Una Simpatica Borgogna che fa l’Occhiolino

Clin d’Oeil, Viognier e Gamay, Sextant (Julien Altaber).

Ebbene, grazie a questa etichetta abbiamo saputo come si dice “occhiolino” in francese. Infatti il nome di questo vino, “Clin d’Oeil” significa proprio questo. L’attenzione però non viene attirata tanto dal nome, quanto dall’illustrazione che domina il packaging di questo piccolo produttore francese, sito nella zona di Beaune, in Borgogna. L’azienda si chiama “Sextant” e infatti al centro dell’etichetta di questo Orange Wine si vede un marinaio intento ad utilizzare il sestante, strumento prevalentemente nautico che si usa per misurare l’altezza del sole, o di altri astri, sull’orizzonte ottico (quindi per orientarsi). Il fatto curioso è che il marinaio in questione è praticamente un naufrago, perché non si trova sulla propria nave, bensì seduto su una botte, tipo barrique, che galleggia in mezzo al mare. Probabilmente la nave che ha subìto naufragio trasportava vino. Il collegamento non potrebbe essere che questo, con il contenuto della bottiglia che l’etichetta comunica e rappresenta. La terra comunque non è lontana: si intravede in lontananza un paesello, che ricorda più l’Alsazia (dove non c’è il mare) che la Borgogna (ugualmente senza coste a tiro di schioppo). Si sa che in tempi passati gli inglesi trasportavano botti di vino da Bordeaux fino in Inghilterra, forse la scena riprodotta nel design di questa etichetta intende ricordare quel tipo di fiorenti commerci. L’illustrazione comunque è ben fatta, attira l’attenzione. E l’etichetta manifesta un proprio equilibrio grafico, piacevole e fruibile. Originale senza dubbio. Sarebbe bello conoscere cosa c’è dietro questo racconto visivo ma per ora nulla emerge dalla rete delle reti.

Racconti e Fantasia nella Timida Val d’Aosta

Pantagruel, Gewürztraminer,
Cantina di Cunéaz Nadir.

Questa piccola cantina dal nome curioso, Cunéaz Nadir, si trova a Gressan in Val d’Aosta ed è nata nel 2009. Produce una serie di vini da vitigni autoctoni come il Petit Rouge, il Vien de Nus, il Fumin e il Vuillermin, ma anche da vitigni internazionali come è il caso di questo Gewürztraminer che si chiama “Pantagruel”. L’elemento più importante dell’etichetta è proprio il nome del vino, visto che per il resto il design è davvero essenziale. Sono molti i vini che si ispirano al racconto che vede protagonisti Gargantua e Pantagruele (nome in italiano), scritto in Francia nel 1542 da Rebelais. In particolare, il Libro Primo dell’opera, viene così titolato in originale: “Gli orribili e spaventosi fatti e prodezze del molto rinomato Pantagruel re dei Dipsodi, figlio del gran gigante Gargantua”. Di fatto il romanzo di Rebelais è un inno al mangiar bene (e anche a mangiar tanto: le porzioni degli Chef televisivi di oggi farebbero ridere, o fors’anche piangere, il buon Pantagruele). In etichetta l’unica, altra, concessione alla fantasia (di cui Rebelais, l’autore del romanzo, era sicuramente molto dotato) riguarda una piccola figura al tratto, collocata sopra al nome, dove un pantagruelico omino tracanna vino da un grande bicchiere. La simpatia del personaggio Pantagruel fa da traino, certamente, ma l’estrema semplicità dell’etichetta non riesce a colpire e a comunicare in modo incisivo. 

Chanel N°5 in Versione Contadina

N°5, Malvasia Aromatica di Candia, Podere Cipolla.

Ci sono parole in grado, più di altre, di evocare immediatamente sapori, odori, sensazioni, ricordi. Una di queste è “Cipolla”, il nome di questo vino. “Cipolla N°5” per l’esattezza. Bizzarro quanto innegabile il possibile collegamento con il ben noto profumo Chanel N°5. Molto diversa la sensazione olfattiva che può richiamare nel nostro cervello. L’azienda è piccola, specializzata in Lambrusco: in questo caso lancia sul mercato un vino fermo, bianco, aromatico, ma pur sempre di territorio, laddove la Malvasia Aromatica di Candia è presente da sempre nelle colline di quella regione, l’Emilia. Il nome dell’azienda è Podere Cipolla, giusto per insistere. Ad evocare profumi suadenti è anche la velata figura femminile riportata sulla sinistra del packaging: nella diafana sagoma si nota solo un orecchino e il fatto che una mano stia indicando, quasi sorreggendo, il N°5, con l’obiettivo di sottolinearlo, di imporlo all’attenzione del pubblico. Per il resto l’etichetta è piuttosto spartana, con una disposizione centrata dei testi, amalgamati su toni chiari di sfondo. Certo che quella cipolla reiterata in etichetta risulta davvero invadente. Così come lo è in cucina, o ancora prima quando si decide di affettarla per farne uso. Si tratta solo di particolari? Non proprio. Il nome di un vino caratterizza il prodotto in modo profondo: quindi non è il caso di escludere approfondimenti, in qualsiasi direzione, prima di decidere di adottarlo.

Produttori di Vino, Quelli Giusti

Valpolicella Superiore, Brolo dei Giusti.

Cosa è giusto e cosa è sbagliato? Chi può giudicare? Certamente chi produce vino è nel giusto, perché esercita una professione e una produzione che rientra in quelle amenità che hanno reso grandi e felici i popoli della terra. Ma queste sono considerazioni pseudo-psicologiche che possiamo accantonare. Di certo c’è che questa azienda (e i vini che produce, per ora solo due) si chiama “Brolo dei Giusti”. Brolo e non Barolo come a prima vista potrebbe sembrare. Anche perché siamo in Valpantena, la parte più a Est del territorio della Valpolicella. Zona dedicata quindi prevalentemente a Ripasso e Amarone. Vediamo cosa racconta l’azienda nel proprio sito internet: “Il Brolo dei Giusti è un unico vigneto, racchiuso e prezioso, nel cuore della Valpantena... Brolo, nella tradizione contadina, è un campo coltivato protetto da siepi, alberi di ulivo e marogne, i tradizionali muretti a secco che da sempre, in Valpolicella, definiscono le proprietà terriere”. Ci siamo: il riferimento è a qualcosa di tangibile e di storico. Rimane ancora nell’ombra il perché quello dovrebbe essere un luogo frequentato “dai giusti”. Giusti come cognome? No. Giusti in senso di giustizia ed equità, virtù e passione? Forse. La prendiamo per buona. Il packaging è molto essenziale. Nome in grande, Nero, rosso e bianco, colori che staccano. Sotto al nome un anziano vignaiolo siede su un muretto rimirando il panorama. Sicuramente di forte impatto e dotato di una buona originalità. Servirebbe forse qualche particolare in più per completare lo storytelling. Anche a costo di inventarlo.

Rosso a Natale e Festa Tutto l’Anno

“Vespa” Edizione di Natale,
Barbera d’Asti, Cascina Castlèt.

Il “Buon Natale” della Cascina Castlèt viene annunciato con una allegra edizione speciale del Barbera d’Asti dell’azienda. Quattro bimbe su una vespa rossa ammiccano in abiti babbonatalizi. Nella versione abituale del vino, per tutto il resto dell’anno, la vespa è bianca e le bimbe sono senza il cappello. Bellissima la descrizione dell’etichetta che si trova nel sito internet dell’azienda, tutta da leggere, tutta da sognare: “Fiocchi e sguardi. Sorrisi timidi e gambe magre di chi deve ancora crescere, ma ha già l’agilità delle gazzelle contadine. Quattro giovani vite a cavalcioni di una Vespa. E’ la giostra dei grandi, colma, immobile, per un’istantanea nel cortile di casa, in un giorno di festa. Un attimo dopo le bambine torneranno ai giochi. Si rincorreranno nei prati attente a non sporcare il vestito buono. I filari saranno le quinte del teatro di una vita che si sta appena assaggiando. Sono fatta di Barbera d’Asti, traggo forza dal passato con quattro volti che guardano il futuro divenuto presente. Ecco il vigore che c’è in me. Quattro vite colte insieme in un attimo, intrecciate per sempre. Sono semplice e calorosa, quotidiana e giusta, potevo avere icone diverse: colline, botti, grappoli. Era più facile. Così divento promessa e speranza. Mi faccio notare e racconto un piccolo sogno italiano divenuto realtà”. Si tratta quindi di una etichetta che è già speciale nella sua versione “normale”, e che prende ancora più abbrivio comunicativo nell’edizione speciale di Natale. Le etichette realizzate per eventi particolari come le feste di fine anno, rappresentano un costo supplementare per le aziende, ma possono dare quel qualcosa in più che può far bene anche alle vendite, oltre che all’immagine.

Un Bacio che Lascia il Tempo che Trova

Bacio di Venere, Blend di Rossi, Az. Agr. Nenci.

Vediamo subito che la bottiglia di questo vino, blend di Cabernet Franc, Merlot e Syrah, ha un formato inusuale. È più corta, più tozza, con le “spalle larghe”. Poco maneggevole ma  di taglio elegante. Passiamo all’etichetta: spicca il rosso della traccia di un bacio sulla sinistra. Bacio che si conferma anche nel nome del vino: “Bacio di Venere”. Il tutto sembrerebbe piuttosto stereotipato. Venere, la bellezza, il bacio come elemento di trasgressione. In alto il nome del produttore. Design a tutto bianco, con pochi elementi di spicco, e questo va bene. Il packaging si fa notare. Ma vediamo cosa dice l’articolato commento a questa etichetta da parte del produttore, nel proprio sito internet. Innanzitutto il claim: “Non solo un vino, uno stile di vita!”. E poi la dedica: “Bacio nasce da una semplice idea, restituire ai nostri sostenitori tutto l’affetto che ci hanno dato nel corso degli anni! Utilizzando una metafora, nel corso degli anni ci siamo sentiti come una bottiglia di vino che veniva riempita. Una volta piena avrebbe straripato! Quindi abbiamo pensato a come ricambiare questo affetto e abbiamo trovato un modo dedicando un vino a voi!”. E infine qualche esempio di “utilizzo” del bacio: “ Bacio può essere intimo, come due amanti che si scoprono e si amano. Bacio può essere familiare, come parenti che si accettano e si perdonano. Bacio può essere amichevole, come amici che si comprendono e si apprezzano. Bacio può essere consolatorio, come un bacio su una ferita”. Nazional popolare ma probabilmente efficace per quel target che ama l’immediatezza di codici attenzionali spartani.

La Trama Artistica della Semplicità

Nai e Señora, Albariño, Terra de Asorei.

Le etichette sognanti fanno sognare. Sembra una ovvietà ma non lo è affatto. Anche perché di etichette “sognanti”, in giro, ce ne sono poche. Ma vediamo cosa si sono inventati i produttori di questo vino, un albariño della regione galiziana della Spagna. Il packaging è dominato da una grande figura femminile, una sagoma, che evidenza la trama di un lungo vestito. Le decorazioni della veste riguardano la vite: pampini, tralci, foglie, frutti. Vicino alla coda formata dai capelli della donna si vede volare una farfalla, sempre in forma di sagoma. Semplice e artistico. Dal gusto delicato ma ben delineato. Una grafica fondata sul nero e sul bianco, con note di colore che spiccano. Una illustrazione moderna ma che evidenzia tratti classici. In alto a destra troviamo la parte letterale, descrittiva. Dove si legge anche il nome del vino: “Nai e  Señora. Apprendiamo dal sito dell’azienda che: “Nai e Señora (Galician for “Mother and Lady”) is our tribute to the powerful, independent women of the 21st century. “Nai e Señora”, Mother and Lady, is the expression poets in the early 20th century used to honour women—who worked hard to safeguard their families’ independence and Galician society—and their motherland: Galicia”. C’è dietro una storia, un concetto, un’emozione. Valorizzati da una trama attenzionale proposta con tatto ed estro artistico. Il gioco è fatto.

Un’Etichetta Legnosa e Ondivaga

Lignum Vitis, Frappato e Shiraz, Enoitalia.

Lignum Vitis viene definito dal suo produttore come un “concept wine” che celebra la scienza, l’arte e l’artigianato italiani. Si tratta (testuale dal sito dell’azienda) del “primo vino con un’etichetta interamente in legno”. Inoltre è ispirato dalla scoperta delle onde gravitazionali teorizzate da Einstein. Ora, giusto per tentare di chiarire, secondo Wikipedia “le onde gravitazionali si propagano nella struttura geometrica dello spazio modificando la distanza spaziotemporale di due punti vicini, facendola oscillare attorno a valori di riferimento. Inoltre, l'equazione delle onde è tensoriale (10 componenti), poiché deve tener conto di tutte le possibili dipendenze della distanza dalle coordinate”. Cosa possa c’entrare questo con una etichetta in legno non siamo riusciti a capirlo. Se non che l’etichetta stessa è tracciata con delle onde che si alternano a spazi vuoti. Da notare che in basso a destra si vede un bollino rotondo dove c’è scritto “onde gravitazionali”. Forse c’entrano coi vitigni? Frappato e Shiraz? Naturalmente stiamo scherzando, o meglio, stiamo tentando di interpretare le intenzioni creative e comunicative di questo packaging. Del resto l’etichetta attira l’attenzione. Per la sua conformazione, per il materiale, e anche per il nome del vino, latineggiante ma con un senso. Peccato che i vari elementi che compongono il design sembrano non stare insieme agevolmente. Ma questa è una riflessione che supera la barriera del commercio e quindi forse inutile al mero business.

Danza, Colore, Passione e un Buon Nome

Puragioia, Nero di Troia, Antica Enotria.

Si sa che la gioia è virulenta. Anche più di un Covid di quelli cattivi. Il vino stesso è “materiale” contagioso, soprattutto in convivialità. Il nome che il produttore ha destinato a questo rosso è “Puragioia”, suona bene, dice molto. Formulato così, con le due parole unite, diventa neologismo, mantenendo il suo significato portante. Il nome è accompagnato da una immagine, moderna, come un dipinto di arte contemporanea, che evidenzia una sagoma di corpo femminile in una postura da danza e comunque nell’atto di manifestare felicità, liberazione, profusione, fors’anche emancipazione. Cosa dice di questo prodotto, da vitigno Nero di Troia (altrimenti detto Uva di Troia), l’azienda titolare? “Puragioia. Il nuovo vino biologico di Antica Enotria è un inno alla vita. Il 2019 è un anno importante per la nostra azienda, 12 mesi segnati da un evento che ci ha visti tutti coinvolti: la nascita di un nuovo vino, una nostra nuova versione di Nero di Troia. Questa nuova bottiglia ha per noi un nome particolare ed è dedicata ad una persona molto speciale, Valentina. Compagna nella vita e nel lavoro, ci ha insegnato a guardare la vita con entusiasmo, a vivere con gioia, sempre. Puragioia Nero di Troia IGT Puglia nasce da questa riflessione: vuole essere un vino che trasmette gioia a chi lo beve, che ha l’ambizione di far star bene”. L’ambizione di “far stare bene” è davvero una bella promessa. Che va oltre il contenuto alcolico inebriante, notoriamente elevato per i vini rossi pugliesi ed entra un una dimensione anche salutare, di vino biologico, naturale, genuino, non artefatto. L’etichetta è semplice, pochi elementi ben distribuiti, e trasmette serenità, affidabilità, passione, spontaneità. Il colore magenta dominante (quel rosso-fucsia che caratterizza l’illustrazione nel packaging) contribuisce a dare una sferzata di attenzione e di stimolo ottico-psicologico. Fare design per il vino non è una attività da prendere alla leggera.

Sulla Ruota di Nizza è Uscito il Sette

7, Nizza Docg (Barbera), Sette.

Questo vino, figlio della recente denominazione Nizza Docg (insomma, una Barbera), si chiama Sette. Nei siti di e-commerce che lo veicolano verso gli assetati è scritto proprio così, in lettere. Mentre sull’etichetta, prestando attenzione si vede alla base il numero 7, “stampigliato” in modo irregolare. Si narra, nei racconti (lo storytelling) in rete che la decisione di chiamarlo così scaturisce dal fatto che la G, che accomuna i tre soci della cantina, Gianluca, Gregorio e Gino, è la settima lettera dell’alfabeto. Di lettere sparse ce ne sono altre, nell’etichetta. Oltre alla dicitura Nizza Docg e all’annata, vediamo in alto V.V. (poste in verticale) e in basso sempre a sinistra G.G., sigle alle quali per ora non abbiamo trovato collocazione concettuale. Occupiamoci adesso della parte centrale del packaging: una serie di ovali rossi, forse dei sassi nell’immaginazione di chi ha creato questa etichetta (Amebe? Ovuli?). La visione d’insieme di certo non è poetica. Ma nemmeno significativa, a parte la stranezza del “7/G”. Risulta un’etichetta piuttosto magra di emozioni, molto lineare ma non in senso creativo, bensì sotto l’aspetto puramente realizzativo. Attira l’attenzione? Forse, per la sua stranezza, ma tutto sommato l’attenzione dura poco. P.S.: si chiama Sette anche la società agricola titolare dell’attività.

Alla Corte di Scandiano Piace il Lambrusco

Orlando Innamorato, 
Lambrusco Grasparossa, 
Le Fattorie di Matilde.

L'Orlando Innamorato è un poema in strofe scritto nel 1476 da Matteo Boiardo Conte di Scandiano, piccolo Feudo nei pressi di Reggio Emilia. Racconta una serie di avventure per lo più fantastiche, tra amorazzi, duelli e magie varie. Nel poema viene utilizzato un linguaggio tratto dal “volgare padano” (a quel tempo non era ancora stata ufficializzata una letteratura basata sulla parlata toscana). Naturalmente il protagonista di tutte le storie è Orlando, un cavaliere un po’ sfasato e perennemente innamorato. Lo vediamo in questa etichetta ben rappresentato, sia pure in tono fumettistico. Goffo, su un enorme cavallo, ha infilzato un cuore con la sua lancia (quello della agognata Angelica). Siamo di fronte sicuramente a un’etichetta molto particolare. Che si prende poco sul serio. Così come particolare, nel panorama vinicolo italiano, è  la dicitura Spumante Rosso, definizione che troviamo alla base del packaging. Non può che essere un Lambrusco, viste le origini del racconto e dell’Orlando. E non può che essere un vino allegro e spensierato, così come la sua etichetta vuole essere ed esprimere.

Wine-Art per Rompere gli Schemi

Codino, Chianti Classico, Tenuta Monaciano.

Il Chianti è di quelli classici. La Docg conferma. Ma non è certo classica l’etichetta. In un mondo, soprattutto quello toscano, dove regnano ancora bottiglie dall’aspetto nobiliare e pacato con etichette minuziose e aggraziate, spiccano quei produttori che “si danno alla macchia” in senso ampio, filosofico e se vogliamo anche artistico. Etichette che a loro modo risultano sovversive, ma pur sempre dotate di gusto: all’esterno con le forme e il design, dentro alla bottiglia con il buon Sangiovese delle terre vocate. Iniziamo dal nome del vino, come è giusto: “Codino”. Ed è già simpatia. Forse questo nome viene risolto con un eccesso di tenero romanticismo, ma può funzionare. Si tratta di una parola in uso diffuso ma che risulta a suo modo originale. Il codino è chiaramente riferito all’illustrazione che vediamo al centro del packaging: dopo una lieve esitazione, scorgiamo due occhi e ci accorgiamo che si tratta di un gatto (forse sono due, uno dei quali di spalle). Un disegno realizzato con uno stile pittorico, particolare, inconsueto per una bottiglia di vino. L’azienda conferma nel proprio sito internet, testuale: si tratta di “...un gatto splendidamente illustrato da Hitnes, street artist romano”. Potremmo definirla wine-art, laddove il vino viene accompagnato da sensazioni visive, ma anche tattili e in generale evocative. Questa etichetta è tutta lì, in quella illustrazione e nel nome del vino. E per questa volta può bastare.

Animaletti Naturali in Franconia

Fledermaus, Blend di Bianchi, 2naturkinder.

Si definiscono “2naturkinder”, due bimbi naturali, e si chiamano esattamente Melanie Drese e Michael Völker, sono una coppia. Storia di giovani che lasciano la terra natìa per occupazioni importanti in giro per il mondo e poi tornano a casa (in questo caso in Franconia, Gemania). Certo ci vuole coraggio a coltivare uva in quelle terre nordiche. Ma i risultati a quanto pare non mancano. Un’ampia gamma di vini e di etichette tra i quali abbiamo scelto questo blend di Müller-Thurgau, Sylvaner e Riesling che si chiama “Fledermaus”, pipistrello in tedesco. E ad onta di qualsiasi problema di ribrezzo il pipistrello appare in tutta la sua grandezza nell’illustrazione del packaging. Appeso e silente (ma con gli occhietti aperti). Certo, il pipistrello è un animaletto che, ad esempio, mangia le zanzare e quindi fa un grosso favore agli umani. E in generale vive dove l’ambiente è naturale e dove il ciclo della vita è fiorente ed equilibrato. La sua immagine però è legata anche a qualcosa di tenebroso. Non si può dire simpatico, insomma. Almeno non per tutti. Detto questo l’etichetta risulta molto particolare, degna di attenzione, anche per le scelte cromatiche e stilistiche. Da notare anche il logo aziendale: in un angolo della grafica si nota un maggiolino (con il nome “2naturkinder”), altro simbolo di natura vera e sincera. Logicamente l’azienda agisce e produce in totale assenza di trattamenti e di forzature chimico-fisiche.

Green to the Extreme (Come Dicono Loro)

Purato, Catarratto e Pinot Grigio, Santa Tresa.

È nato “Purato”, il vino più “green” dell’universo. Il concetto viene rafforzato fino alla nausea in etichetta. Vediamo cosa si legge nel packaging oltre al già citato nome del vino. In ordine dall’alto: “Pura Sicilia”, poi vediamo una coccinella sul nome “Purato”, quindi i vitigni che compongono il vino, poi in basso “Made with organic grapes”, poi ancora “vegan friendly”. Sulla destra una scritta in verticale in corsivo recita “80% recycled glass. Paper from responsible sources. 100% recycled cardboard”. Insomma le ha tutte. Nei siti specializzati in ecommerce viene ulteriormente aggiunto: “lightweight bottle, vegetable ink on label, carbon neutral certified” e si potrebbe continuare ancora. Certo che l’argomento “green” è stato affrontato con tutte le armi a disposizione. Divulgato con puntuale solerzia. Si tratta di un mercato di nicchia, anche in America (dove è principalmente destinato questo vino), ma chi lo commercializza avrà fatto bene i conti... contando comunque di venderne qualche pallet. Nota a margine: la bottiglia è dotata di screw-cap, il tappo a vite, che molto green non è. Ma i costi di produzione hanno la loro importanza. E il pubblico anglosassone non protesta se non trova il classico sughero, anzi, agli svitamenti “pratici al consumo” sono abituati. L’etichetta in questione vanta una illustrazione molto originale, molto colorata, che ritrae il mondo vegetale e animale, la natura insomma, certo con uno stile minimale che non porta troppa allegria. Qualcuno, comunque, continua a preferire un fiasco di rosso di quelli rustici ma veraci. P.S.: il nome del produttore, Santa Tresa, non è un errore, si chiama proprio così, traendo origine dalla Contrada Santa Teresa (Ragusa) dove ha sede.

Fuga dalla Realtà in Terre Siciliane

Fuitina, Catarratto, Az. Agr. Bertolino.

Una produzione che si può dire davvero famigliare ha generato questo vino, Terre Siciliane Igp, con il coltivo di solo mezzo ettaro di vigna e il risultato (per ora) di sole 1000 bottiglie/anno. L’azienda è davvero piccola, ma l’etichetta è di quelle che si fanno notare. Saranno i colori, certo, molto accesi. Sarà il soggetto femminile che sempre intriga (uomini e donne). Sarà la gentilezza di quell’espressione e di quel fiore rosso. Sarà il copricapo ondeggiando così estroso. Sarà il nome del vino? Di solito è l’insieme degli elementi, meglio pochi ed evidenti oltre a ben amalgamati, che fa il successo di una etichetta. Qui abbiamo in sostanza una illustrazione che attira l’attenzione con gentilezza e un nome molto particolare. Cosa si intende per “Fuitina”? Davvero esaustiva la definizione che ne viene data su Wikipedia: “La fuitina, regionalismo estratto dal siciliano con il significato di "fuga repentina": identifica l'allontanamento di una coppia di giovani aspiranti coniugi dai rispettivi nuclei familiari di appartenenza, allo scopo di rendere esplicita (o far presumere come tale) l'avvenuta “consumazione”, in modo da porre le famiglie di fronte al "fatto compiuto" inducendole a concedere il consenso per le nozze dei fuggitivi. Tale fuga prematrimoniale, in uso nelle regioni del sud Italia, aveva spesso l'obiettivo di evitare il matrimonio combinato o l’endogamia, ma veniva anche compiuta in accordo con una o entrambe le famiglie dei transfughi, per ragioni economiche. Infatti, in tale frangente, vi era giustificazione alla celebrazione di immediate nozze riparatrici prive dei rituali e dei costosi ricevimenti di un matrimonio in piena regola. In quest'ultimo caso era spesso la stessa madre della ragazza che favoriva la fuga e preparava la tradizionale “truscia”, ovvero il fagotto contenente l'occorrente per il periodo di lontananza dei fuggitivi che, generalmente, durava 6-8 giorni”. Quanti concetti pregnanti e parole nuove dietro a questo nome, azzardato ma in fin dei conti simpatico!

Gnomi Furtivi in Valpolicella

Barabao, Garganega, Cà dei Maghi.

“Barabao” ha tutta l’aria di essere il nome dello gnomo accigliato che appare in etichetta, oltre ad essere il nome del vino, naturalmente. Certo che quella presenza un po’ ostile (forse ha paura che gli venga rubato il vino che tiene nella sua cantina) non è confortevole. Sia pure nella misura in cui, subito dopo un velo di preoccupazione subentra la simpatia di questo packaging. Tratti puliti, fiabeschi, grazie a uno stile illustrativo da narrazione, accompagnati da una scritta in corsivo: “Una casa sulla collina di Fumane, le scintille che escono dal comignolo e la polenta scompare dalla griglia. “Ci sono i Maghi”, si diceva in paese”. Insomma, il nano-mago ha pure molta fame e si diverte a fare gli scherzi, e quindi il ladruncolo è lui. La storiella coinvolge, genera allegria, a partire proprio dal nome, onomatopeico, ove “Barabao” diventa una specie di formula magica, foneticamente simpatica e ridondante. Proporre gnomi e folletti in etichetta non è certo originale, se ne vedono tanti, ma la modalità, anche grafica, di questo racconto rende il tutto plausibile. 

Latte e Vino per uno Storytelling Coinvolgente

Navigabile, Nerello Mascalese 
e Cappuccio, Ayunta.

Il nome di questa azienda vinicola siciliana con sede a Randazzo, nel lato settentrionale del Parco dell’Etna, è “Ayunta” e si riferisce a una curiosa (e vera) novella: il titolare e vignaiolo, Filippo Mangione, racconta che da piccolo la nonna al mattino gli faceva bere mezzo litro di latte (forse per questo poi è passato al vino), cioè due tazze più... ancora un pochino, una aggiunta, “a iunta” in siciliano. Da qui il nome dell’azienda che in questa etichetta appare proprio sopra al nome del vino, tra due parentesi. Design molto particolare, si vede una firma stilografata, due nomi (azienda e vino), la definizione della Doc (Etna Rosso) e nulla più (a dire il vero quasi non si vedono anche dei numeri scritti al contrario nello sfondo bianco dell’etichetta). Semplicità che incuriosisce. Passiamo quindi al nome del vino, “Navigabile”, che viene così spiegato dal produttore, nel proprio sito internet: “Il nome "Navigabile" sarebbe a dire, tecnicamente, “in grado di viaggiare sul mare, a vela", era storicamente il modo in cui i commercianti di vino locali, sin dal XVIII° secolo, chiamavano i loro vini di pregio. “Navigabile”, a quei tempi, doveva essere un vino capace di viaggiare attraverso il mare, dall'altra parte del mondo, mantenendo tutta la qualità e la fragranza. Un valore inestimabile per quei tempi, quando le spedizioni si facevano a vela. Dopo anni di ricerca, ci siamo resi conto che questa caratteristica era legata ad alcuni dettagli molto particolari utilizzati nella selezione delle uve e nel processo di vinificazione. A quel tempo solo la qualità e l'esperienza umana potevano fornire un grande vino. Siamo lieti di presentare la nostra moderna interpretazione di quei vecchi criteri, in grado oggi di trasmettere la nostra stessa idea di gusto e carattere nei vini rossi dell'Etna. Chiediamo a questo vino di navigare in tutto il mondo come ambasciatore del nostro lavoro sull'Etna”. Una bella storia, ben raccontata.

Omaggio a Warhol in Touraine

So What!, Terret, Domaine Le Briesau.

Questa piccola e diciamo pure giovane cantina francese (nata nel 2009) ha preso in prestito, per questo vino, un famoso refrain caro ad Andy Warhol: “So What!”. Un nome originale per un vino. Che potrebbe far pensare a molte cose insieme. Più di un nome, molto più di due parole: si tratta di uno stile di vita, di una filosofia tutt’altro che spicciola, di una apparente superficialità che scava invece in profondità. Di certo non per tutti, così come non erano per tutti le bravate artistiche del Warhol dei tempi migliori. Il punto esclamativo rosso afferma, sottolinea, sancisce, rafforza. Traducibile in italiano con un intercalare tipo “E allora?”, può essere ulteriormente dispiegato in “Chi se ne importa!”, del parere degli altri, del destino, dei fatti della vita, del semaforo rosso (ma anche di quello verde), del bello e del brutto, delle miserie ma anche delle nobiltà del mondo. Un forma di autodifesa psicologica che l’instabile Andy aveva progettato per sé e consigliato agli altri. Sull’etichetta di questo “petillant” vediamo il disegno di una coppia, lui e lei, in confidente atteggiamento, forse lui corteggiante, lei con il calice in mano a sancire il ruolo del vino come frangente introspettivo più che elemento oggettivo. Un invito a sorbire (non a subire) quello che il Grande Sceneggiatore ci propone (e quel che ci propina) senza fare un plissè, con olimpica compiacenza e suadente complicità. Ovunque e comunque. Un “chissenefrega” cosmico elevato a principio e fine di ogni esistenza libera e felice, accompagnata da una sana inconsapevolezza del vivere.

La Follia Coraggiosa è Contagiosa

Ma Petite République, Merlot e CabFranc, Paul Carille.

Se non sono matti non li vogliamo. O meglio: il vino buono lo producono i folli. Accezione portata in auge dalla Apple di Steve Jobs in un celebre spot televisivo. Ed eccone uno di quelli, francese, che esercita le sue pazzie vinicole nella zona di Bordeaux e precisamente a Saint Michel de Fronsac. Ma l’estro creativo si vede anche nel packaging anzi, si vede prima proprio nell’etichetta. Innanzitutto questo vignaiolo (piccola produzione, solo 0,4 ha di vigna per questo vino) ha chiamato la propria azienda (e il vino, 50% Merlot e 50% Cabernet Franc) “Ma petite république”, proclamando la sua piccola e personale repubblica proprio lì, in quella vigna. Il nome è grandioso, altro che piccolo. Si percepiscono, in ordine sparso, appartenenza, orgoglio, padronanza della materia, storia, tradizione, competenza e al tempo stesso quella umiltà contadina di chi sa di fare le cose per bene. E il visual dell’etichetta? Originale, sorprendente, trasgressivo ma elegante: i colori della bandiera francese, riuniti in cerchio nella modalità tipica delle insegne dell’aeronautica, sconfinano dal rosso, il colore esterno, con delle sagome che rappresentano il lavoro e il territorio: un cavallo, un calice, una chiesa, delle croci (la piccola vigna è in paese, proprio tra la chiesa e il suo cimitero e la scuola pubblica e il municipio). Genial Monsieur Carille! P.S.: ci scusiamo per la qualità non eccelsa della foto, ma questo vino è davvero una rarità e non si trovano molte documentazioni fotografiche in merito.

La Quadratura dell’Ovale

Picchio Rosso, Vino Novello, 
Cantina Valtidone.

La maggior parte delle etichette di vini sono rettangolari o quadrate. Raramente se ne vedono di ovali o rotonde. Incide forse una maggiore difficoltà di centratura sul vetro della bottiglia (ma oggi le macchine appositamente progettate possono fare un ottimo e preciso lavoro). Forse è perché le etichette rotonde offrono meno spazio utilizzabile. Però anche questo fatto non è plausibile. Ma veniamo al nostro “Picchio Rosso” e alla sua etichetta (ovale) raffigurata qui a sinistra. Sono invece frequenti le etichette che mostrano animali, soprattutto illustrati, come in questo caso. Il picchio è volatile in generale simpatico. Dedito ad affilarsi il becco sul legname o ad estrarre pinoli dalle pigne, in questa specifica scena boschiva. Il vino è di quello “novello”, l’etichetta gradevole, senza infamia e senza lode. Alla base scorgiamo un bollo rotondo (continua lo stile “curvativo” di questo packaging) dove troviamo una iscrizione a spirale: “Vinum Merum Placentinum Laetificat...” cioè “il vino (schietto) piacentino rende lieti...”. Un motto che la cantina Valtidone ha fatto proprio e che nessuno si sentirebbe di smentire. E quindi tutto quadra.

Il Guizzo di un Nome Particolare

Giochessa, Vermentino, Le Vigne di Silvia.

Il vino che in questo post proponiamo in analisi estetica viene prodotto dall’azienda “Le Vigne di Silvia”. In realtà le vigne sono anche di Stefania. Due sorelle che stanno continuando l’attività del padre e del nonno, prima di loro viticoltori nella zona di Bolgheri. Il Vermentino che vediamo qui a sinistra ha fatto seguito alla produzione iniziale di rossi, tipicamente “bordolesi”, della zona. Siamo sulla Costa Toscana, dove il mare fa il proprio gioco con brezze saline e temperature miti anche nelle stagioni fredde. Il vino in esame si chiama “Giochessa”. Nome che non può evitare di attirare l’attenzione. Si tratta di una parola poco usata fuori dai confini della Toscana. E anche lì deve essere spiegata. Ed ecco che ci giunge in aiuto il testo pubblicato dall’azienda nel proprio sito internet: “Giochessa è un termine utilizzato per descrivere una beffa o uno scherzo ma in Toscana viene usato anche per identificare un dribbling o una finta particolarmente estrosa che permette di eludere gli avversari sui campi da calcio. Silvia calciatrice italiana di livello internazionale con la passione per la campagna non poteva scegliere nome migliore per descrivere un vino di tale personalità”. C’è tutto: un accenno di regionalità (una parlata, più che un dialetto, in questo caso), un fatto concreto relativo alla vita della titolare (il gioco del calcio), la particolarità di una espressione inconsueta. Peccato che graficamente l’etichetta non presenti il medesimo graffio percettivo: per quanto è intrigante il nome del vino, tanto è poco espressivo il packaging. Vediamo in alto un accenno ad un pesce stilizzato (consiglio di abbinamento), molto esile e dotato di scarsa incisività. Per il resto si tratta di una etichetta classica, ordinata, senza guizzi (se non quello del pesce già descritto). Alla base dell’etichetta, poco visibile ma aggraziato, il logo aziendale.

Fiori e Colori Gentili sulle Colline Piemontesi

Dahlia, Barbera e Nebbiolo, L’Annunziata.

La Dalia (o Dahlia) è un fiore. Che annovera diverse specie e colori. Esprime delicatezza, armonia, gioia ed è il nome di questo blend di Barbera e Nebbiolo che nasce sulle colline di Costigliole d’Asti, il comune più vitato d’Italia per estensione, a 400mt di altitudine. L’azienda, che si chiama “L’Annunziata”, dal nome della frazione dove si trova la cantina, agisce in regime Biologico e Biodinamico. Ma torniamo a questo vino e alla sua etichetta. Leggiamo il nome, in carattere graziato-stilografico, tratto sottile, forse troppo, ma in linea con la “gentilezza” dell’insieme.  Una donna, ballerina, madama, contessa e perché no, contadina, di spalle, indossa una gonna che esprime tutta la dolcezza di un fiore, la fragranza del suo profumo, la leggiadria di stoffe preziose, ma assistiamo anche alla naturalità di una posa spontanea, sognante. In basso, alla base dell’etichetta, il nome dell’azienda. Da notare il tipo particolare di carta: potremmo definirla “martellata”, tecnicamente si dice goffrata, che fa risaltare un certo spessore, una consistenza volumetrica in rilievo, una porosità che esprime materia, concentrazione, qualità. Ne deriva, alla vista, la voglia di toccarla, di apprezzare con i polpastrelli la sua densità. Di percepire la fine e al tempo stesso genuina tessitura. Il vino contiene la “rude” Barbera e il nobile Nebbiolo. Il tutto rastremato e ingentilito da questi toni femminili ed estatici. Apprezzabile quindi il mood comunicativo del packaging.

Caos Creativo negli States

Beauty in Chaos, Blend di Rossi e Pinot Grigio, Ste. Michelle Wines Estates.

Insolite etichette, soprattutto per noi europei, abituati a design classici e laddove moderni sempre con una sorta di rispetto per il gusto e la tradizione. In America invece sono, come dicono loro, “disruptive” E trattano il vino quasi da prodotto come tutti gli altri. Non si fanno problemi quindi nel progettare etichette che varcano i confini dell’immaginabile. E comunque, in alcuni casi, questa scelta porta attenzione e buona comunicazione. Queste due etichette, disegnate dallo studio Lavin Design, ci portano in territori percettivi da cinematografia (gli americani vivono tutto ciò che li circonda come un grande e interminabile film). Vediamo innanzitutto cosa dice il designer commentando queste etichette: “I designed the label with geometric lines over a stormy background. The line work and logo are in holographic foil to add a contemporary vibe”. Il nostro commento è che il nome “Beauty in Chaos” e lo “scenario” sono sicuramente di impatto. Nonostante il nome composto, il concetto incuriosisce. E viene ben giocato, sovrapponendolo a questi cieli tumultuosi. Discutibile la modalità di scrittura con le lettere vuote, scavate, ma questo è tutto sommato un elemento soggettivo. Molto particolari le linee geometriche che invadono l’etichetta. Non siamo di fronte a un capolavoro, ma sicuramente a qualcosa di originale in grado di attirare attenzione, commenti e riflessioni varie.

Fugge l’Ora, ma il Packaging Richiede Tempo

Ruit Hora, Barbera e Nebbiolo, Ghiomo.

Ci sono etichette che confondono. O meglio che non comunicano in modo chiaro. Forse volutamente, per mantenere un’aura di mistero. Sembra proprio questo il caso rappresentato qui a sinistra. Si tratta del packaging di un blend Barbera-Nebbiolo che nasce a pochi chilometri da Alba ad opera di un piccolo viticoltore, Giuseppino Anfossi. Il nome che il produttore ha deciso per la propria azienda (partiamo da quello) è “Ghiomo”. Parola davvero strana, anche come fonetica. È praticamente sconosciuta. Si tratta di un attrezzo che serve per produrre le botti in legno, recita il sito dell’azienda. In realtà cercando su Treccani risulta che ghiomo è “...gomitolo, derivato dal latino glomus glomĕris (allotropo quindi di ghiomo), forma parallela a globus, di cui ha lo stesso significato. Palla di filo continuo ravvolto ordinatamente in modo da potersi agevolmente svolgere a mano a mano che si adopera“. Fatto sta che la parola “suona strana”. Ma andiamo oltre. Il nome del vino è “Ruit Hora” che, sempre da Treccani, significa, dal latino, “precipita l’ora”. Si allude alla fuga veloce del tempo e soprattutto all’imminenza della morte; si legge ancora talvolta sulle meridiane (è anche il titolo di una delle Odi barbare di G. Carducci)”. Nella raffigurazione al centro dell’etichetta si vede in effetti una vecchia meridiana da muro. Il tutto è volutamente consumato, poco chiaro, poco leggibile, possiamo dire “anticato”. Discutibile la scelta, apprezzabile il riferimento agli antichi usi, costumi e consumi (visto che sempre di vino stiamo parlando). Etichetta probabilmente migliorabile dal punto di vista estetico. Ma anche da quello puramente comunicativo del naming.

Il Polpo, il Passito e un Bambino Ardito

L’intraprendente, Liguria Levante Passito, Càduferrà.

Abbiamo qui un’etichetta e in generale una bottiglia che colpisce: il produttore si chiama Cà du Ferrà (che i titolari dell’azienda scrivono senza spazi tra le lettere e senza maiuscole intermedie). Si tratta di un passito da Bosco, Albarola e Vermentino, i grandi classici autoctoni della Liguria di Levante. Iniziamo subito col dire che “Cà du Ferrà” significa “casa del fabbro” in quanto in quelle zone si usava portare i cavalli a ferrare presso abili maniscalchi. Per restare in area naming è impossibile non notare il particolare nome del vino: “L’intraprendente”. Incuriosisce, viene subito collegato alla figura centrale, un ragazzino sugli scogli che sta pescando (in testa il classico “cappello da muratore” fatto con fogli di giornale). In particolare Il ragazzino sembrerebbe proprio maneggiare una semplice “attrezzatura” di quelle che serve per pescare i polpi: un legnetto, uno spago e una finta esca (basta che risulti appariscente e il polpo si avvinghia). I cromatismi sono originali e azzeccati: verde fluo e tratto nero. Non abbiamo trovato in rete un rational che possa fare riferimento alla scelta di questa “sceneggiatura” marinaresca, immaginiamo che possa essere un ricordo di bambino da parte di uno dei titolari. Anche perché non c’é corrispondenza d’uso tra un passito e il polpo (o altro pesce). Resta il fatto che la bottiglia si fa notare. Con una certa poesia dell’attimo. Alla base dell’etichetta il logo (non proprio chiarissimo nella sua manifestazione di sintesi) e il nome del produttore per intero.

Il Vino dagli Occhi Blu

Occhi Blu, Sauvignon, Cantine Angelinetta.

Questa etichetta raffigura un disegno dell’artista Felice Beltramelli, opera ritrovata in un album-raccolta dopo la sua scomparsa. Da sempre il mondo del vino è legato a quello dell’arte. Con il chiaro monito che fare arte non è da tutti. Quindi non basta un sghiribizzo mentale o da lapis improvvisato per creare qualcosa di valido, che possa rappresentare e comunicare un vino. Questo disegno, a nostro parere ci riesce. Ricorda un po’ quel gran genio di Picasso, ma conserva una propria identità. Un tratto sottile, qualche macchia di colore, ed ecco nascere una figura pseudo-umana dagli occhi blu. Una luna e una stella completano il panorama stilografico. Poesia in arte moderna. Il nome del vino non poteva essere che “Occhi Blu”, un omaggio a una persona speciale, una condizione fisico-cromatica che affascina sempre, visto che di occhi di quel colore ce ne sono pochi in giro. Anche il vino ha la sua particolarità: si tratta di un Sauvignon coltivato e prodotto sulle colline del lago di Como, a Domaso, sponda occidentale, quella ben esposta al sole. Un vino bianco che si avvale di passaggio in barrique non tostate. Un vezzo, se vogliamo, poche bottiglie prodotte, costo elevato. Ma anche la manifestazione di una passione di un produttore che ha lasciato la professione di ingegnere edile per dedicarsi alle vigna. Ultima nota: sotto al nome, in etichetta, troviamo la scritta in corsivo “Una sera al chiaro di luna sulla riva del lago in compagnia di due occhi blu”. Tutto il resto è fantasia.

L’Etichetta Tazebao di un Esordiente Roerino

Capitolo 01, Langhe Nebbiolo, Stefano Occhetti.

Per strano che sia, Stefano Occhetti ha deciso di raccontare la sua storia direttamente in etichetta. Ma vediamo fatti e antefatti. Si tratta di un nuovo arrivo nella compagine dei viticoltori roerini: una vita precedentemente improntata alla carriera manageriale e adesso virata in quella “contadinale”. Tanto recente la decisione che la vendemmia 2019 è la prima e il vino prodotto per ora l’unico. Il vino è un Langhe Nebbiolo e a quanto appare in questa davvero insolita etichetta si chiama “Capitolo 01” (in alto, in piccolo). Segue un lungo testo, che occupa tutta l’area cartacea del packaging, dove il novello viticoltore racconta come e cosa è accaduto alla sua vita in tempi recenti. Nell’etichetta vengono evidenziate due frasi: “mia prima vendemmia” e “tremilaseicentodieci”, il numero delle bottiglie prodotte in questa prima edizione assoluta. Bellissima la prima frase di questo scritto appassionato (che riportiamo qui nel caso fosse difficile da leggere nella foto allegata): “Non è dato a scoprire quante vendemmie avrai davanti a te, dicono non più di una cinquantina. Credo sia questo a rendere il vino speciale, ogni bottiglia, infatti, porta in sé un intero anno di vita”. Resta solo da ascoltare il consiglio di Stefano, verso la fine del medesimo testo: “Quando deciderai di stapparne una, brinda con qualcuno e goditi ogni istante”. Prosit!

Un Morellino con Ghiaccio

Ghiaccio Forte, Morellino di Scansano.

La decisione di questo produttore toscano, di riportare in grande, in modalità nome del vino, il nome stesso aziendale, è discutibile. E infatti qui ne discutiamo. In questa etichetta si evidenziano due (forse tre) elementi preponderanti: il nome “Ghiaccio Forte” (ove “forte” è ulteriormente fortificato dallo spessore del carattere di scrittura) e la nota definizione della denominazione Morellino di Scansano. In aggiunta, sulla sinistra, vediamo una testa scultorea di donna, in rosso, quasi fosse un bollo, un sigillo, una ceralacca. La Nostra discussione verte su due fattori del primo elemento (Ghiaccio Forte): il significato delle parole e la dimensione (e lo stile) di scrittura. Entrambi questi fattori portano alla mente qualcosa diverso dal vino: ad esempio potrebbe essere evocata l’immagine di un bicchiere da amaro (da fine pasto, detti anche “ammazzacaffè”) di quelli larghi con dentro i cubetti di ghiaccio. Lo stile stesso del design dell’etichetta porta a pensare a una bottiglia di amaro anni ‘70. Sulle ragioni originarie del nome della Tenuta Ghiaccio Forte non abbiamo trovato riscontri (se non che è riconducibile a un sito etrusco del IV secolo a.C.). Possiamo invece dire qualcosa sul nome storico “Morellino”, ormai acquisito e adottato abitualmente: tutto merito del Granduca di Toscana che battezzò in questo modo il Sangiovese del luogo, caratterizzato da uve molto scure, in omaggio e memoria del mantello “morello” dei cavalli maremmani che venivano utilizzati per il traino delle carrozze dei nobili del tempo. Insomma, un Morellino ghiacciato, se non auspicabile nel consumo, nella percezione che potrebbe condurre a livello inconscio.

Il Pinot Grigio più a Nord del Settentrione

Tvleo, Pinot Grigio delle Venezie.

L’etichetta di questo vino, uno degli innumerevoli Pinot Grigio (delle Venezie) dei quali è letteralmente invaso il mondo, non ha nulla di veramente speciale (sì, daccordo, quella “T” grande attira l’attenzione, ma finisce tutto lì) se non fosse per il nome del vino (o nome dell’azienda parificabile). La ricerca di affinità non è stata facile ma alla fine abbiamo scoperto che “Tvleo” non è una televisione locale o digitale, bensì il nome, qui proposto in modo pseudo latineggiante, di un’isola remota, forse immaginaria. “Tvleo” o “Tuleo” (in esperanto) o anche Thule in latino si riferisce a un territorio in mezzo al mare, descritto dal navigatore greco Pitea, che si trova molto a nord della Gran Bretagna. Thule, infatti, nell’antichità era termine per dire “ai confini del mondo (settentrionale)”, in latino “ultima Thule”. Gli storiografi e cartografi pensano che si possa trattare delle Isole Faroe o delle Shetland. Sembra che qualcuno attribuisca all’isola di Thule (a proposito, sulle mappe si trova anche come “Tile”) l’origine della razza ariana. Insomma un mezzo mistero. Il nome di questo vino viene appunto enfatizzato dalla presenta di una grande “T” al centro dell’etichetta. Notiamo anche, alla base dell’elaborato, un tassello nero con la scritta “Limited Edition”, una di quelle terminologie che lasciano il tempo che trovano, un po’ come “vino naturale” o “selezione speciale”.

La Vigna è “Maia”

Amai, Blend di Vitigni Rossi e Bianchi, Podere Orto.

Parliamo di un’azienda molto giovane, proprio come la figlia dei proprietari che corre felice tra i vigneti. Potrebbe essere scritta così la sintesi di questa piacevole etichetta. Ma vediamo... cosa si vede. Un disegno, centrale, con un panorama collinare e alcune vigne appena accennate, in bianco e nero. Una sagoma di una bambina, colorata di rosa salmone (unico elemento cromatico del packaging insieme al nome del vino) corre in mezzo ai tralci di vite. In basso leggiamo “Amai” anagramma di Maia ma anche voce del verbo amare e se vogliamo un brindisi a qualcosa che “mai” potrà finire. L’amore per il vino, per la famiglia, per il territorio. Sono concetti leggiadri, così come leggera (in senso positivo) è la percezione di quel disegno. Spensieratezza il primo pensiero. In alto, ben evidente, il nome dell’azienda, Podere Orto e una scritta piccola sotto di esso: Trivium. L’azienda si trova infatti in un punto molto particolare del Centro Italia: esattamente al confine fra tre regioni che sono Lazio, Umbria e Toscana. Anche in questo caso, come in altri esempi di etichette virtuose, gli elementi sono pochi, ben evidenti, concettualmente significativi. Del resto nel meno c’è il più. E chi non lo vede peggio per lui. N.B.: la bambina che corre si chiama proprio Maia che in Oriente è simbolo di rivelazione, risveglio, purezza, origine, creazione e un sacco di altre cose belle.

Madre Terra Danza con Mozart

Gea, Rosso di Montalcino,
Il Paradiso di Frassina.

L’etichetta di cui parliamo in questo post è di una azienda vinicola fondata “dall’uomo che sussurra alle vigne” (titolo di un suo recente libro). Ovvero Carlo Cignozzi, avvocato a Milano per 40 anni, dal 2000 trasferitosi a Montalcino con la passione per il vino. L’avvocato è noto per aver installato nelle sue vigne un impianto musicale che diffonde 24 ore su 24 musica di Mozart. Il concetto trainante è che la vite, ascoltando musica, cresce più allegramente (producendo migliore qualità). Il vino più modesto della gamma (che comprende naturalmente anche un Brunello) ha attirato la nostra attenzione con un packaging semplice ma interessante. Si tratta del Rosso di Montalcino che si chiama “Gea”. Come tutti sanno e come il produttore specifica nel proprio sito internet “...è il nome della Divinità della Terra” (e anche della figlia). Bel nome, corto, evocativo, forse fin troppo inflazionato, ma suona bene, trasmette genuinità, semplicità, primarietà, solidità. In basso, nell’etichetta, vediamo il nome dell’azienda, “il Paradiso di Frassina” con una nota dorata inserita tra le parole. Ma è la parte superiore quella interessante: la parola “Gea” fa da terreno, forse da radici, per una collina stilizzata, sormontata da un’altra collina e da alberelli. Il tutto con uno stile rastremato, sintetico, gentile, armonico, suadente, piacevole.

Coerenza con Gusto: il Vino è un’Arte

Materico, Nerello Mascalese, Cantine Pellegrino.

“Materico”, il nome di questo vino, è una parola che di solito viene utilizzata negli ambienti artistici, dai pittori o creatori di opere d’arte, per indicare qualcosa di strutturato e solido. L’origine è “materia” o “materiale”, con un precisa connotazione fisica. Un vino si può dire materico quando “si mastica” (questa invece è terminologia da sommelier), cioè quando la sua consistenza diventa quasi densa. Tecnicamente quando si ha un estratto secco elevato. Ma torniamo alle cose di packaging. Questa etichetta creata dal gruppo vinicolo Pellegrino (più noto per il Marsala) risulta molto attenzionale. Sono i colori, certo, ma anche lo stile, pulito ed essenziale, che comunica precisione e quindi competenza. Nella grafica, il tracciato cartografico di una vigna viene evidenziato, in particolare, con un strato di colore fucsia. La dicitura “vino biologico”, del medesimo colore vivace, viene giustamente enfatizzata, laddove il marketing dell’azienda ha deciso di puntare (anche) su questa categoria di prodotti. I caratteri di scrittura sono squadrati, compatti, solidi (proprio come il concept utilizzato per il nome del vino). L’etichetta risulta organica, bilanciata, in una parola credibile. Coerenza e gusto prendono un abbrivio vincente.

Nomi Scomposti su Etichetta Sterile

Caraconessa, Greco Bianco e Malvasia, Fezzigna.

L’etichetta di questo “Melissa Doc” (la pianta aromatica non c’entra, si tratta di un paese in Calabria, in provincia di Crotone) non è commentabile, nel senso che è così semplice (dimessa, informale e senza forma) da “non sussìstere”. Quello che ha attratto la nostra attenzione sono i nomi (tre) che appaiono nel packaging sia pure in modo disorganico. In alto in verde leggiamo “Caraconessa” (verrebbe da leggere Cara Contessa, ma non è, quindi non si tratta di un errore): è il nome del luogo dove ha origine e sede l’azienda vitivinicola in questione. Poi al centro leggiamo “Melissa” con un carattere molto graziato: verrebbe da capire che quello potrebbe essere il nome del vino, facendo riferimento, oltre che a un luogo (poco conosciuto) anche a una pianta e a un nome di donna. La Doc Melissa infatti è davvero sconosciuta, ecco perché, presentato così, si potrebbe generare un malinteso. Infine in basso vediamo il cognome (nonché il marchio) della famiglia titolare: Fezzigna. Le molte consonanti non producono una fonetica agile, ma tant’é che il cognome è questo. Come logo vediamo una “F” con incastonata una rosa. Il tutto risulta poco incisivo. Per riassumere: abbiamo due nomi strani (che non suonano bene, quindi poco memorabili) Caraconessa e Fezzigna e un nome suadente, Melissa, che però è il nome della Doc e non quello del vino. Insomma l’etichette rischia di “scivolare via” senza tanti complimenti.

Convivialità Porta Qualità (e Viceversa)

Barbaresco (Rabaja), Bera Vini.

L’etichetta non è delle migliori. Piuttosto datata come stile e anche come impaginazione grafica non se la cava benissimo (i testi sono centrati, meglio dire ammassati, e sono troppi). Ma quell’immagine nella parte superiore, che raffigura tre uomini, merita comunque un approfondimento. Tre uomini che parlano, discutono, probabilmente davanti a qualche buon bicchiere di vino. I colori e l’abbigliamento richiamano il periodo medievale, l’atteggiamento evoca un appuntamento conviviale, sereno, allegro. La parte rassicurante del vino, non quella molesta di un consumo eccessivo, emerge con evidenza. Il vino è “stare insieme”, confrontarsi e dialogare. Questo atteggiamento trasmette sensazioni di benessere, e automaticamente di affidabilità, di qualità, di cose fatte per bene. C’entra la tradizione, certo. Che in Piemonte è più radicata, o semplicemente più considerata, rispetto ad altre regioni d’Italia. E la tradizione, quando non esasperata, bensì accompagnata anche da risvolti evolutivi, ha un gran peso nella percezione e nella fruizione del vino in Italia. Un uso equilibrato di tradizione e innovazione sarebbe auspicabile per ogni azienda vinicola.

Una Corteccia Carioca per una Ricetta Piemontese (in Oltrepò)

Il Chinaldo, Pinot Nero aromatizzato, Finigeto.

Questa bottiglia “arlecchino” contiene un vino aromatizzato. Un “chinato” per la precisione, ricetta piemontese che varia di famiglia di famiglia e di storia in storia (anche se qui di Piemonte non se ne vede, perché siamo a Montalto Pavese). Il vino comunque si compone di spezie e vino rosso. In questo caso Pinot Nero. La corteccia di china è da sempre un elemento primario dei vini “chinati”. Da qui anche il nome di questo vino: “il Chinaldo”, generato da un gioco di parole col nome del titolare dell’azienda, tale Aldo Dallavalle. Ma torniamo alla variopinta etichetta. L’articolato reticolo di macchie di colore attira l’occhio, sia pure non avendo riferimenti grafici di concetto. Diciamo che sono i colori, come spesso accade anche in natura, che sollecitano retina e curiosità. Questa trama però va a discapito della leggibilità delle parole in essa inserite. Il nome del vino si salva, nel senso che solo “il”, l’articolo che precede “Chinaldo”, si perde un po’. Mentre per il nome dell’azienda, in alto, “Finigeto” e la sua F stilizzata, i problemi di percezione sono evidenti. Forse tutti quei tasselli colorati rappresentano le innumerevoli spezie-ingredienti di questo vino aromatizzato, ma ciò non basta a giustificare un equilibrio grafico non studiato ad arte. Ci scusiamo per la scarsa qualità dell’immagine, ma in rete non si trova di meglio. E nell’epoca delle fotocamere, anche negli smartphone,  da 12 megapixel, risulta quasi incredibile (cioè: non ci vorrebbe molto per le aziende, nel loro interesse, scattare foto di migliore qualità).


Idee Nuove in Terre Lariane

Lupone, Merlot e Cabernet,
Azienda Agricola Runch.

L’etichetta del “Lupone” non è male. Anzi, possiamo dire che si fa notare per originalità e anche coraggio, visto che ci troviamo nell’entroterra brianzolo, a Montevecchia, e che l’azienda che l’ha creata è una piccola realtà poco conosciuta. Ma vediamo dove sono i pregi di questo packaging. In primo luogo pochi, ma impattanti, elementi: la stilizzazione, essenziale, artistica, contemporanea di un pastore tedesco (molto probabilmente la mascotte dell’azienda vitivinicola in questione), il colpo d’occhio del cuore rosso del cane (potrebbe disturbare, risulta “violento”, ma certamente colpisce), quindi il nome del vino scritto in corsivo, in rosso, non immediatamente leggibile ma anch’esso dotato di uno stile particolare, infine il nome del produttore alla base e subito sotto la località. Tre elementi in sostanza: l’illustrazione, il nome del vino, l’azienda. Da notare che il nome del vino è stato stampato con un inchiostro speciale, smaltato e in leggero rilievo. Per il resto... bianco a stacco. Certo si fa fatica a trovare un concept, se non, come già detto, un omaggio al cane di famiglia. Un’altra particolarità: nel sito internet il nome dell’azienda diventa “Runch”, creando un gioco di parole italiano-inglese, tratto dal cognome del titolare (Ronchi), e dalla località (Ronco Alto).

Vino d’Oliva, Strano ma Vero

Di Oliva, Riesling Renano, Defilippi.

Sono molte le particolarità di cui parlare, osservando questa etichetta. Cercheremo di essere brevi. Si tratta innanzitutto del vino di una cantina dell’Oltrepò, con sede a Oliva Gessi (poi torniamo su questo nome), tra Casteggio e Montalto Pavese. L’azienda produce vino dal 1907, di generazione in generazione. Oggi uno dei vini più rappresentativi di questo produttore è un insolito Riesling Renano (di solito su quelle colline vige il Riesling Italico). Veniamo all’etichetta vera e propria. In alto leggiamo, ben evidente, il nome del produttore (il cognome per l’esattezza): Defilippi (tutto attaccato e non De Filippi). Dalla parte opposta, in piccolo, alla base dell’etichetta, scopriamo che il titolare risulta essere Defilippi Fabbio (proprio così: con due “b”, mai visto prima). Sotto al cognome grande, Defilippi, ecco la scritta “i Gessi” a sua volta seguita da un motto latino: “Labor custos Pacis (dal 1907)”. Il significato più o meno è: “il lavoro è custode della pace”. Al centro dell’etichetta la foto di una brocca molto antica. Alla sua sinistra la spiegazione: “Brocca bronzea di epoca romana utilizzata per il vino e ritrovata a Oliva Gessi”. E veniamo quindi alla località dove ha sede l’azienda: Oliva (nome del “ligustro”, un arbusto ligure) e Gessi per i depositi gessosi sfruttati anticamente in quelle zone. Ultimo ma certo non meno importante, quello che dovrebbe apparire come nome del vino (anche se si trova defilato): “di Oliva”. Quasi come se ci trovassimo davanti a un Extravergine (i colori dell’etichetta confermerebbero). Troppi elementi tutti insieme? Eppure l’etichetta si fa notare e non dispiace. E per quanto riguarda il vino siamo di fronte a un prodotto di tutto rispetto.

Uno Storico e Stoico Bianco e Nero

Lolly, Chardonnay,
Podere Ruggeri Corsini.

Perché mettere la foto (storica) di famiglia su una etichetta di vino? Vediamo di ragionarci sopra. Questa scelta potrebbe rivelare la volontà di esprimere l’avvicendarsi delle generazioni alla guida di una cantina. Come valore, naturalmente. Cioè il fatto che tramandando il “buon fare” di padre in figlio (o figlia) la qualità e l’affidabilità di una azienda ricevono giovamento. Oppure si tratta di imprimere all’etichetta uno stile retrò per garantire una percezione classica, seria, tradizionale del prodotto e di chi lo fa. Non è da escludere un guizzo d’orgoglio da parte di un membro della famiglia, per la composizione della stessa o per mostrare al mondo le creature. Certo che utilizzando il format bianco e nero come in questo caso, la memoria va subito alla Famiglia Addams del noto telefilm (in prima fila vediamo anche una inquietante bambola che avrebbe fatto la felicità di Stanley Kubrick). L’etichetta qui in analisi, oltre alla foto in bianco e nero per la quale abbiamo cercato di trovare ragioni, presenta un design semplice, dai toni cimiteriali (scritte in argento su nero), senza elementi di spicco se non il nome del vino (più che “di spicco” si tratta di un nome insolito e quindi curioso) “Lolly”. Probabilmente il diminutivo di Lorenzo, pargolo della famiglia, forse nemmeno molto contento di farsi chiamare così.

Frutti e Animali Lontani

18.5k, Pinot Nero, Giacomo Baraldo.

Davvero curioso il percorso mentale che ha portato Giacomo Baraldo, giovane viticoltore in Toscana, a generare questa etichetta. Partiamo dal fatto che oltre a produrre vino in Italia, Sangiovese e altro, Giacomo si dedica anche a una chicca neozelandese, il pinot noir che produce laggiù (crediamo per interposte persone). Questa etichetta si riferisce proprio a quel vino. Viene raffigurato l’animale simbolo della Nuova Zelanda, il Kiwi, che in questo caso non è il noto frutto peloso ma un gallinaceo piumato. Kiwi deriva dal greco e significa “privo di ali”, infatti l’animalino in questione non vola ma riesce a nuotare molto bene. Insomma ce n’è abbastanza per far parlare di sé. In aggiunta a questo, l’illustrazione ci mostra la sezione dell’uccello acquatico, costituita non dalle sue vere interiora, bensì a sua volta dalla sezione di un chicco d’uva. Le stranezze non finiscono qui: il nome del vino, ufficialmente 18.5k, sarebbe la distanza (18.500 km) dall’Italia alla Nuova Zelanda. Possiamo anche aggiungere, per concludere con le originalità di questo packaging, che la “O” del nome Giacomo Baraldo, in alto nell’etichetta, è una impronta digitale. E subito sotto la scritta, in francese, “vigneron”. Di questa etichetta si potrebbe scrivere un romanzo.

Troppo TOP, Troppo POP

T.O.P. Zero, Spumante MC Pinot Nero, Giorgi.

Questo prestigioso (per il fatto che sta 80 mesi sui lieviti) spumante Metodo Classico si presenta con un misterioso nome. Molto semplice se si osserva in modo superficiale: si legge “Top Zero” e si intuisce che si deve trattare di un dosaggio zero. Ma analizzando meglio l’etichetta (non ci vuole molto: si tratta di un packaging che comunica in modo elementare) si scopre che la prima parola del nome del vino è punteggiata, T.O.P., inoltre quel cerchietto rosso tra le due parole potrebbe anche indurre a leggere “topo zero”, una specie di Topo Gigio matematico. Ma pur tentando di ignorare il grosso punto rosso, ci siamo subito chiesti cosa potrebbe significare l’acronimo T.O.P. e le possibilità sono infinite: Tiraggio Oltre Pressione? Troppo Ossigeno Presente? Tipico Ordito Pleonastico? A parte gli scherzi, non abbiamo trovato una plausibile spiegazione nemmeno nel sito del produttore. E comunque vale sempre l’immediatezza, nella comunicazione via etichetta. Chi si trova davanti a questa bottiglia, cosa potrebbe pensare? Come potrebbe leggerla? Come potrebbe reagire? Queste sono le domande di base che sempre bisognerebbe porsi prima di definire il design estetico di un vino.

Bellissimo, “Brutissimo”, Rosatissimo

Brutissimo, Spumante Rosato, Cà  Salina.

E’ concepibile chiamare un vino “Brutissimo”? A Valdobbiadene l’hanno fatto. Accade nella patria universale del Prosecco (Glera) dove ci si diletta anche nel produrre altre tipologie di vino, giusto per arricchire la gamma e rispondere in modo più completo alla “domanda” di bollicine. Certo, si capisce bene che il nome di questo vino, un rosato da Incrocio Manzoni 13.0.25, deriva dalla terminologia “Brut” (in questo caso ottenuto con Metodo Charmat), ma quello che si percepisce non è “un brut ancora più brut” in senso organolettico, bensì un “bruttissimo”, in senso estetico, come se il nome avesse una doppia “t”. In realtà la bottiglia non è brutta nel suo insieme, grazie anche al bellissimo colore del vino. L’etichetta non si distingue per particolare eleganza ma diciamo che ottiene la sufficienza. In particolare nel design emerge il nome dell’azienda, Ca’ Salina e, più in piccolo, il motto annesso e connesso: “gaudium hospitis”, che sarebbe “la gioia dell’ospite”. L’azienda infatti fa vanto di uno stile e una modalità di accoglienza che privilegia gioviali degustazioni accompagnate da prodotti agroalimentari locali. Il “Brutissimo” e i suoi fratelli (varie versioni di Prosecco) potrebbero, in convivialità, generare bellissime emozioni. Ma rimane la perplessità sul nome del vino. N.B.: il vitigno Incrocio Manzoni 13.0.25 nasce da Raboso Piave e Moscato d’Amburgo.