Il Mulo delle Ferriere sulla Costiera Amalfitana

Rudus, Falanghina, Casa Esposito.

Una piccola azienda vitivinicola campana, con sede a Scala (il borgo più antico della Costiera Amalfitana, posto a 450mt. s.l.m.) con questa originale etichetta rende omaggio al mezzo di trasporto per eccellenza di quelle scoscese coste: il mulo. Lo era almeno fino a qualche decennio orsono quando il nonno degli attuali titolari coltivava uva e produceva vino in quei luoghi, come da tradizione. Il nome di questa Falanghina, “Rudus”, viene dal latino e sta per “rudere”, infatti si riferisce ai Ruderi delle Ferriere che si trovano in una valle profonda che si insinua nel territorio di Amalfi. È una zona con molti percorsi difficoltosi dove il mulo è sempre stato il migliore mezzo di trasporto. A conferma dell’0rigine toponomastica di questo nome, nell’etichetta che abbiamo trovato in rete si possono leggere, sotto a “Rudus”, altre due parole: “delle ferriere”. Il packaging a nostro parere si fa notare soprattutto per il simpatico animale da trasporto, evidenziato con una illustrazione molto cromatica, con toni tendenti al carminio. L’opera pittorica è dovuta a Mary Cinque, artista che vive e lavora in Costiera Amalfitana lasciandosi ispirare dalla vivacità di quei luoghi. Nel complesso si tratta di una etichetta ben riuscita e dal punto di vista stilistico da considerarsi moderna. In un mondo rurale ancora abbastanza incontaminato, rappresenta una coraggiosa presa di posizione.

Un Salamino non Troppo Scuro

Puro!, Lambrusco Salamino, Vitivinicola Fangareggi.

L’etichetta di questo Lambrusco è di quelle “scherzose”, ovvero fantasiose. Cioè non si curano troppo di trasmettere tradizione o classicità, bensì puntano sulla simpatia. Lo stile è fumettoso-pittorico e in prima battuta vediamo tre bottiglie che versano vino sulle colline. Anzi (e qui c’è un’idea), inondano le colline come se le stessero conformando e colorando. Sullo sfondo un grande sole bianco. Due particolari: il colore del vino versato dalle tre bottiglie è di gradazioni diverse di rosso proprio come le principali tipologie di Lambrusco; alcuni infatti sono molto scuri, altri addirittura rosati. In questo caso si tratta di una via di mezzo: il Lambrusco Salamino di Santa Croce, infatti, dona un vino non troppo scuro (lo troviamo scritto anche sulla bottiglia, nella parte bassa dell’etichetta, in dialetto, “Lambròsc mia trop scur”). Un’altra particolarità di questa illustrazione artistica la troviamo in alto a destra: le sagome di alcuni cipressi (o almeno quello sembrano). Strano, perché siamo in Emilia, a Correggio e non in Toscana nei pressi di Siena. E infine il nome del vino: “Puro!”, proprio così, con il punto esclamativo. Una sentenza che va dritta alla questione della genuinità, o almeno ci prova a convincere di tale mozione il potenziale pubblico acquirente.

La Ricerca dell’Equilibrio, nella Vita, nella Vite, nel Vino

Serché, Barbera, 
Cantina Produttori del Monferrato.

A una prima occhiata si potrebbe leggere “perché” invece di “Serché”, che è il vero nome di questo vino. Il cervello per abitudine cerca subito un significato tra quelli di cui dispone. Infatti il nome di questa Barbera del Monferrato viene dal dialetto locale, che se non si è nativi di lì, non si può conoscere. Questa cantina cooperativa piemontese ha dunque trovato e comunicato un concetto interessante: “Serché” significa “cercare”. E sul fronte stesso dell’etichetta viene spiegato che la ricerca ha riguardato il voler trovare un equilibrio tra vino e territorio. Tra prodotto e storia del luogo. Il concetto è pregnante perchè tiene conto dei due elementi essenziali di una bottiglia di vino. Il contenuto, naturalmente, e le sue origini, intese non solo come vite e vigna piantate in un certo luogo (terreno, collina, paese) ma anche tutto quello che ci sta dietro, come dicono i francesi, il “terroir”, come la tradizione, la storia, i racconti, le generazioni che si sono susseguite, i racconti degli anziani, la toponomastica, l’agronomia, la geologia dei luoghi e cosi via, si potrebbero aggiungere molte altre cose. Il patrimonio che il vino porta dentro di sé è ampio e variegato: è una somma liquida che ci dona sensazioni che partono da lontano e toccano l’anima.

Il Correttore del Testo è Stato Scorretto

Grillo, Cantine Simonetti.

Come può essere accaduto che in stampa non siano stati corretti ben due errori contenuti nel breve spazio, 7 righe, di un retro-etichetta? Siamo in un’epoca in cui, se dovesse essere latente l’opera dell’uomo, i correttori automatici dei programmi di scrittura fanno egregiamente il loro dovere. E quindi? Distrazione? Noncuranza? Inadeguatezza professionale? Forse tutto assieme. Sta di fatto che alla terza riga vediamo “sicilia” in minuscolo e alla quinta riga leggiamo “erbe selavatiche” (e in più manca una virgola dopo “pesce” nella settima riga). È così difficile sbagliare che anche il nostro correttore ci impedisce di scrivere “selavatiche”, se non forzando la battitura. Forse chi ha redatto questo testo lo ha fatto a mano. Forse lo stampatore non è dotato dei più recenti programmi di elaborazione del testo. Non lo sappiamo. Certo c’è da essere preoccupati per il testo sottostante in inglese… che ci siano errori anche lì? Per assurdo probabilmente no… visto che “Sicily” è scritto giustamente in maiuscolo. Allora sovviene un’altra ipotesi: questo vino siciliano in realtà viene prodotto e gestito dall’estero, da qualcuno che non è nativo italiano. Certo che non ci fa una bella figura (anyway, la bottiglia che abbiamo fotografato è regolarmente in commercio in Italia).

Schiaccia il Rospo e Bevi il Vino (Rosso)

Calcababio, Bonarda, Monsupello.

Il nome di questo vino rosso della nota casa vinicola Monsupello (oggi gestita dagli eredi di Carlo Boatti, il fondatore) merita qualche approfondimento. Siamo nell’Oltrepò Pavese dove il vino viene prima del pane. Insomma una zona dove da sempre si coltiva la vite e si produce il nettare degli Dei, in questo caso soprattutto per gli acquirenti milanesi. Questa Bonarda (Croatina il vitigno) si chiama “Calcababio”. E’ già difficile da pronunciare per chi non è avvezzo al dialetto locale, ed è difficile anche intercettarne il significato. Sembra, per altro, che nei pressi della sede aziendale e dei vigneti ci sia un paese che ora si chiama Lungavilla e che precedentemente si chiamava “Calcababbio” (con due “b”), nome topografico che si rifà al verbo “calcare” e al dialettale “babi” cioè rospo. Lo stemma comunale infatti ritrae ancora oggi un piede che schiaccia un rospo. In dialetto la forma dialettale completa è “calchér ‘l babij” e probabilmente si riferisce storicamente alle azioni di bonifica delle zone boschive selvatiche o paludose (particolarmente frequentate dai rospi) per renderle adatte alla coltivazione. Da qui il nome in questione, diciamo così, italianizzato per renderlo (relativamente) pronunciabile. Certo non è un nome facile da ricordare, ma se si racconta la sua origine tutto cambia. E il povero rospo ne va di mezzo, come in ogni fiaba simbolica.

Un Riesling Austriaco con Tutto il Cuore

Riesling, Höckner & Höckner.

Il logo di questa piccola azienda vinicola austriaca, situata nella graziosa Krems (sul Danubio blu, nella parte nord orientale dell’Austria), è la traccia di un elettrocardiogramma che precede l’effettivo nome del produttore. Sulle etichette della gamma dei loro vini, la traccia cardiaca diventa di volta in volta il nome stesso del vino. Nel caso del Riesling forma la parola che rappresenta e comunica il vitigno. C’è un’idea. Criticabile certo, da chi ad esempio non vuole entrare mentalmente in un àmbito medico/ospedaliero e da chi i problemi al cuore li ha veramente, fisicamente, e non solo, ad esempio, per romanticismo. Però il richiamo al cuore, al battito, riconduce alla passione, alla cura, a metterci il cuore anche nelle cose materiali. Il vino, tutto sommato, è una questione di tradizione, cultura, ma anche di impegno personale e di connessione con la natura, a tutti i livelli. E cosa c’è di meglio del cuore, inteso come muscolo primario, che mantiene in vita, per rappresentare una voglia di convivialità che il vino richiama e promuove? La grafica dell’etichetta è semplice, diretta. Vediamo subito la linea del cuore e quasi nient’altro. Una traccia mnemonica intensa, in grado di farsi notare e ricordare.

Preziosità Metalliche per Bollicine Asettiche

Rhodium, Trento Doc, Salizzoni.

Gli spumanti hanno sempre avuto una loro particolare collocazione, a tavola, nei calici e nel vissuto personale di ognuno. Proprio perché possono collocarsi anche al di fuori dal desco famigliare. Sono festa, evocazione, privilegio. Anche oggi che le aziende le stanno tentando tutte per decontestualizzarli. Ritualità o quotidianità, i packaging degli spumanti rimangono comunque celebrativi, preziosi, valorizzanti. E allo stesso modo agiscono i loro nomi. In questo caso l’azienda Salizzoni, con sede a Calliano, tra Rovereto e Trento, ha voluto raggiungere il massimo dei massimi: “Rhodium” infatti è il nome scientifico (in inglese) del Rodio, un metallo ancora più raro e prezioso dell’oro e del platino. Il nome deriva dal greco “ròdon” cioè “rosa”. Curiosa l’affinità semantica con rododendro (da “ròdon”, rosa e “dèndron”, albero, cioè l’arbusto delle rose). Il metallo in questione comunque non è rosa, è bianco/argenteo, per cui, vai a sapere. La grafica in etichetta risulta piuttosto asettica: è ordinata, sì, vagamente preziosa, ma anche senza guizzi creativi, se non il nome del vino come già commentato. Sul collo della bottiglia, avvolto, come di consueto per questa tipologia di prodotto, da una stagnola coprente, leggiamo il nome del produttore in verticale e la sigla “Rh” (il simbolo chimico del Rodio). Il logo aziendale è il solito stemma araldico di cui sono sempre dotate le cantine che vantano antiche origini.

P come Pecorino. Ed è Tutto.

Dezi P., Pecorino, Fattoria Dezi.

La famiglia proprietaria di questa piccola azienda della provincia di Fermo coltiva uve dal 1970, quando Romolo e Remo (gli avi marchigiani, non gli Antichi Romani) hanno piantato le prime vigne. Oggi Davide e Stefano portano avanti la tradizione con i vitigni del territorio. La bottiglia che mostriamo è infatti un Falerio Pecorino, da abbinare al pesce o ad altri piatti leggeri. Veniamo al nome del vino: “Dezi P.”. Un enigma molto semplice: dove Dezi è il cognome di famiglia, possiamo ben dire che “P.” è il nome del vino. Ma perché una lettera puntata? Che obiettivo di comunicazione può avere? Generare curiosità? Chissà. A noi risulta piuttosto riduttivo, per utilizzare un eufemismo. “P.” starà per Pecorino, il vitigno, facile a dirsi. Ma non basta a giustificare una scelta che risulta sterile a livello di percezione, di marchio, di qualità, di memorabilità e quant’altro. La grafica: molto essenziale con qualche particolare. Il puntino della “i” di Dezi è in realtà il marchio aziendale (due “R” speculari, Romolo e Remo, i fondatori, in rosso). La “P.” viene collocata su un tassello rigato che fa da sfondo. Cosa significa? Non riusciamo a trovare una risposta razionale. Diciamo che è semplicemente “decorativo”. Il resto è piatto, sfondo chiaro, le diciture di legge. Parafrasando una famosa canzone degli anni ‘70 potremmo dire “bella, senz’anima” (Riccardo Cocciante), ma forse nemmeno bella.

Un Vino per Tutti dove Tutti hanno Ragione

Valpolicella Ripasso, Bolla.

Antica casa vinicola oggi affiliata a un grande gruppo, Bolla si è sempre distinta per la qualità dei vini rossi, di quella Valpolicella patria indiscussa dell’Amarone. In questo caso stiamo mostrando e parlando del “Ripasso” frutto di una tecnica tradizionale che punta ad ottenere vini più corposi. Ma non è di enologia che vogliamo parlare, bensì del packaging. In questo caso Bolla decide di distinguersi, sia pure affrontando costi di confezionamento superiori alla media, avvolgendo le bottiglie in una preziosa carta rossa. A scaffale si nota subito: sia per il colore, sia per l’insolito aspetto. La carta, di spessore, pesante, materica, dà valore al prodotto. La grafica è anch’essa valorizzante, con particolari decorativi e l’uso dei inchiostro dorato. In particolare viene valorizzato il marchio, al centro dell’etichetta, molto ben visibile: si tratta di un nome storico, come già detto, riconosciuto e riconoscibile, insomma, di pregio. La sensazione all’acquisto, è quella di poter entrare in possesso di qualcosa di speciale, da portare in tavola, ad amici e parenti, con grande dignità, nonostante il costo molto contenuto. Siamo di fronte quindi a un packaging (e anche a un vino) che con espressione anglofona si potrebbe definire “value for money”. E quando il risultato è questo, si può davvero parlare di “win win”: vincono tutti, produttore e consumatore.

Baronie a Memoria di Bisnonno

Lisciandra, Catarratto, Baronia della Pietra.


Tanta storia, tanti popoli e di conseguenza tanti nomi in quella magica Sicilia che da millenni coltiva e produce i frutti tipici del mediterraneo: la vite e l’ulivo. Si tratta di una piccola azienda vinicola che vanta origini dal 1860. Un breve racconto, nel sito internet del produttore fa capire quante vicende si sono incrociate su quelle terre: “Il nostro bisnonno Domenico ha piantato gli ulivi. Sono passate molte stagioni da allora. Oggi siamo noi a occuparci di queste piante di ulivo e della vigna. La contrada si chiama Chinesi, un tempo abitata dai Sicani, coltivata dagli arabi, poi appartenuta alla Chiesa di Agrigento su concessione dei Normanni, infine acquistata per 800 scudi dalla nobile famiglia dei Barresi, di origine Normanna. Recenti studi farebbero risalire il nome del feudo Chinesi a una antica chiesa Bizantina della quale ormai si sono perse le tracce…”. E’ l’emozionante racconto dei fratelli Enzo e Salvatore Barbiera, che in località Alessandria della Rocca portano avanti ancora oggi l’attività di famiglia. Il nome di questo vino, un catarratto in purezza, nasce proprio dalla forma dialettale di “Alessandria”, cioè “Lisciandra”. In dialetto, Alessandria della Rocca viene detta “Lisciànnira di la Rocca” ed è chiaro il meccanismo con il quale la lingua (fisica e parlata) scivola sulle lettere che compongono il nome rendendo il tutto molto più morbido, lascivo, suadente, in perfetta assonanza con lo stile di vita di questa meravigliosa regione. In etichetta, su una texture con i temi grafici tipici dell’isola, vediamo due seriosi avi, ben abbigliati, che fanno da testimoni storici e culturali dell’impresa. Il logo e simbolo dell’azienda è una farfalla che vediamo alla base del packaging. 

Un Regno Viola Abitato dalla Dea Bendata

Purple Reign, Semillon e Sauvignon, Masstengo.

Si tratta, come si può sorprendentemente vedere, di un vino di colore viola. La base produttiva sono due vitigni bianchi ben noti agli appassionati di enogastronomia, ai quali vengono aggiunti dei “botanicals”, cioè delle erbe, che hanno il duplice compito di colorare il vino in questa tonalità insolita e di sostituire i solfiti per una ottimale conservazione del prodotto. Non è dato a sapere di quali erbe si tratta, ma visto tutto il discorso sulla naturalità (cioè sull’assenza di chimica nociva) fatto dal produttore, si ipotizza che il colore non sia generato da sostanze artificiali. Certo che la sensazione di avere un vino viola nel calice deve risultare, almeno di primo impatto, molto strana. Il nome del vino logicamente spinge sul concetto legato al colore: “Purple Reign” con un gioco di parole che pesca nel vissuto e nel conosciuto musicale di tutto il mondo per la celebre canzone del “Genio di Minneapolis”, Prince, dal titolo “Purple Rain”. In inglese infatti, le parole reign (regno) e rain (pioggia) hanno la medesima pronuncia, tanto che vocalmente risultano quasi indistinguibili. L’etichetta, come visual, si presenta in modo originale: un specie di Dea della Giustizia (o della Fortuna, eterna o fuggente che sia) semibendata e immersa in una vegetazione lussureggiante, ammicca sibillina agli osservatori. Non sappiamo se questo vino avrà un futuro (in Italia probabilmente no), certo che la sua unicità può colpire l’occhio prima ancora di quanto possa riuscire a fare il gusto.

Giochi di Parole per Vini Esuberanti

MaDDam, Brut (Sekt), Doppeldes D - Das Weinduo.

Questa etichetta di forte impatto cromatico, dove il rosso detta legge, veste un vino spumante prodotto da due giovani vignaiole tedesche della Mosella. Il packaging in sé non è nulla di strepitoso, a parte il fatto che si fa certamente notare, con una certa prepotenza, soprattutto su uno scaffale eventualmente abitato da etichette sobrie e classicheggianti. I nomi dell’azienda e del vino, offrono invece qualche spunto interessante. Al centro dell’etichetta vediamo uno strano logo bianco formato da due “D” incrociate ed inclinate. L’azienda infatti si chiama “Doppeldes D”, doppia “D”. L’origine viene ricondotta al fatto che le due titolari vengono soprannominate dagli amici Duchesse e Diva (anagraficamente si chiamano Madeleine Ries e Lia Backendorf). Le due “D” maiuscole appaiono anche nel nome del vino, questa volta speculari (cioè una delle due è girata), a creare “maDDam” un gioco di parole che sfrutta il termine “madam” alludendo all’inglese “mad”, pazzo. Quindi potrebbe essere la Dama Matta in italiano (oppure il corrispondente nome “Damatta”, tanto per giocare un po’ con le parole). Sopra e sotto al nome, nella fascia nera, con parole più piccole, ci viene confermato che Madeleine è la Duchesse e Lia è la Diva. Insomma si tratta di un modo giocoso di fare branding. Nel mondo del vino “moderno” è ammesso anche questo.

La Malvasia ha Preso una Cattiva Strada

La Mala Via, Malvasia Istriana, Santa Colomba.

Questa bottiglia di vino biologico prodotto dall’azienda Santa Colomba di Lonigo, in provincia di Vicenza, si chiama in un modo che potremmo definire negativo. Infatti “La Mala Via” indica molto spesso dei percorsi topografici relativi a strade intricate, piene di curve o che si inerpicano in zone a picco sul mare o su strapiombi in montagna. Ma anche, nella cultura popolare, il fatto di prendere una “cattiva strada”, per le proprie abitudini o per il proprio percorso personale di vita. L’illustrazione in etichetta ad opera dell’artista Mauro Gambin, conferma l’intenzione di attribuire al nome di questo vino il significato di “strada tortuosa”. L’illustrazione è semplice, ad acquarello, fors’anche con la tecnica del carboncino. Si vede una strada, circondata da colli presumibilmente vitati, e sulla sommità lo spartiacque risulta colorato di rosso, per metterlo in evidenza. I toni sono abbastanza cupi e meditabondi. Alla base del packaging leggiamo il nome dell’azienda, molto semplice, senza logo. Ci giunge il sospetto, in salvataggio rispetto alla visione negativa dell’insieme, che “La Mala Via”, sia stata scelta anche per assonanza con la Malvasia, vitigno che al 100% compone questo vino. In ogni caso, speriamo tutto bene.

Insolita Etichetta per Insolita Linea di Vini

Orchestra, Blend di Bianchi, 
Abbazia di Novacella.

Questo vino viene collocato all’interno della linea “Insolitus” di una storica cantina altoatesina. Ogni anno l’Abbazia di Novacella aggiunge nuovi prodotti a questa serie, catalogabile come sperimentale, cioè con una produzione limitata. Si tratta qui di un ricco blend di bianchi come Sylvaner, Pinot Grigio, Kerner, Riesling e Gewürztraminer. Tutti insieme appassionatamente. Il nome rispecchia il concept: “Orchestra”, una sinfonia di uve che riesce a mettere in scena, sulla tavola, un concerto di sensazioni. L’etichetta, che potrebbe a un primo esame sembrare semplice, è basata su un fondo bianco, dove scopriamo a poco a poco, osservando bene, alcuni particolari. Innanzitutto al centro vediamo una grande “O” (insomma, un cerchio); sotto leggiamo il nome del vino; in alto a destra il nome della linea, “insolitus”, in corsivo grigio, poco leggibile; a sinistra lo stemma della cantina con la scritta in latino “vivat crescat floreat” cioè “possa vivere, crescere e prosperare”; in basso a destra, sempre in corsivo, la precisazione “Uvaggio Bianco” e nella parte bassa del packaging un’onda con un puntino, forse la sporcatura di un bicchiere, forse la rappresentazione di una valle, chi lo capisce è bravo. In sostanza si tratta di un’etichetta un po’ dispersiva e anche enigmatica. Il vino sicuramente se la caverà meglio.

Hashtag “Vendere” come Mantra Assoluto

#Rosé, Vino Rosato, Provinco Italia.

Questo vino, uno dei tanti proposti al mercato, soprattutto internazionale, da un grosso distributore che fa capo a Italian Wine Brands, è di fatto un rosato. Non è dato a sapere con quali vitigni viene prodotto. Diciamo che è un “blend” e la chiudiamo qui. L’etichetta è di forte impatto: un enorme “#ashtag” campeggia al centro dello spazio disponibile. Di fianco ad esso viene aggiunto “Rosé”. La trama che fa da sfondo, che da lontano potrebbe sembrare una texture grigia, è formata in realtà da moltissimi altri hashtag inerenti al mondo del vino. Vi troviamo #whitewine, #redwine, #winetime, #iwine, e cosi via con una serie di parole tra le quali alcune fuori luogo, come #winedown o anche #drunk (ubriaco). L’etichetta è del tipo totalmente trasparente, si tratta cioè di una pellicola che al di là delle parole in superficie lascia intravvedere il contenuto della bottiglia, ovvero il colore del vino. Possiamo annoverarla tra le etichette strane, sicuramente creative, fuori dagli schemi, di quelle che sullo scaffale lo sguardo non può evitare. E forse è proprio questo l’intento, dietro ad una pianificazione di marketing assolutamente commerciale.

Piemontesità Ossigenante tra i Rovi

Ruvaj, Nebbiolo, Pedemontis.

Il nome di questa azienda, innanzitutto, ha come claim di accompagnamento “Il respiro profondo del Piemonte”. Facile da interpretare, “Pedemontis” è la dizione in latino medievale che significa chiaramente “ai piedi dei monti”. La profonda identità territoriale si rispecchia anche nel nome del vino, un classico Nebbiolo d’Alba: “Ruvaj”, che a detta del produttore “…indica il rovo, presente nelle aree boschive dell’azienda”. Dopo il latino antico, siamo dunque alle forme dialettali. Per affermare fortemente la provenienza dei prodotti ci può stare. Considerando pur sempre la difficoltà di lettura, di percezione e di memorizzazione di chi piemontese non è (i nomi degli altri vini in gamma sono… Arajs, Bajet, Gajet e un insolito Betlem, una Barbera). Per quanto riguarda la grafica dell’etichetta vediamo una struttura molto semplice, su carta goffrata avorio, dove troviamo scritte in verde scuro e nero, elementi molto ordinati, con l’unica concessione alla creatività fornita dall’illustrazione di una foglia, sulla destra, probabilmente riferita al tipo di rovo evocato nel nome del vino (in basso a destra, in piccolo, si scorge il nome di tale arbusto in latino). Soprassediamo sul logo aziendale (in alto a sinistra) e su quella stranissima “O” di Pedemontis (velleità ecologiche espresse da una foglia e dal simbolo chimico dell’ossigeno).

Follie Animalesche in Provincia di Brescia

Zeno, Brut Nature, Cà dei Pazzi.

Il claim di questa azienda che riunisce alcuni viticoltori della Franciacorta è “Pillole di enofollia” e infatti le etichette di tutta la gamma trasmettono come minimo euforia. Certo, l’ambientazione generale è da safari: ci sono una pantera, una giraffa, un leone, una zebra, un rinoceronte, un elefante. Rispettivamente: Brera, Raffa, Theo, Zeno, Rhino, Ele. Tutti vini spumanti, di varie tipologie. Di fatto “l’animalier” non passa mai di moda. Diciamo che vedere questa tendenza immortale applicata a delle etichette di vino italiano fa un certo effetto. I packaging sono ben illustrati, dotati di fantasia, colorati. Ad esempio la zebra che qui riportiamo indossa un cappello (circondato da farfalle svolazzanti), delle bretelle e suona una chitarrina. Si tratta di una zebra che presenta alcune fattezze umane, chiaramente. La nostra opinione è che il prodotto (questo Brut Nature, come tutti gli altri della gamma, rappresentati dagli animali citati sopra) perde in credibilità e serietà, guadagnando però in giocosità, giovanilità, festa. Tutto sommato le bollicine, sdoganate dagli eventi celebrativi saltuari, hanno conquistato terreno negli aperitivi (quelli che durano tutta la serata). “Si nasce tutti pazzi, alcuni lo restano.” (Samuel Backett, citato da questa azienda nel proprio sito internet). Amen.


Volubilità non sia Peggioramento ma… Vento.

Volubile, Nebbiolo, Bricco Carlina.

Il significato di questa parola, “volubile”, nome di questo vino, non è del tutto positivo. Quanto meno nella percezione della lingua parlata. Vediamo cosa dice Treccani: “…che cambia, che può cambiare da un momento all’altro…riferito a persone: incostante, mutevole, soprattutto negli affetti e nelle decisioni”. Ma giunge in salvataggio anche un’altra interpretazione, più tecnica: “ In botanica, di pianta o di organo che si avvolge attorno a un sostegno (che può essere anche un’altra pianta), come fanno, per esempio il fusto del fagiolo e i viticci della vite”. Ed ecco che siamo costretti a fare delle distinzioni: quello che una parola può significare nel “luogo comune” e quello che può emergere dal lessico acculturato. La sensazione è che leggendo questo nome sulla bottiglia, il primo significato qui esposto sia quello più immediato. In un certo modo la rappresentazione di volubile come “incostante e mutevole” viene rafforzata dall’immagine sull’etichetta: una illustrazione dove un bambino aziona e tenta di governare un aquilone. Gioco che, si sa, è completamente succube della volubilità del vento e dei suoi tornamenti. Speriamo quindi che il prodotto, il vino, non sia volubile in senso negativo: negli anni cambia, ma deve evolvere in meglio se vuole promettere e conservare un livello qualitativo elevato.

Tre Grazie Territoriali Slovene

BBK, Ribolla Gialla, Lis Neris.

Il nome di questo vino in realtà sono tre: Barbana, Biljana e Kozana. No, non si tratta di tre vestali moderne e nemmeno stiamo parlando di personaggi dei fumetti erotici anni ‘60. Sono tre località in territorio sloveno dove Lis Neris, il produttore di questa Ribolla Gialla, coltiva le uve necessarie alla produzione di questo bianco battagliero. In sintesi, a grandi lettere, su una particolare etichetta, leggiamo infatti “BBK”. Potrebbe anche far pensare a un “BBQ” come lo chiamano gli americani, ma trattandosi di vini bianco, con la carne c’entra poco: dubbio fugato. L’etichetta, si diceva, è particolare, perché tagliata in due, non solo cromaticamente (il nome del vino è “interrotto”) ma anche come cartotecnica, andando a creare due pezzi separati. Il nome di questo vino non si può evitare di notare, una volta in scaffale: le lettere sono cubitali, in giallo su fondo nero. L’impatto è forte, forse anche troppo. Ma l’impronta che si è voluta dare a questa bottiglia è quella di un vino dal consumo giovane (in tutti i sensi), per aperitivi o antipasti veloci, ma anche primi semplici e leggeri. Questa etichetta in sostanza non è il massimo dell’eleganza ma il suo ruolo lo gioca bene, con sfrontatezza da leader.

Suoli e Luoghi della Sicilia Verace

Suòlo 7, Cabernet Franc,
Duca di Salaparuta.

Il nome di questo vino siciliano, ad opera di una nota azienda dell’isola, richiama alcune considerazioni. Non si tratta, foneticamente, di una bella parola, suolo. Suona cupo e “chiuso”. Ma porta con sé un significato importante, legato alla terra, ai luoghi di elezione per le vigne. Il suolo, quindi, è al tempo stesso la superficie terrestre calpestabile e un posto geograficamente identificabile. Ecco perché in questo caso viene aggiunto un numero, “Suòlo 7”, per indicare in modo specifico la vigna di provenienza delle uve (Tentuta di Suor Marchesa a Riesi). Nella gamma del produttore in questione troviamo anche Suolo 5 (Zibibbo) e Suolo 3 (Sauvignon Blanc). L’etichetta ha anche altre peculiarità: l’illustrazione del tralcio in primo piano è ben realizzata, con uno stile impattante. I particolari in oro, con inchiostro in rilievo, donano preziosità, cura, eleganza, sia pure rimanendo in un “campo” decisamente rurale, sincero, naturale. L’impaginazione si completa con una “lancia”, un tassello a forma di freccia, con il nome dell’azienda, sulla sinistra, diventato un marchio distintivo anche su molte altre etichette della casa (qui in oro, a volte in rosso, o bianco, o nero, secondo le diverse vestizioni dei packaging). Il Duca ha lavorato bene.

La Coccinella ha Bevuto Troppo (o Forse è Già Morta)

Merlot, Cantina Bergamasca.

L’etichetta è sicuramente molto visibile sullo scaffale di vendita. Il colore rosso attira l’occhio, soprattutto se collocato su sfondi bianchi. La manualistica del packaging lo conferma in innumerevoli trattati. Ma qui siamo di fronte a un rosso “tragico”: la povera coccinella che sta al centro di questa etichetta a gambe in su, certamente non se la passa bene. Anzi abbiamo il sospetto che possa essere defunta (anche perché nonostante questa incauta iconografia il vino in questione non risulta essere biologico). Perché mettere una coccinella a gambe in aria sul fondo di un bicchiere? Perché farla morire così? Si scherza, naturalmente, ma la comunicazione e le percezioni che essa vuole e deve trasmettere sono una cosa seria. In questa etichetta tutto sommato di sintesi, con pochi e ben evidenti elementi (e questo, in generale, è da considerarsi positivo), sembra che tutto converga verso la tragedia (insistiamo, della coccinella morta): guardiamo ad esempio l’occhietto pallato della povera creatura. Ultima notazione: in basso a destra vediamo il simbolo (il logo) della cantina. Sembra un ragno. Ma almeno quello potrebbe essere vivo.

Vola la Fantasia, Leggera Come le Bollicine

Farfalla, Pinot Nero, Ballabio Winery.

Il nome di queste bollicine lombarde (siamo in provincia di Pavia) è molto fantasioso (nel senso che ricorda forme e colori variegati) ma nasce da qualcosa di concreto. Il vino si chiama “Farfalla” (in realtà si tratta di una gamma di 4 vini che comprendono un Extra Brut, uno Zero Dosage, un Rosé e un “Cave Privée”), il suo nome deriva dalla forma, dal profilo, delle due vigne dove viene coltivata l’uva necessaria alla sua produzione. Le due parcelle, dall’alto, assumono la forma di due ali di farfalla. Iconografico, sognante, ma con i “piedi per terra”, in quella terra d’Oltrepò che a tratti si dimostra perfetta per il Pinot Nero e per quelle caratteristiche indispensabili alla spumantizzazione. Farfalla e nulla più, se non il vezzo di una “f” in corsivo, più artistica rispetto alle altre lettere del nome. Sfondo nero, scritte in oro, pochi elementi proposti con grande eleganza. E quel nome che fa volare la fantasia e che si fa ricordare. Bella idea, curiosa, originale, identitaria, creativa. Vediamo come descrive il produttore questa scelta: “Il nome deriva da un vigneto così chiamato per la sua particolare forma che ricorda, nella visione catastale, le due ali di una farfalla… nella realtà le due porzioni di vigna adiacenti hanno forma vagamente triangolare e si collegano tra loro in un vertice comune per un breve tratto”. Complimenti e a questo punto, brindisi svolazzanti!

Etichette che Suonano Subito Bene

Cannonau, Tenute Sirinada.

Di questa cantina, in realtà una “emanazione” di Menicucci Vini, si è fatta “casa e bottega”, nel senso che il nome dato all’azienda diventa anche nome del vino (in un certo senso) nonché concetto visual. L’etichetta è ben realizzata, si vede subito, curata nei dettagli sia pure con uno stile asciutto e iconografico.  L’oro che si vede nel packaging è tecnicamente una chicca: lamina a caldo Luxoro Kurz Usa. A parte questa nota per addetti ai lavori, possiamo notare un jazzista con il sax a sancire il concetto di “serenata”, ma non quella improvvisata, strimpellata, bensì una musica colta, professionale, sia pure creativa, che denota impegno e serietà che si riflettono quindi nell’immagine di marca e di prodotto. Anche la cartotecnica non lascia spazio a incertezze: si tratta di un lavoro ben studiato e ben fatto. L’etichetta è di forma irregolare e si compone di due parti separate da uno spazio. Le forme sembrano quindi inseguire una musica che ci pare quasi di sentire, il sincopato del jazz, il piacere delle good vibrations. Tutto questo è “nelle corde” di un’etichetta, quando è progettata con cura e competenza.

Un Cinghiale Stellato sulla Costa Etrusca

Pervale, Blend di Rossi, Az. Agr. Urlari.

In prima battuta è interessante spiegare le origini del nome aziendale “Urlari”. Potrebbe sembrare un cognome e invece il titolare di questa vitivinicola toscana si chiama Roberto Cristoforetti. Il significato lo spiega egli stesso nella pagina dedicata alle presentazioni, nel sito web: “Si racconta che durante la Seconda Guerra Mondiale l’esercito  alleato si nascondeva nei boschi della zona, circondato dalle truppe di Mussolini…”. In sostanza, per evitare comunicazioni intercettabili via radio, gli alleati comunicavano tra loro urlando. Quel luogo, dove ora si trova l’azienda, veniva quindi detto “degli Urlari”. Tornando a questa originale e vistosa etichetta, vediamo che il vino si chiama “Pervale”, chiaramente un riferimento a una persona che si chiama Valentina, che nel dettaglio è la giovane figlia del titolare. Al centro, evidenziato da un tassello a sfondo rosso, vediamo l’illustrazione di un cinghiale, amico e nemico di chi abita queste terre ed è abituato a convivere con questa pelosa specie. Amico perchè a volte finisce gustosamente nel piatto, nemico perché distrugge le vigne e si nutre dell’uva matura. Il cinghiale in questione è disegnato in modo molto particolare: sembra una divinità, o un personaggio dei tarocchi. Dietro la sagoma del cinghialotto vediamo raggi di luce solare e stellare, come ad illuminare il protagonista della scena. In generale si tratta di un’etichetta molto attenzionale che fa il proprio dovere (in termini di visibilità) per aumentare le vendite.

Canta un Gallo Sgarrulo, sulle Colline Ungheresi

Kakas, Pinot Noir e Merlot, Vylyan.

Il produttore, ungherese, ha sede in Pannonia. L’etichetta è senza dubbio di quelle che attirano l’attenzione: lo stile fumettoso e cromaticamente intenso dell’immagine centrale (in linea con il colore del vino, un rosato) suscita subito simpatia. Si tratta di uno spelacchiato pennuto e infatti, in ungherese, “Kakas” (nome del vino) significa proprio gallo. Il racconto del produttore, che si trova tra le pagine del sito internet aziendale, narra che “Kakas”, è uno dei personaggi dell'antica leggenda di Villány (località dove si trovano i vigneti) cioè il gallo salvifico che, sgarrulo, annuncia che il sole è ormai sorto. Il packaging risulta molto accattivante, gli elementi si stagliano su un fondo bianco, i colori dell’illustrazione sono molto vistosi, così come il nome del vino, in rosso. Il nome del produttore, invece, in alto nell’etichetta, viene proposto in nero con un carattere di scrittura antico, arcaico, amanuense, tale da compromettere l’esatta lettura del nome stesso. La presenza di ben due “y” complica le cose, soprattutto per chi non è aduso alla complicatissima lingua ungherese. Nel complesso una bella operazione di packaging che porta notorietà ed empatia.

Un Riesling Italico “Tipico” del Lago Balaton

Badacsonyi Olaszrizling, Szaszi Birtok.

A parte l’estrema difficoltà (in lettura e in pronuncia) delle parole in ungherese, siamo di fronte a una curiosità che potrebbe sorprendere: il vitigno che è all’origine di questo vino è il Riesling Italico (Olaszrizling in ungherese, mentre Badacsonyi è il nome della regione vinicola che si affaccia sul lago Balaton). Ebbene, il Riesling Italico in Italia non è molto rinomato e rispettato, mentre in Ungheria ne hanno fatto un tema di specificità. Vediamo un brano tradotto dal sito del produttore: “Una vera varietà mitteleuropea del bacino dei Carpazi, che ha molti sinonimi… (il Riesling Italico). La sua origine è avvolta nell'oscurità, ma è abbastanza certo che (in Ungheria) è impossibile immaginare un Riesling Italico lontano dal lago Balaton”. A parte questo la curiosità nasce anche dall’osservazione dell’etichetta: molto pittorica, al punto che la carta risulta in rilievo, come se fosse rimasta traccia delle pennellate di colore. L’effetto è proprio quello di un quadro, con al centro il nome del produttore. Molto bucolico, campestre, ma al tempo stesso artistico e valoriale. Davvero una soluzione originale. E il vino? I nostri emissari a Budapest, dove è stato trovato e degustato, dicono che è molto buono! Egészségére! (che dovrebbe essere un “prosit” in Ungherese)

Il Latte lo Berremo un Altro Giorno

No Milk Today, Savagnin, 
Les Bottes Rouges.

Abbiamo qui un’etichetta da premiare moralmente anche solo per il simpatico nome del vino: “No Milk Today”. Si tratta di un “orange wine” di un produttore francese, dello Jura. Il nome dell’azienda “Les Bottes Rouges” si rifà a un brano del gruppo francese “Les Wampas”. Tornando all’etichetta dobbiamo dire che graficamente sembra piuttosto improvvisata: una parte centrale con un quadrato formato da altri piccoli quadrati colorati (che impediscono la lettura lineare del nome), un bollo rosso in alto a sinistra col nome dell’azienda e del proprietario, scritte di legge in basso con la classica tipografia (carattere di scrittura) che simula la macchina da scrivere. Il tutto tenuto insieme in modo approssimativo. Ma è il nome del vino, come dicevamo, che assurge ad assoluto protagonista. La dicotomia tra il latte e il vino è nota a tutti e in tutto il mondo: il latte è salute, il vino è vizio (ma anche gioia e condivisione, logico). In questi termini l’affermazione “no milk today” ci porta simpaticamente in un clima di trasgressione che celebra il vino senza denigrare del tutto il latte e il suo “mondo”: ci saranno giorni anche per il latte, ma questo è dedicato al vino e a tutto quello che ne consegue.

Camillo Benso, Quello è il Senso

Cavuret, Metodo Classico (Nebbiolo),
Cascina Quarino.

Iniziamo in modo ironico col dire che la sede di questa azienda piemontese è Aramengo. Si tratta proprio del nome del paese, in provincia di Asti, dove vengono coltivate le uve e prodotti i vini, da cinque generazioni, dalla famiglia Fasoglio. Un’altra indubbia particolarità è dovuta al vitigno con il quale viene prodotto questo spumante (che vanta 36 mesi sui lieviti): il Nebbiolo. Esperimento che in Italia conta davvero pochi eguali. Eppure questo vino è nato (produzione limitata, per ora) ed è stato nominato… col soprannome di nonno Giulio: “Cavuret”. Cosa significa? Sembra proprio che il nonno in questione avesse un carattere combattivo e tenace simile al ben noto politico torinese Cavour (onore ai suoi meriti, anche vitivinicoli). L’etichetta si caratterizza per ben pochi particolari: il fondo tutto nero, le scritte in oro (il nome, Cavuret, in corsivo e obliquo), il logo della Cascina Quarino in alto (una “Q” che comporta anche una botte stilizzata e un accenno di grappolo). Non siamo abituati a questo tipo di vini, e nemmeno tanto spesso a questo tipo di etichette, soprattutto in un Piemonte tipicamente conservatore. Possiamo però dire che l’esperimento è riuscito: incuriosisce il nome, così come l’etichetta e anche il vino, che sfida la tradizione con leggiadria. Gli elementi da “portare in tavola” ci sono tutti. Un pezzo di storia anche. Il calice può essere elevato con orgoglio.

Un Pinot Nero Proiettato nell’Azzurro

Astropinot, Pinot Nero, Ca’ del Conte.

Paolo e Martina Macconi coltivano nella zona di Rivanazzano Terme, in provincia di Pavia, 16 ettari di vigne con prevalenza di Pinot Nero. La punta di diamante della loro produzione è questo straordinario “Astropinot”, che loro amano definire come “un Pinot stellare”. Frutto della raccolta selettiva di uve dalle migliori posizioni dell’azienda, viene lasciato macerare per 25 giorni. Il regime di produzione è biologico. Ma veniamo alla sorprendente etichetta che ci mostra una illustrazione con stile di fumetto dove un personaggio tra il buffo e l’avventuroso cavalca una bottiglia e a briglie sciolte si dirige, come se pilotasse un razzo spaziale, verso l’immensità del cosmo. Sotto alla bottiglia leggiamo il nome, integrato graficamente con la divertente illustrazione. Alla base dell’etichetta leggiamo il nome del produttore e la localizzazione. Si tratta di quel tipo di etichetta che vuole essere scanzonata, a rischio di sembrare poco seria. Attira l’attenzione, genera simpatia, favorisce l’acquisto. Per la fidelizzazione dei clienti, logicamente, il compito viene demandato alla qualità del vino, ma per tutto il resto la comunicazione di questa azienda verte principalmente sull’ironia e la fantasia. Tanto che gli altri vini della gamma si chiamano: “Opulus, il tutore delle vigne antiche” (Pinot Bianco e Chardonnay), “Nuvola Bianca, la purezza del bianco” (Pinot Bianco, Chardonnay e Riesling), “Fenice, il frutto muore rinascendo vino” (Chardonnay), “Magush, i mago del naturale” (Pinot Bianco e Chardonnay), “Noah, la sete dopo la tempesta” (Timorasso), “Asor, naturalmente rosa” (Pinot Nero), “Mousikè, parole, suoni, saperi e sapori dal mondo” (Riesling Italico).

Uno “Champagne” che Viene da Lontano

Tasmania e Marlborough, Metodo Classico, Mumm.

La nota casa produttrice di Champagne si lancia alla conquista di vigneti al di là del mare (diciamo pure dall’altra parte del mondo). I vitigni sono sempre quelli classici che vanno a performare  le bollicine francesi, ma in questo caso sono coltivati in Tasmania e Nuova Zelanda dove il Pinot Nero in particolare, cresce bene. Ma veniamo alle etichette: non si può evitare di notare le grandi lettere che caratterizzano questi due nuovi packaging. Sono le lettere di Mumm spezzate su due righe, MU e MM, stampate con inchiostro rilucente e in rilievo. La “U” di Mumm viene interrotta dallo stemma dell’azienda (la storica aquila coronata). In mezzo alle 4 “letterone” troviamo i nomi delle prestigiose zone vinicole di quei posti lontani e la precisazione della categoria di prodotto, Brut Prestige (che non significa molto, ma fornisce valore concettuale). Il collarino è particolarmente estetico: si tratta di due nastri che si sovrappongono con un effetto decorativo efficace di tipo celebrativo, nobiliare, festoso. Lo stile è nel complesso molto dinamico, attuale, potremmo dire anche giovane, cioè rivolto a un target di acquirenti che cerca nelle bollicine qualcosa di divertente oltre che tradizionale.

Passione e Passito: l’Effetto Psicologico delle Parole

L’Afrodisiaco, Passito Rosso (Oselèta), Buglioni.

Tra le stranezze vinicole d’Italia (chiamiamole eccellenze) possiamo annoverare anche qualche raro passito in rosso. Questo, che esula dal disciplinare di zona, quello del Recioto, è prodotto con uve Oselèta al 100% e si fa chiamare “l’Afrodisiaco”. L’etichetta è di quelle anonime, ordinate, “pulite”, ma fin troppo sobrie. Il nome invece ci fornisce l’occasione di esplorare l’area della trasgressione partendo da osservazioni etimologiche: letteralmente “sostanza che stimola l’eccitamento sessuale”, la parola ha origine da Afrodite, dea greca dell’amore (Venere per gli Antichi Romani). O anche, secondo un antico dizionario etimologico: “Attributo di sostanza che eccita la libidine amorosa, come la cantaridina o il fosforo”. Per la cronaca la cantaridina viene ricavata dalle elitre di un coleottero. Di certo, a parte l’effetto disinibitorio del vino, le caratteristiche afrodisiache vengono attribuite più che altro a cibo come ostriche, tartufi, peperoncino, cioccolato, zenzero… ma sono tutte fanfaluche. Diciamo piuttosto che l’idea stessa di bere o mangiare qualcosa che si presume possa essere afrodisiaco, crea una effetto psicologico. Forse è questa l’intenzione di questa azienda nel proporre un passito, dolce, suadente, galeotto, che si chiama “l’Afrodisiaco”, come fine pasto e “inizio” di un altro tipo di serata.

Uno Spumante Roccioso in Tutti i Sensi

Dolomis, Trento Doc (Chardonnay), Finrise.

L’utilizzo di carte, inchiostri e tecnologie speciali per le etichette dei vini sta diventando prassi comune. Complice anche la diminuzione dei costi di stampa (dispositivi digitali, minor apporto di ore-lavoro umano e più automatismi). Un sobrio ma elegante esempio lo abbiamo con la nuova etichetta di questo Trento Doc che intende valorizzare la sua provenienza “rocciosa”. Il nome del vino, “Dolomis”, richiama direttamente le Dolomiti (dal nome “Dolomia” della roccia tipica di quei pendii). In tal guisa, Wikipedia ci informa che: “La dolomia è una roccia sedimentaria carbonata costituita principalmente dal minerale dolomite, chimicamente un carbonato doppio di calcio e magnesio. Questa roccia prende il suo nome (come il minerale dolomite) dal naturalista e geologo francese Déodat Gratet de Dolomieu (1750–1801), il quale osservò tale roccia nei gruppi montuosi dei Monti Pallidi”. Insomma anche in questo caso abbiamo tra i piedi un francese. Aggiungiamo che alcuni Trento Doc nulla hanno da invidiare allo Champagne. Bollicine di montagna, come vuole fortemente affermare questo produttore con il pay-off “Plasmato dalla roccia”. Vediamo i particolari di questa etichetta: l’accento giusto (sulla seconda “o”) con il quale pronunciare il nome del vino viene indicato da un simbolo che somiglia a un picco della montagna. La scritta stessa del nome viene adombrata (tagliata dal basso) da un profilo montuoso. Nei tasselli che formano il design dell’etichetta ne vediamo alcuni stampati con un inchiostro ruvido, polveroso, roccioso. Il resto lo fa l’immaginazione, ben attivata da una comunicazione studiata nei dettagli e concettualmente strutturata.

Preziosità sui Generis, Concentrazione e Comunicazione

Aprimondo (Appassimento), Sangiovese/Primitivo/Nero d’Avola, Caviro.

La nota e colossale organizzazione enoproduttiva Caviro, con sede in Romagna ma ormai ramificata in tutto il mondo, ha creato la linea “Aprimondo”, tre vini da appassimento, da vitigni diversi, autoctoni italiani. Il nome è evocativo anche se non bellissimo (nel significato sì, nella fonetica meno). Si tratta di una trovata che si rivolge principalmente all’estero, sia pure “significando” in italiano. Una apertura verso il mondo che per l’azienda è soprattutto commerciale, concretamente. Ha però anche un suo percepito nel senso di “donare” al mondo (a pagamento, s’intende) vini prodotti con vitigni storici e tradizionali dello stivale, con una vaga intenzione didattica. Il vino, si può anche dire, apre dei mondi, che sono quelli della gastronomica, dell’accoglienza, della cultura locale, della convivialità. In questi casi accomunati della ricerca di concentrazione gustativa e olfattiva generata dall’’appassimento. Graficamente l’etichetta è ben curata, anche se l’illustrazione arzigogolata protagonista del packaging è un po’ stereotipata. Insomma se ne vedono molte con questo stile. La decorazione e la finezza del design genera preziosità, non c’è dubbio, e attribuisce al prodotto un surplus di valore percepito. Il marketing ha lavorato bene e, siamo sicuri, anche il plotone di enologi che segue le produzioni dei questa azienda leader della vitivinicoltura.

La Potenza Magnetica del Gufo

Gufo, Cabernet Sauvignon, Cantina Tollo.

Questa nota cantina abruzzese, ha creato una linea di vini che si chiama e si ispira al “Gufo”. Inequivocabilmente, nelle etichette (la linea è composta da vitigni vari) si vede a tutto campo il nobile rapace. Due immagini: quella superiore, in particolare, a testa in giù. Il packaging attira l’attenzione, inoltre la grafica è molto ben eseguita con dovizia anche di inchiostri speciali (luminescenti). Ma torniamo al gufo e alla sua percezione nel vissuto popolare. La prima nota curiosa è che tra le specie di gufi che vivono in Italia troviamo il Duca Cornuto (gufo comune) e il Bubo Bubo (gufo reale). Tra le definizioni di “gufo” che ci fornisce Treccani abbiamo: “Persona, abitualmente di umore tetro e cupo, che vive rintanata per poca socievolezza…” e anche “…fare l’uccello del malaugurio”. Il gufo però, di contraltare, è simpatico: molti disegni, sculture, portachiavi, ninnoli di varia natura, lo ritraggono. Per cui c’è anche qualcuno che ritiene che possa portare fortuna. Certo, incontrarne uno, di notte, in un bosco, potrebbe essere un’esperienza segnante. Come dicevamo l’etichetta in questione è dotata di originalità e sicuramente è in grado di imprimere un ricordo: saranno forse gli occhi del gufo?

Quando c’è un’Idea

El Truc (Ancestral), Xarel-lo,
Masia de la Roqua.

Le etichette dei vini così come la comunicazione (e la vita) in generale, vengono meglio quando ci sono le idee. E l’idea deve logicamente venire prima della realizzazione. Questo produttore catalano che opera a Olivella (Barcellona) ha deciso di chiamare una linea dei propri vini “el Truc”. Il catalano è una lingua diversa dallo spagnolo (e loro ci tengono molto) tanto da somigliare ancora più all’italiano. Si intuisce facilmente che “el Truc” significa “il trucco”. E il gioco viene svelato dall’immagine, al centro dell’etichetta, dove un vignaiolo regge un grappolo d’uva che per effetto della luce e dell’ombra da essa generata… diventa una bottiglia di vino. Una magia che l’uomo, complice la natura, compie da millenni. Ricordare con un gioco di parole e di immagini la trasformazione dell’uva in nettare degli Dei è una trovata semplice quanto geniale. Perché fa simpatia nell’immediato, ma il suo effetto non finisce nel lampo di un’idea: fa pensare, fa riflettere sulle molteplici componenti che, insieme, riescono a portare una bottiglia di vino sulla tavola e a farla condividere con gioia. La storia, la cultura, le modalità produttive, il meteo, le tradizioni, la maestria dell’uomo, le peculiarità della natura, il grappolo d’uva… tutto questo è dentro una bottiglia di vino. E in ogni calice.

Per Sempre e Mai, l’Infinito Adesso

Sempremai (Sorte), Abrostine (vitigno), Cuna (Federico Staderini).

Decisamente intrigante il nome di questo rosso toscano che nasce in provincia di Arezzo. Particolare anche il vino, da un antico vitigno etrusco praticamente sconosciuto. Ma vediamo cosa si legge in etichetta: in alto quello che si può ritenere il nome ufficiale di questo rosso, “Sempremai Sorte”. Laddove la sorte non è sinonimo di destino (o di fortuna, come si dice, buona sorte) bensì una accezione toscana per il verbo “uscire”, sortire. L’attenzione va innanzitutto sull’unione delle parole sempre e mai, a formare un Sempremai del quale si potrebbe parlare per ore, tanto filosoficamente intraprende vie infinite. Sempre e mai, nello stesso tempo, il vuoto cosmico, un pieno d’anima. Oppure un “mai” che succede sempre, e quindi afferma e nega se stesso allo stesso tempo. E’ un dedalo infinito che si rincorre e che annebbia la mente. Probabilmente lo stesso effetto di questo vino, forte, denso, scuro e inebriante. Sempremai Sorte significa, di fatto, che il “prodotto” esce, cioè si manifesta, cioè viene messo in commercio “sempremai”. Cioè attenti voi che lo desiderate perché se ne producono solo 3000 bottiglie e spariscono subito. Alla base del packaging ancora un enigma: “Sortirà” e il nome dell’azienda, Cuna. Sortirà, uscirà, chissà. Stranezze che attirano l’attenzione, per un vino sostanzialmente sperimentale e per pochi. E il disegno al centro dell’etichetta? Un acino umanizzato? La dea della vigna? Un disegno infantile? Per oggi (e per sempre) basta così.

Arianna e Bacco Filano a Meraviglia

T’ariì, Grechetto e Sauvignon, Tenuta Placidi.

Questa variopinta etichetta a cura di una intraprendente azienda vitivinicola umbra, ci fornisce la splendida occasione di citare ancora una volta, dal poema di Lorenzo il Magnifico “Canzona di Bacco”, queste belle ed eterne parole: “Quant'è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c'è certezza. Quest'è Bacco ed Arianna, belli, e l'un dell'altro ardenti: perché ’l tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti”. Il nome del vino è particolare: “T’ariì”, dal nome di Arianna che è anche quello della titolare dell’azienda nonché la protagonista dell’etichetta, reinterpretata e illustrata dall’artista Matilde Bevilacqua (che beve anche vino, ci mancherebbe!). La storia di Arianna (quella reale e vignaiola) inizia quando a 24 anni decide di rilevare le terre del nonno e di laurearsi in Enologia e Viticoltura alla facoltà di Agraria dell’università di Perugia. Oggi, a Fianello, piccolo borgo in provincia di Rieti, Arianna coltiva in regime biologico Grechetto, Malvasia, Sagrantino, Sangiovese e anche gli internazionali Chardonnay, Sauvignon e Merlot. Per quanto riguarda l’Arianna della mitologia, la storia è più intricata e riguarda il labirinto del Minotauro, il prode Teseo e il celeberrimo filo. Per farla breve, metafora della vita, l’eroe e salvatore della fanciulla non corrisponde il suo amore e la lascia al proprio destino. Ma l’arrivo del vagabondo e avventuroso Bacco sulla medesima isola dove era approdata Arianna, conclude la storia con un fidanzamento amoroso (insomma, brindarono tutti felici e contenti). Tornando al vino vero e al packaging design possiamo dire che la scelta stilistica di Arianna Placidi per questa nuova etichetta è andata sicuramente controcorrente, rispetto a una certa classicità che “vige” nel centro Italia. A nostro modesto parere ha fatto bene e i risultati saranno incoraggianti.

Si Alzano In Volo Oniriche Effusioni

Levitate, Negroamaro (Frizzante!), Cantina Fiorentino.

Si tratta di un prodotto per l’estero, a quanto sembra. Infatti il nome sembra proprio essere in inglese: “Levitate”, cioè levitare, fluttuare nello spazio. Sappiamo però che la parola in questione viene anche utilizzata nella sapiente lingua latina che ha preceduto e dato origine a molte lingue europee. Ad esempio: “Nos tamen hoc esse iudicium eorum censemus, qui levitate magis quam veritate ducuntur” (più o meno: “Questo, a nostro avviso, è un giudizio nato da leggerezza e non da verità”). Inglese o latino? Diciamo che si può recepire in entrambi i casi, salvo che il carattere di scrittura non garantisce una leggibilità immediata (a causa principalmente della “L” iniziale, e se quello che si legge dovesse essere “evitate” allora sarebbe un problema). Passiamo all’analisi della parte illustrata. Un paio di palloncini e un altro paio di mongolfiere a forma di cappello da cuoco, volano via nello spazio dell’etichetta con stupefacente leggerezza. Sarà che il vino è “mosso” e quindi che vuole dare, con le proprie bolle, un’impressione di leggiadra allegoria. Inutile negare che il packaging è di quelli enigmatici, da sogno lucido felliniano. Non manca l’eleganza nell’impaginazione, forse c’è un eccesso di profusioni oniriche. Qualche stranezza ci può stare, a partire dal prodotto stesso: il Negroamaro frizzante è un vino per pochi.