi: questo vino siciliano in realtà viene prodotto e gestito dall’estero, da qualcuno che non è nativo italiano. Certo che non ci fa una bella figura (anyway, la bottiglia che abbiamo fotografato è regolarmente in commercio in Italia).

Schiaccia il Rospo e Bevi il Vino (Rosso)

Calcababio, Bonarda, Monsupello.

Il nome di questo vino rosso della nota casa vinicola Monsupello (oggi gestita dagli eredi di Carlo Boatti, il fondatore) merita qualche approfondimento. Siamo nell’Oltrepò Pavese dove il vino viene prima del pane. Insomma una zona dove da sempre si coltiva la vite e si produce il nettare degli Dei, in questo caso soprattutto per gli acquirenti milanesi. Questa Bonarda (Croatina il vitigno) si chiama “Calcababio”. E’ già difficile da pronunciare per chi non è avvezzo al dialetto locale, ed è difficile anche intercettarne il significato. Sembra, per altro, che nei pressi della sede aziendale e dei vigneti ci sia un paese che ora si chiama Lungavilla e che precedentemente si chiamava “Calcababbio” (con due “b”), nome topografico che si rifà al verbo “calcare” e al dialettale “babi” cioè rospo. Lo stemma comunale infatti ritrae ancora oggi un piede che schiaccia un rospo. In dialetto la forma dialettale completa è “calchér ‘l babij” e probabilmente si riferisce storicamente alle azioni di bonifica delle zone boschive selvatiche o paludose (particolarmente frequentate dai rospi) per renderle adatte alla coltivazione. Da qui il nome in questione, diciamo così, italianizzato per renderlo (relativamente) pronunciabile. Certo non è un nome facile da ricordare, ma se si racconta la sua origine tutto cambia. E il povero rospo ne va di mezzo, come in ogni fiaba simbolica.

Un Riesling Austriaco con Tutto il Cuore

Riesling, Höckner & Höckner.

Il logo di questa piccola azienda vinicola austriaca, situata nella graziosa Krems (sul Danubio blu, nella parte nord orientale dell’Austria), è la traccia di un elettrocardiogramma che precede l’effettivo nome del produttore. Sulle etichette della gamma dei loro vini, la traccia cardiaca diventa di volta in volta il nome stesso del vino. Nel caso del Riesling forma la parola che rappresenta e comunica il vitigno. C’è un’idea. Criticabile certo, da chi ad esempio non vuole entrare mentalmente in un àmbito medico/ospedaliero e da chi i problemi al cuore li ha veramente, fisicamente, e non solo, ad esempio, per romanticismo. Però il richiamo al cuore, al battito, riconduce alla passione, alla cura, a metterci il cuore anche nelle cose materiali. Il vino, tutto sommato, è una questione di tradizione, cultura, ma anche di impegno personale e di connessione con la natura, a tutti i livelli. E cosa c’è di meglio del cuore, inteso come muscolo primario, che mantiene in vita, per rappresentare una voglia di convivialità che il vino richiama e promuove? La grafica dell’etichetta è semplice, diretta. Vediamo subito la linea del cuore e quasi nient’altro. Una traccia mnemonica intensa, in grado di farsi notare e ricordare.

Preziosità Metalliche per Bollicine Asettiche

Rhodium, Trento Doc, Salizzoni.

Gli spumanti hanno sempre avuto una loro particolare collocazione, a tavola, nei calici e nel vissuto personale di ognuno. Proprio perché possono collocarsi anche al di fuori dal desco famigliare. Sono festa, evocazione, privilegio. Anche oggi che le aziende le stanno tentando tutte per decontestualizzarli. Ritualità o quotidianità, i packaging degli spumanti rimangono comunque celebrativi, preziosi, valorizzanti. E allo stesso modo agiscono i loro nomi. In questo caso l’azienda Salizzoni, con sede a Calliano, tra Rovereto e Trento, ha voluto raggiungere il massimo dei massimi: “Rhodium” infatti è il nome scientifico (in inglese) del Rodio, un metallo ancora più raro e prezioso dell’oro e del platino. Il nome deriva dal greco “ròdon” cioè “rosa”. Curiosa l’affinità semantica con rododendro (da “ròdon”, rosa e “dèndron”, albero, cioè l’arbusto delle rose). Il metallo in questione comunque non è rosa, è bianco/argenteo, per cui, vai a sapere. La grafica in etichetta risulta piuttosto asettica: è ordinata, sì, vagamente preziosa, ma anche senza guizzi creativi, se non il nome del vino come già commentato. Sul collo della bottiglia, avvolto, come di consueto per questa tipologia di prodotto, da una stagnola coprente, leggiamo il nome del produttore in verticale e la sigla “Rh” (il simbolo chimico del Rodio). Il logo aziendale è il solito stemma araldico di cui sono sempre dotate le cantine che vantano antiche origini.

P come Pecorino. Ed è Tutto.

Dezi P., Pecorino, Fattoria Dezi.

La famiglia proprietaria di questa piccola azienda della provincia di Fermo coltiva uve dal 1970, quando Romolo e Remo (gli avi marchigiani, non gli Antichi Romani) hanno piantato le prime vigne. Oggi Davide e Stefano portano avanti la tradizione con i vitigni del territorio. La bottiglia che mostriamo è infatti un Falerio Pecorino, da abbinare al pesce o ad altri piatti leggeri. Veniamo al nome del vino: “Dezi P.”. Un enigma molto semplice: dove Dezi è il cognome di famiglia, possiamo ben dire che “P.” è il nome del vino. Ma perché una lettera puntata? Che obiettivo di comunicazione può avere? Generare curiosità? Chissà. A noi risulta piuttosto riduttivo, per utilizzare un eufemismo. “P.” starà per Pecorino, il vitigno, facile a dirsi. Ma non basta a giustificare una scelta che risulta sterile a livello di percezione, di marchio, di qualità, di memorabilità e quant’altro. La grafica: molto essenziale con qualche particolare. Il puntino della “i” di Dezi è in realtà il marchio aziendale (due “R” speculari, Romolo e Remo, i fondatori, in rosso). La “P.” viene collocata su un tassello rigato che fa da sfondo. Cosa significa? Non riusciamo a trovare una risposta razionale. Diciamo che è semplicemente “decorativo”. Il resto è piatto, sfondo chiaro, le diciture di legge. Parafrasando una famosa canzone degli anni ‘70 potremmo dire “bella, senz’anima” (Riccardo Cocciante), ma forse nemmeno bella.

Un Vino per Tutti dove Tutti hanno Ragione

Valpolicella Ripasso, Bolla.

Antica casa vinicola oggi affiliata a un grande gruppo, Bolla si è sempre distinta per la qualità dei vini rossi, di quella Valpolicella patria indiscussa dell’Amarone. In questo caso stiamo mostrando e parlando del “Ripasso” frutto di una tecnica tradizionale che punta ad ottenere vini più corposi. Ma non è di enologia che vogliamo parlare, bensì del packaging. In questo caso Bolla decide di distinguersi, sia pure affrontando costi di confezionamento superiori alla media, avvolgendo le bottiglie in una preziosa carta rossa. A scaffale si nota subito: sia per il colore, sia per l’insolito aspetto. La carta, di spessore, pesante, materica, dà valore al prodotto. La grafica è anch’essa valorizzante, con particolari decorativi e l’uso dei inchiostro dorato. In particolare viene valorizzato il marchio, al centro dell’etichetta, molto ben visibile: si tratta di un nome storico, come già detto, riconosciuto e riconoscibile, insomma, di pregio. La sensazione all’acquisto, è quella di poter entrare in possesso di qualcosa di speciale, da portare in tavola, ad amici e parenti, con grande dignità, nonostante il costo molto contenuto. Siamo di fronte quindi a un packaging (e anche a un vino) che con espressione anglofona si potrebbe definire “value for money”. E quando il risultato è questo, si può davvero parlare di “win win”: vincono tutti, produttore e consumatore.

Baronie a Memoria di Bisnonno

Lisciandra, Catarratto, Baronia della Pietra.


Tanta storia, tanti popoli e di conseguenza tanti nomi in quella magica Sicilia che da millenni coltiva e produce i frutti tipici del mediterraneo: la vite e l’ulivo. Si tratta di una piccola azienda vinicola che vanta origini dal 1860. Un breve racconto, nel sito internet del produttore fa capire quante vicende si sono incrociate su quelle terre: “Il nostro bisnonno Domenico ha piantato gli ulivi. Sono passate molte stagioni da allora. Oggi siamo noi a occuparci di queste piante di ulivo e della vigna. La contrada si chiama Chinesi, un tempo abitata dai Sicani, coltivata dagli arabi, poi appartenuta alla Chiesa di Agrigento su concessione dei Normanni, infine acquistata per 800 scudi dalla nobile famiglia dei Barresi, di origine Normanna. Recenti studi farebbero risalire il nome del feudo Chinesi a una antica chiesa Bizantina della quale ormai si sono perse le tracce…”. E’ l’emozionante racconto dei fratelli Enzo e Salvatore Barbiera, che in località Alessandria della Rocca portano avanti ancora oggi l’attività di famiglia. Il nome di questo vino, un catarratto in purezza, nasce proprio dalla forma dialettale di “Alessandria”, cioè “Lisciandra”. In dialetto, Alessandria della Rocca viene detta “Lisciànnira di la Rocca” ed è chiaro il meccanismo con il quale la lingua (fisica e parlata) scivola sulle lettere che compongono il nome rendendo il tutto molto più morbido, lascivo, suadente, in perfetta assonanza con lo stile di vita di questa meravigliosa regione. In etichetta, su una texture con i temi grafici tipici dell’isola, vediamo due seriosi avi, ben abbigliati, che fanno da testimoni storici e culturali dell’impresa. Il logo e simbolo dell’azienda è una farfalla che vediamo alla base del packaging. 

Un Regno Viola Abitato dalla Dea Bendata

Purple Reign, Semillon e Sauvignon, Masstengo.

Si tratta, come si può sorprendentemente vedere, di un vino di colore viola. La base produttiva sono due vitigni bianchi ben noti agli appassionati di enogastronomia, ai quali vengono aggiunti dei “botanicals”, cioè delle erbe, che hanno il duplice compito di colorare il vino in questa tonalità insolita e di sostituire i solfiti per una ottimale conservazione del prodotto. Non è dato a sapere di quali erbe si tratta, ma visto tutto il discorso sulla naturalità (cioè sull’assenza di chimica nociva) fatto dal produttore, si ipotizza che il colore non sia generato da sostanze artificiali. Certo che la sensazione di avere un vino viola nel calice deve risultare, almeno di primo impatto, molto strana. Il nome del vino logicamente spinge sul concetto legato al colore: “Purple Reign” con un gioco di parole che pesca nel vissuto e nel conosciuto musicale di tutto il mondo per la celebre canzone del “Genio di Minneapolis”, Prince, dal titolo “Purple Rain”. In inglese infatti, le parole reign (regno) e rain (pioggia) hanno la medesima pronuncia, tanto che vocalmente risultano quasi indistinguibili. L’etichetta, come visual, si presenta in modo originale: un specie di Dea della Giustizia (o della Fortuna, eterna o fuggente che sia) semibendata e immersa in una vegetazione lussureggiante, ammicca sibillina agli osservatori. Non sappiamo se questo vino avrà un futuro (in Italia probabilmente no), certo che la sua unicità può colpire l’occhio prima ancora di quanto possa riuscire a fare il gusto.