Uno Champagne “Contiguo” a Monticelli Brusati

La Selossata (Contigus), Chardonnay Metodo Classico, 
Il Pendio.

L’etichetta che prendiamo qui in esame non offre molti spunti sul versante grafico, quello del design. Colore di fondo chiaro, gli elementi verbali che servono, in ordine e centrati. Logo e nome produttore in alto, nome del vino al centro, tipologia in basso. Una classica cornice racchiude il tutto. Ma qui ci interessa il corto circuito semantico provocato (perché di questo si tratta, di una provocazione) dal nome del vino: La Selossata. Chi pratica anche il Metodo Classico francese, loro lo chiamano Méthode Champenoise (letteralmente significa “della regione dello Champagne”), sa che uno dei riferimenti storici e qualitativi, ultimamente molto di moda, è Jacques Selosse (oggi l’azienda è guidata dal figlio, Anselme). Si tratta di Champagne molto particolari, ottenuti da coltivazioni biodinamiche. Comunque sia, il cognome “Selosse” è entrato a far parte dell’Olimpo dei marchi di vini prestigiosi e logicamente anche molto costosi. Ma torniamo al corto circuito mediatico e semantico generato dal produttore franciacortino “Il Pendio” che ha deciso di chiamare uno dei propri Metodo Classico “La Selossata”. Identico il vitigno, lo Chardonnay, evidentemente ci sono anche affinità produttive con il noto produttore francese di cui sopra. Va da sé che quello che si vuole ottenere non è solo una affinità d’intenti: siamo di fronte a una specie di omaggio verso il maestro Selosse, con l’intenzione, in cambio, di sfruttarne anche la notorietà. Sotto al nome principale del vino, troviamo scritto “Contigus” che in francese (dal latino contingere) significa attiguo. Forse riferito all’essere “contigui” con il Selosse francese, forse per la continuità tra vigna (raccolta) e cantina (produzione) che in Francia è sancita dalla sigla RM (Récoltant-Manipulant), e infine forse per via del metodo di affinamento che utilizza barrique in serie, una vicina all’altra, nella modalità “solera”. 

Allo Stile non Basta Essere Stilizzato

Gattinara, Luca Caligaris.

C’è della buona volontà in questa etichetta di una piccola azienda dell’Alto Piemonte. Solo un ettaro e mezzo a Gattinara. Tanto basta per una produzione di nicchia, ma anche di passione. Buona volontà, quindi, che nel vino significa qualità e che a volte nelle etichette non basta. Ma vediamo i dettagli di questo packaging: lo spazio disponibile sul fronte etichetta è quasi completamente occupato da un grappolo stilizzato dove le forme sono state “geometrizzate” con una sintesi tipica del design. Ne risulta un frutto piuttosto “tecnico”, austero, dalle sensazione metalliche, complici anche gli inchiostri utilizzati, leggermente rilucenti. In verticale, sulla parte sinistra del grappolo sintetico si scorge a fatica un nome: Caligaris Luca (proprio così, prima il cognome e poi il nome, che non sarebbe propriamente corretto). Intento nobile quello di “metterci la firma”, qui piuttosto vanificato dalle scelte cromatiche e di impaginazione. Nella parte superiore vediamo una scritta in bianco, affermazione della DOCG, importante, ma abbandonata un po’ a se stessa nell’economia degli spazi disponibili. In basso, alla base, troviamo la menzione “Gattinara”, in bianco e in evidenza come è giusto che sia. Il vino non ha un nome proprio: forse si intendeva affermarlo con quella firma che riporta il nome del produttore. Ma come si è detto all’inizio, potrebbe non bastare a formulare una identità forte e memorabile che ogni bottiglia e tipologia di vino dovrebbe avere per competere sullo scaffale e sulla tavola.

Un’Oca Giuliva nella Casa del Diavolo

Ciana, Bianchetta Genovese, 
Casa del Diavolo.

La bistrattata e sostanzialmente poco conosciuta Bianchetta Genovese (sorella gemella dell’Albarola, vitigno già più noto) si prende una bella rivincita, dicono gli intenditori, con questa versione di una piccola azienda agricola che ha sede e produzione sulle colline dell’entroterra chiavarese, a Castiglione. A parte l’ottima fama qualitativa del vino, siamo stati attratti, e non solo noi, dalla particolare etichetta. Molto colorata, allegra, giocosa, raffigura un’oca da cortile con atteggiamento umano, a passeggio con ombrellino parasole, cuffietta e vestitino. Il vino si chiama “Ciana”, attribuibile al dialettale “piana” o “pianura”, ma anche a “chiara”, quindi bianca. Infatti il colore dell’uva e soprattutto del vino risultano molto chiari. Sorprende il nome del produttore: “Casa del Diavolo” che sembra sia da attribuire al nome del casolare diroccato che ha dato origine all’azienda. In realtà l’immagine complessiva dell’etichetta è molto angelica, fanciullesca, e stona un po’ il riferimento al diavolo, di fatto anche molto visibile nella parte alta del packaging. In una delle “o” del nome aziendale, inoltre, troviamo inserita una mela rossa, o almeno così sembra. Forse il riferimento a una coltivazione passata o presente della quale però non vi è traccia nei racconti relativi a questa azienda. L’etichetta sicuramente si stacca nettamente da uno stile austero al quale spesso ci hanno abituati i viticoltori liguri. E suscita un sorriso di simpatia.

Culetti, Culatelli e Culaccini

Culaccino, Puglia Sangiovese Igt.

Del culatello abbiamo conoscenza tutti, almeno qui in Italia. Ma del culaccino? E soprattutto perché chiamare con un nome così buffo un vino? Al di là delle simpatiche battute che potrebbe provocare questo nome, a tavola, vediamo da dove nasce la questione. Prendiamo subito la definizione di Treccani e la riportiamo fedelmente (e ringraziamo la Madre di tutte le Enciclopedie): “culaccino s. m. [der. di culo]. – 1. Parte terminale di salami, salsicce e sim.; anche la parte inferiore di un cetriolo, accanto al gambo. 2. non com. a. Ciò che resta nel fondo di un bicchiere o di altro piccolo recipiente. b. Segno che lascia un recipiente bagnato sul luogo dov’è stato posato”. Ed ecco rivelato l’arcano. Il nome di questo vino, che potrebbe risultate ridicolo o canzonatorio, ha una precisa origine nella lingua italiana. Anzi, più di una. E sono tutte interessanti: il “culetto” del salame (chi non vorrebbe appropriarsene per godere di un boccone prelibato?) o del cotechino, quel che resta, l’ultimo “goccio”, nel bicchiere, e infine quella macchia a semicerchio che tutti conosciamo, lasciata dal “sedere” (a ridaje) della bottiglia o da un calice sulla tovaglia. L’etichetta in questo senso conferma: su un fondo cremisi vediamo, oltre al nome del vino in bella evidenza, alcune macchie di vino. Una di queste forma la “C” iniziale del nome. Che dire? Approvato con sorriso.

La Fatale Fenice del Timorasso dei Semplici

Phoenix, Timorasso, il Vino e le Rose.

Nell’infinita sequela dei vini naturali, barbini e affini, va collocato anche questo Timorasso dall’etichetta poco convenzionale. Iniziamo dal nome dell’azienda, poetico, evocativo, amabilmente retrò: “il Vino e le Rose”. In etichetta, alla base, il nome viene reiterato nell’indirizzo internet: male non fa. Indirizzo e quant’altro, tutto sul fronte etichetta, di solito meno affollato. Ma la protagonista del packaging-design è senza dubbio una infuocata illustrazione che raffigura una mitologica fenice dall’aspetto umano. Una specie di fata del fuoco emerge da flutti fiammeggianti con maestoso incedere. In alto leggiamo il nome del vino, coerente con l’immagine: “Phoenix”. Non sarebbe stato male proporlo in italiano, ma si vede che l’esterofilia ancora paga, sia pure sulle colline tortonesi. Sulla destra si nota un simbolo segnaletico che proclama l’assenza di Co2. Nel complesso non si può dire che questa etichetta passi inosservata. Se non altro per il cromatismo acceso. Forse c’è troppa confusione, troppe informazioni, troppi stimoli tutti insieme. E una certa discrasia tra l’artefatto splendore della fenice e la pretesa genuinità del prodotto.

Spine di Pesce in Terre Toscane

Lische, Chianti Colli Senesi, Podere Arizzi.

Cosa possono avere in comunce le spine di pesce con le colline toscane? Questo vino si chiama proprio così, “Lische”. E lo storytelling del produttore racconta che questo nome è dovuto alla particolare disposizione delle vigne, a lisca di pesce. Nel sito dell’azienda si vede una foto dall’alto, ripresa in etichetta con un tratto disegnato, sulla destra, che raffigura la geometria, sicuramente originale, del vigneto. Non abbiamo dubbi che tale disposizione possa fare bene alle uve (sole, vento, orientamento, etc.), nonché possa facilitare le operazioni legate alla coltivazione dei grappoli di Sangiovese (con un 10% di Merlot) che compongono questo vino. Ma c’è qualche “ma”. Innanzitutto le lische non sono propriamente simpatiche anche a chi adora il pesce in gastronomia. Vengono tolte, evitate, quasi demonizzate. Perché in effetti potrebbero provocare problemi in bocca o, se ingerite, nell’apparato digerente. Inoltre, come accennato sopra, il pesce col Sangiovese c’entra poco, anche se ultimamente gastro-enologi progressisti stanno sdoganando alcuni vini rossi in abbinamento con piatti di mare. Insomma le lische sono difficili da digerire, anche per quanto riguarda le parole. Il design dell’etichetta è spartano, semplice, diretto: fondo bianco con elementi in nero. Nome del vino in primissimo piano, logo aziendale in alto, note tecniche alla base, illustrazione sulla destra. Niente male. Ma l’etichetta non guizza.

Alpini di Collina nei Dintorni di Siena

Fontalpino, Chianti Classico, 
Fattoria Carpineta Fontalpino.

L’etichetta è di quelle molto semplici. Pochi elementi, ordinati e centrati. Il packaging conduce l’attenzione, in modo naturale, sul nome del vino, molto protagonista, al centro, insieme a una illustrazione “scarabocchiata” in rosso (che potrebbe essere una collina con dei cipressi o carpini). L’illustrazione vorrebbe risultare “artistica”, ma a nostro parere è fin troppo approssimata, quasi “buttata lì” per caso, come uno schizzo preparatorio ad un elaborato vero e proprio. Tornando al nome del vino, vediamo che non è esente da qualche problema semantico e fonetico (o viceversa): ove il significato originario risulta essere “Fonte al Pino” (una antica fonte in loco, circondata da pini, ora sostituiti da carpini), la fusione, in pronuncia e anche in scrittura di queste parole genera “Fontalpino”. Questo neologismo però attira l’attenzione sulla parola “alpino”, il mitizzato milite di montagna. Potrebbe, al limite, portare al significato “la fonte dell’alpino” (intesa come vino, non come acqua: l’acqua gli alpini non la bevono, la usano per distillare le vinacce). E comunque, in generale, l’immagine dell’alpino, così fortemente radicata nel vissuto e nel parlato italiano, cannibalizza tutto il resto. Chiariamo: non c’è nulla di male se il riferimento vola fino agli alpini, tra l’altro grandi estimatori del vino rosso, e se i cipressi (o carpini) si trasformano in piume e la collina in un cappello, ma probabilmente, trattandosi di un Chianti (siamo a Castelnuovo Berardenga, Siena) alpi e alpini non sono sinergici con il territorio. È solo un esempio di come un nome può contenere molteplici significati, non sempre quelli desiderati.

Un Concept-Design Tutt’altro che Arido

Aridus, Malbec. Aridus Wine Company.

Capita raramente di trovare un’etichetta in grado di esprimere pienamente un concetto con pochi e incisivi elementi e in modo immediato. Stiamo parlando della semplicità di una comunicazione diretta, che sfrutta le sinergie tra nome, design e materiali. La dimostrazione che si può fare è qui davanti a noi: si tratta dell’etichetta di un produttore che ha sede in Arizona. Il nome della cantina (che viene riportato anche come nome del vino, in evidenza, nel packaging) è “Aridus”. Parola in latino che significa chiaramente, secco, arido, asciutto, desertico. Il design conferma: una carta porosa e un inchiostro in rilievo trasmettono la sensazione di un territorio inospitale e polveroso. Ma non per le viti, che di questa aridità fanno tesoro, andando a cercare acqua in profondità, ma soprattutto concentrando il sapore dell’uva a tutto vantaggio di una produzione di qualità. È infatti risaputo che le vigne che “lavorano” in emergenza idrica, riescono a dare il meglio nella concentrazione degli aromi. E in questo caso l’azienda ha dato il meglio di sé nell’esprimere il concetto. Nella foto vediamo la bottiglia del Malbec, ma tra la gamma aziendale la medesima idea di etichetta viene riproposta con sfumatura di colore diverse. L’unica aggiunta al pregnante concetto protagonista dell’etichetta, sono delle piccole scritte alla base, dove troviamo il nome del vitigno e la precisazione “Limited Production”. 

Quattro Mori in Val di Cembra

For4Neri, Metodo Classico, Zanotelli.

Non è facilmente spiegabile l’adozione di questo nome, per uno spumante metodo classico a base Chardonnay, sotto l’egida della denominazione Trento Doc. Le spiegazioni possibili sono diverse: For(4)Neri potrebbe alludere all’utilizzo di 4 vitigni o cru diversi, ma non è così. Se fossimo in Sardegna (ma siamo in Val di Cembra, in Trentino) si potrebbe pensare a un omaggio ai 4 Mori che caratterizzano la bandiera indipendentista dell’isola. Oppure possiamo pensare che, in una formulazione mista, tra inglese e italiano, si possa tradurre il tutto con “per neri”, cioè un vino dedicato in particolar modo alle persone di colore. Stiamo logicamente e appositamente esagerando nel trovare possibili soluzioni al rebus. Il numero 4 inserito tra le parole “For” e “Neri” non chiarisce, anzi confonde (perché in inglese 4 è four). Fatto sta che questo vino si chiama proprio così “For(4)Neri”. In tempi come questi dove si parla di inclusione praticamente in ogni dove, un nome come questo potrebbe generare qualche polemica. In generale il design della bottiglia si presenta bene, è accurato, particolareggiato, con soluzioni di inchiostro e cartotecnica interessanti. Per concludere (non in modo positivo) il marchio alla base dell’etichetta indica il cognome della famiglia titolare: “Zanotelli”. Ma la leggibilità è davvero compromessa dalla scelta di uno stile orientaleggiante del quale non comprendiamo fino in fondo l’adozione.

Ulisse Naviga nello Zibibbo

Zhabib, Passito Igt Terre Siciliane,
Azienda Agricola Hibiscus.

Una bella etichetta da una piccola azienda che ha sede nell’isola di Ustica. Vediamo perché. Innanzitutto il prodotto, un vino passito da vitigno Zibibbo come si può facilmente evincere dal nome “Zhabib”, di chiara origine araba. I natante raffigurato al centro dell’etichetta è un omaggio all’Odissea (il viaggio di Ulisse) che identifica Ustica come l’isola della Maga Circe. La piccola imbarcazione è ben illustrata, con uno stile “narrativo”, dinamico ma semplice. Navigava in un mare bianco, sotto a un mantello di stelle con luna crescente. Gli astri, a ben guardare, sono messi in evidenza grazie a un inchiostro dorato, così come il nome del vino. Lo stile semplice, ma al tempo stesso ricco di particolari che denotano cura e attenzione per il packaging, rendono questa etichetta originale e molto gradevole. La sinergia del racconto che valorizza l’isola vulcanica dove vengono coltivate le uve fa sì che il cerchio comunicativo si possa chiudere alla perfezione. Il prodotto prende valore, materiale ed emozionale. Ed è questo che un’etichetta deve poter fare.

Un’Etichetta Parlante, Anzi, Ragliante

Il Raglio dell’Asino, Greco di Bianco, l’Acino.

Tutti sono in grado di riconoscere al primo ascolto il raglio di un asino. Si tratta di un verso animale molto distintivo. Che spesso suscita ilarità, ma anche simpatia. Certo l’asino, come animale, viene associato (anche con l’accezione “somaro”) a qualche studente svogliato o poco brillante. In questa etichetta, invece, l’asino viene eletto a simbolo. Infatti l’azienda, nella scheda di presentazione del vino, scrive: “Ci sono produttori nobili che dedicano un vino a un animale elegante come il cervo. Noi siamo umili produttori di vino e quindi abbiamo scelto di dedicare un vino al grido dell'asino, l'animale che ha sempre accompagnato il lavoro del contadino e con i muretti a secco rappresenta i popoli del Mediterraneo”. Il produttore in questione è calabrese, della provincia di Cosenza, dove in effetti l’utilizzo di animali da traino o da trasporto è ancora una buona, ecologica, conveniente abitudine. Veniamo all’etichetta nello specifico: il simpatico animale, sbuca da sinistra in versione illustrata e accenna al tipico raglio con gli occhi spalancati. Sulla destra in alto vediamo un cerchio giallo, il sole di Calabria, forse, ma più probabilmente un acino d’uva visto che l’azienda si chiama così e che un simile cerchio appare anche nel marchio. Per il resto vediamo il nome del vino in buona evidenza e per il fronte-etichetta è tutto, rimandando le informazioni aggiuntive sul retro. Che dire? Questa bottiglia si fa notare. Tutto sommato, dietro a questo packaging c’è un rational che non fa una piega. E anche graficamente, si fa sentire.

Riti Celtici in Boschi Luminosi

Lusenta, Erbaluce di Caluso, Marco Rossa.

La storia del nome di questo vino è variegata e comunque attinente a certi riti pagani che si svolgevano molti secoli orsono nella zona di Ivrea e più precisamente a Borgomasino, nel basso Canavese. Conducendo alcune ricerche si scopre che “Lusenta” nel dialetto locale vorrebbe dire “bosco di luce” (da “lucus” in latino). Scopriamo anche che il vigneto che produce l’uva per questo vino è “immerso nel bosco”, proprio in quel bosco antico che è una costante, nei racconti legati a Lusenta. Sembra che secondo tradizioni celtiche si possa anche parlare, come traduzione, di Bosco Sacro. Insomma, un po’ di mistero c’è. E non guasta. In questo bosco misterioso, proseguendo con le ricerche, è stata scoperta la Pera Cunca, che non è un frutto, bensì, sempre dal dialetto locale, una pietra concava. Una specie di altare sacrificale scavato in una grossa pietra alluvionale. Ad onta di tutta queste storie antiche siamo di fronte a una etichetta moderna: a parte il carattere in stile celtico del nome del vino, la grafica che lo circonda è molto dinamica, fluida, moderna. Le sfere dorate a sinistra del nome sembrano degli asteroidi. E anche la forma ellittica della cartotecnica (dell’etichetta stessa) è molto “spaziale”, futuribile e anche futurista. In buona sostanza un esperimento ben riuscito.

Una Primavera Nera in Rosa

Prima Nera, Schioppettino Spumante Rosé, Gigante.

I primi tepori di primavera richiamano vini freschi e magari spumeggianti. Ed è proprio la primavera che viene in mente quando si legge il nome di questo vino: Prima Nera. Una primavera nera? Non può essere: la primavera è colore nei prati e nei cieli. E quindi cosa può spingere un produttore a chiamare un proprio vino “Prima Nera”? Le assonanze contano. Chiamasi fonetica. Abbiamo indagato nel sito di Adriano Gigante e abbiamo scoperto l’esistenza anche di un vino che si chiama “Prima Gialla”, una Ribolla Gialla, e qui ci sta, portando la mente verso “primula gialla”, che a proposito di primavera è visivamente cònsona.  Evidentemente Primula Nera è una derivazione, nata dal fatto che il vitigno che compone questa bollicina è da uve nere, o rosse, se preferiamo. Lo Schioppettino, nella regione in larga parte vinificato in rosso qui viene “sperimentato” in rosa, con metodo Charmat. Per il resto l’etichetta è molto lineare, semplice, spartana: cognome/marchio del produttore in alto, con la precisazione “dal 1957” che fornisce una efficace sponda storica, mentre in basso leggiamo le indicazioni di legge. Il nome del vino, al centro, in grande evidenza, viene scritto con un carattere molto graziato che in parte ne compromette la leggibilità ma che tutto sommato valorizza la bottiglia. La Prima Nera è sbocciata. Speriamo che almeno nel calice riesca ad evocare vividi colori.