Che Caratteraccio!

Giorgio Grai, Pinot Nero.

La vita è già abbastanza complicata, dicono alcuni. Perché crearsi problemi? Eppure qualcuno ci prova, forse inconsapevolmente. Sembra essere proprio il caso di questa etichetta dove il nome del produttore (che funge anche da nome del vino) viene “reso pubblico” con una modalità di scrittura che lascia perplessi. Nel senso che a prima vista l’occhio deve cercare di interpretare un groviglio di lettere artisticamente modificate. Si tratta di una libera (e creativa, ci mancherebbe) interpretazione di un carattere di scrittura che a tutti gli effetti ostacola la lettura. Fortunatamente si è sentita la necessità di scrivere in chiaro, alla base del packaging, il nome in questione. Per la cronaca Giorgio Grai, originario dell’Alto Adige, si chiamava in effetti “Krainz”, in tedesco. Quando nel 1919 il Südtirol divenne italiano, il padre di Grai fu costretto a “tradurre” il proprio cognome. Tornando e concludendo con l’etichetta possiamo dire che… è tutta qui, nel senso che non ci sono altri elementi di attenzione se non il nome storpiato del quale siamo qui a riferire. Delirio di un grafomane? Egocentrismo creazionista? Libero esercizio di stile? Non lo sappiamo. Speriamo solo in un prossimo restyling.

Sol, Ri, Mac, Fol e il Punt e Mes

Mac Fol, Moscato Bianco, 
Ezio Cerruti.

Questa piccola azienda, che si può definire “personal-famigliare” (solo 20 mila bottiglie/anno) con sede a Castiglione Tinella (in provincia di Cuneo) ha un solo tipo di etichetta per tutti i vini in gamma (non sono molti, attualmente 5). Si tratta di una soluzione molto grafica ideata dal fotografo e designer torinese Bob Noto, ora scomparso. Una sfera fuoriuscita dalla propria sede (d’accordo, ricorda la nota pubblicità vintage del Punt-e-Mes). Piaccia o no, molto semplice, di sicuro impatto, anacronistica e quindi travalicante tempo e spazio. Ma passiamo ai nomi, unica parte caratterizzante per le varie etichette dei vini. All’inizio il produttore si è fatto conoscere con il “Sol”, una specie di passito. Poi è passato al “Fol” che sta per follia, avendo deciso di vinificare il Moscato come vino bianco secco (in una regione dove tutti spumantizzano o realizzano un vino dolce per le torte). Di seguito è arrivato il “Ri Fol” (sempre le stesse uve ma con modalità da rifermentato) e infine quello che mostriamo nella foto in alto a sinistra, il “Mac Fol”, dove la prima parola tronca sta per “macerato”. Diciamo che il percorso creativo di questi nomi ha una sua logica, salvo il fatto che quest’ultimo, contenendo la parola “Mac” porta inevitabilmente a un mondo tecnologico di computer, grazie alla notissima serie di modelli della Apple. Si sarebbe potuto evitare, anteponendo a “Fol” qualche altra soluzione verbale. Ma così è (se vi pare): tutto sommato anche Apple ha più volte inneggiato ai folli come avanguardisti e innovatori. Prendiamola quindi come una follia creativa. E beviamoci sopra (anche perché si dice in giro che i vini di Ezio Cerruti siano molto buoni).

Il Mio Vino è Anche il Tuo

è lu mé, Pecorino, Citra Vini.

Non ci sarebbe molto da dire su questa etichetta, semplice e diretta (che ci invia Sara Missaglia, giornalista e degustatrice, molto attenta anche alla semantica della comunicazione), se non fosse per quel nome particolare che fa da protagonista assoluto del packaging-design. Il nome del vino infatti è scritto in modo insolito, a sottolineare una accezione dialettale: “è-lu-mé” ciòè “è il mio” in dialetto abruzzese (siamo in provincia di Chieti). Il nome (in un colore verde fluo, impossibile da non notare) viene compreso tra due parentesi quadrate e tradotto subito sotto, scritto più piccolo e con la classica modalità dei dizionari. La necessità di una traduzione è comprensibile: la forma dialettale rischia di essere presa come nome a sé stante come se fosse “Elumé”. Invece si vuole evidenziare anche il significato, “è il mio”, cioè è il mio vino, è quello che preferisco e al quale dedico cura e attenzione (il produttore), oppure al quale tengo davvero e voglio che sia sempre sulla mia tavola (il consumatore). Insomma… si sommano due tipi di attenzione, quella dovuta alla modalità con la quale viene comunicato il nome e quella che nasce del suo significato. In generale questa etichetta risulta molto chiara, pulita, elegante, semplice in senso positivo. Attira l’attenzione e lo fa con garbo e con una nota di regionalità che dà spinta e valore al Pecorino, vitigno autoctono di quelle terre.

Fantasmagoriche Etichette per Lunatici

Gun Club, Abouriou, Domaine Le Trois Toits.

La spiegazione del nome di questo vino è letteralmente fantastica. Perché si rifà a un famoso romanzo di Jules Verne, “Dalla terra alla luna”, pubblicato nel 1865. Il nome è “Gun Club”, che potrebbe far pensare a qualcosa di guerrafondaio o di clandestino come il più attuale ma ugualmente fantasioso racconto e film Fight Club. In realtà il Gun Club di Baltimora (Stati Uniti) era una associazione di artiglieri che nello sviluppo della trama del racconto progetta un obice così potente da riuscire a lanciare una palla di cannone fin sulla luna. La storia si evolve con la decisione di sparare una specie di capsula spaziale con dentro tre uomini, dei coraggiosi volontari, che alla fine non riusciranno ad allunare, bensì si ritroveranno in orbita attorno alla luna. Ma torniamo a questa originale etichetta. Sicuramente i titolari di questa azienda vitivinicola francese, con sede vicino a Nantes, sono appassionati lettori dei racconti di fantascienza di Jules Verne, visto che anche i nomi di altri loro vini prendono spunto dalle fantastiche avventure narrate dal noto romanziere. Il design si mantiene comunque molto sobrio, con uno sfondo a tinta piatta sul quale spicca un barbuto personaggio d’epoca con tanto di cilindro. In alto la definizione di prodotto “Pétillant Naturel” e sotto al nome del vino la firma dell’attuale titolare: Vincent Barbier. L’etichetta si fa notare, la storia fa sognare. Peccato per il tappo a corona che fa perdere un po’ di poesia, ma oggi la moda dei rifermentati chiede proprio questo tipo di chiusura, agile e moderna. 

Bolle di Lago, Follie dell’Anima

Follie, Follie!
Lugana Spumante, La Rifra.

Giusto per fare un po’ di chiarezza (dal caos nasce una stella) vogliamo elencare i nomi del vitigno in questione: Trebbiano di Soave, Trebbiano di Lugana, Turbiana e anche, una volta, Trebbiano Veronese (in certi casi Verdicchio Bianco). Ora in molti lo chiamano semplicemente Lugana. Si direbbe un’ottima sintesi se presa come valida da tutti (ma regna ancora molta confusione nel denominare questo vitigno). La versione qui evidenziata è quella spumantizzata con metodo Martinotti (o Charmat) proposta dall’azienda La Rifra, con sede a San Martino della Battaglia (a sud del Lago di Garda). Il vino si chiama “Follie, Follie!”, nome particolare, che attira l’attenzione, suscita sensazioni di festa, di convivialità. Si tratta in effetti di una bollicina semplice, da aperitivo, di grande freschezza. Il design dell’etichetta rischia di appartenere a uno stile antico, un po’ francese da Belle Èpoque con caratteri di scrittura molto graziati, decorativi, arcaici, ammiccanti. Lascia comunque il segno, questo design che possiamo definire arruffato ma gentile. L’invito, evidente, a “fare follie” colpisce e piace sempre, laddove il vino, specie quello spumante, corrompe le anime e fa dimenticare traversìe e malessere.

Tanto Meno e Tutto Quanto

639hz, Garganega, Dalle Ore.

Il vino è energia. Ma ancora prima è vibrazione. Questo, in estrema sintesi, affermano i principi dell’Agricoltura Quantica. Pensavate di aver raggiunto il massimo della cultura vitivinicola con la conoscenza della biodinamica steineriana (per i pochi che la conoscono davvero)? Ebbene c’è anche un gradino superiore che si ispira sì a Rudolf Steiner ma si spinge oltre, verso i confini indefinibili della mente quantica. Sarebbe lungo e complesso approfondire qui il concetto, allora ci limitiamo a citare le parole con le quali il produttore di questa Garganega che si chiama 639hz (hertz) presenta il proprio vino: “In qualunque momento un grande vino sa spezzare ogni nostro dualismo. Perché esso è anima corporale e corpo spirituale, è frutto dei cieli e della terra vegetante, è il lavoro del tempo e dell’uomo che l’hanno cresciuto in una promessa di continua trascendenza. Dono più alto di ogni altro, uomini di ogni tempo e di ogni luogo hanno bevuto il vino in segno di amicizia, offrendosi reciproca salute, ovvero salvezza, nella cognizione che nel vino sono contenute le frequenze della vita, le forze sorgive dei cieli e della terra, del tempo e dell’uomo”. Anche gli altri tre vini della gamma “vibrano”: si chiamano 528hz (Cabernet Franc), 741hz (Pinot Nero) e 852hz (Riesling Renano). Le etichette parlano chiaro ma con eleganza e sobrietà: le vibrazioni sono rappresentate da un’onda cromatica incisa con dettaglio leggero su un fondo color bronzo di indiscutibile personalità. Originali pur essendo minimaliste, cosmiche pur essendo semplici. Nel meno c’è il più. Nel vuoto c’è il pieno. Sembra facile e, sommando il tutto, lo è.

Ladri di Mosto in Azione

Furau, Vermentino e Semidano, Sa Defenza.

Questa è la storia di un vino rubato. Proprio così, come si rubano attimi di felicità durante una degustazione o si ruba il tempo dei viticoltori andando a visitar cantine. Loro, questi produttori sardi, tre fratelli, Pietro, Paolo e Anna Marchi, per comporre questo vino “rubano” i mosti dalle vasche di altre loro produzioni. Ed ecco il riferimento al nome, in dialetto, “Furau”, cioè rubato. L’immagine in etichetta è ugualmente evocativa: si vede un uomo, fugace, con in mano una bottiglia (si direbbe un bottiglione, viste le proporzioni sfalsate). L’abbigliamento, volendo classificarlo come tale, è proprio da ladro: cappottone largo, cappellino in lana, scarponcino tattico. Assolutamente divertente. Situazione comica che serve ad attirare l’attenzione (e ci riesce) cercando di essere coerente con il racconto, cioè con la storia personale del vino e quindi su come viene elaborato e prodotto. Risulta un po’ strano il fatto che in etichetta venga scritto “rosato” mentre tra le mani del ladro c’è una bottiglia di vino bianco, o quanto meno “orange”. Ma probabilmente sono la sfumature di colore che ingannano o che sono state stampate con qualche imperfezione. Un ultimo accenno al nome dell’azienda, Sa Defenza, che semplicemente è il nome della via, cioè della zona dove si trova la cantina. La forma della bottiglia e la fustellatura dell’etichetta sono insolite: ovaleggianti, con una modalità più da liquore che da vino frizzante da mescita agile.

Oro, Fucsia e Diamante

Vivam, Barbera Frizzante,
Oro di Diamanti.

L’attenzione per questa etichetta si rivolge in primo luogo al suo colore sfavillante (o sfarfallante che dir si voglia). Un fucsia modello evidenziatore che sullo scaffale, ma anche a tavola, produce un effetto, si potrebbe dire, abbagliante. Aggiungiamo che siccome in giro si vedono poche etichette di questo colore, la bottiglia riesce a distinguersi, almeno per questo fattore. Un’altra caratteristica da notare è il nome del vino, “Vivam”, non tanto per la traduzione dal latino, declinazione di “vivere”, quanto per il carattere di scrittura, corsivo, non immediatamente leggibile ma di buon gusto calligrafico. Quello che ci ha colpito non troppo positivamente è stato il logo e nome aziendale posizionato in alto nell’etichetta. Si tratta dell’azienda “Oro di Diamanti” situata sui colli bolognesi. La composizione del nome è dovuta al cognome della titolare, Susanna Diamanti. Un gioco di parole che nella sua formulazione lascia un po’ di perplessità ma che al tempo stesso attira l’attenzione. Graficamente il logo è risolto in modo poco efficace, cioè dispersivo, non dotato di una caratteristica importante, la sintesi. Vediamo infatti il nome in carattere graziato, alcune decorazioni molto generiche che raffigurano pàmpini, foglie e frutti della vite, e al centro un diamante. Efficienza cromatica (al contrario del colore di fondo dell’etichetta) pari a zero in quanto i toni grigio-chiari si perdono alla vista, in qualsiasi tipo elaborazione. Etichetta cromaticamente frizzante, proprio come la Barbera che rappresenta. Prosit!

Un Punto a Favore per il Punto di Rottura

Perfect Break, Semillon e Sauvignon.

Si dice che i surfisti preferiscono la birra. Ma non si sa mai. Di fronte a un trancio di pesce spada alla griglia potrebbero virare su un fresco vino bianco. Certo che questa etichetta colpisce. Si tratta di una azienda vinicola australiana con sede in Margaret River che ha deciso di celebrare i domatori di onde che popolano le coste di quel paese lontano e ancora oggi selvaggio. Lo fa con grande gusto grafico che comprende anche una soluzione cartotecnica particolare: l’etichetta (la carta dell’etichetta intendiamo) è strappata in alto a simulare la rottura dell’onda ad opera di un ginnico surfista. Il “mare” rappresentato dall’etichetta viene tagliato in verticale producendo la classica spuma bianca. Il surfista indossa un muta nera, sembra quasi un Diabolik. E di fatto lo stile è fumettoso: tinte piatte, tratti ben delineati, semplicità e immediatezza anche nel carattere di scrittura del nome (del vino ma anche dell’azienda) “Perfect Break”. Nome che ricorda il famoso film “Point Break” che celebra la vita e le avventure di un gruppo di surfisti-rapinatori, paladini di uno stile di vita libero e incondizionato. Al contrario questo vino e gli altri vini dell’azienda che fanno parte di questa linea (ci sono anche uno Shiraz e un Rosé) tradiscono uno schema molto commerciale e di consumo mainstreamer. Lo “strappo” creativo dell’etichetta contribuisce a fortificare la “promessa” di ribellione che il marketing offre ai surfisti da divano. E, ripetiamo, lo fa con grande gusto estetico e forza comunicativa.

Modestia e Spavalderia a Confronto

Modestu, Vino Bianco, Giovanni Montisci.

Fin troppo modesto questo “Modestu”. Si parla dell’etichetta, non del vino, naturalmente. Comunque qualche punto valoriale possiamo trovarlo. Andiamo con ordine: il vino è un blend di vitigni bianchi, siamo nell’entroterra della Sardegna, ed esattamente nella Barbagia (provincia di Nuoro). La carta che viene utilizzata per l’etichetta è simile a quella “del salumiere”, e ciò connota il prodotto in un’area di genuinità, spontaneità, selezione, quindi qualità intrinseca. La particolarità è che tale carta risulta come strappata in alto e in basso. Vediamo i contenuti del design. Quello che dovrebbe essere il logo aziendale si limita a due iniziali: G e M. cioè il nome e cognome del produttore, Giovanni Montisci, riportato in esteso appena sotto. Al centro il nome del vino, “Modestu”. Poi le altre scritte di legge. Certo, la semplicità regna sovrana e tutto sommato ci starebbe anche bene. Se non fosse che troppa semplicità porta a sminuire il valore percepito. Per quanto riguarda proprio il nome del vino, va sottolineato che si tratta di una specie di idea speculare rispetto ad un altro prodotto dell’azienda, il “Barrosu” che in dialetto significa “tronfio e orgoglioso”, in una parola “spavaldo”. E così, come contr’altare abbiamo il “Modestu” di facile traduzione. Per la cronaca enogastronomica, i vini di Giovani Montisci sono molto ben considerati da chi di vino se ne intende.

Lo Strano Caso della Cuba Siciliana

Cuba (Qubba), Nerello Mascalese e Cappuccio, Monteleone.

Strano il nome del vino e davvero interessante la sua origine. Siamo in Sicilia, a Castiglione, in provincia di Catania. L’Etna domina quei paraggi. Ma altresì la caratteristica del luogo parla di una chiesetta, forse ortodossa, della quale gli storici non riescono ancora ad attribuire datazione e motivazione. La costruzione si chiama “Cuba” o “Qubba” in una sorta di dialetto arabo-siculo. Interessante l’etimo che fornisce in tal proposito Wikipedia: “La parola "cuba" ha una origine controversa ed è stata oggetto di studio. Secondo alcuni il termine deriva dal latino cupa (botte) e cupula (botticella) o dall'arabo kubba (fossa, deposito) o qubba (cupola), per altri direttamente dalla forma cubica dell'edificio. In siciliano si citano spesso le chiesette di campagna come cubole”. Bella anche la romantica spiegazione del produttore (Giulia Monteleone, con il marito e il padre Enrico) che lega l’inizio della propria avventura imprenditoriale proprio alla chiesetta in oggetto: “Il nostro progetto, di vino e di vita, prende forma nel luglio 2017 quando, dopo una lunga ricerca, individuiamo due ettari di vigna vecchia a pochi passi dal fiume Alcantara. Siamo ai piedi dell’Etna a poco meno di cinquecento metri sul livello del mare e a meno di cinquanta passi dall’antica Cuba di Santa Domenica, un gioiello bizantino di rara ed integra bellezza. Arrivati qui, in una torrida giornata d’estate, un vento caldo spazzò via, in pochi attimi, i dubbi, le perplessità: era questo il locus amenus che stavamo cercando, il posto giusto dove fare il nostro vino”. Come si vede nelle immagini qui proposte, nel tempo, l’azienda ha cambiato idea sulla modalità di proporre il nome del vino (e della chiesetta), anche se il senso non cambia. Per quanto riguarda il design dell’etichetta possiamo dire che è apprezzabile la sua semplicità: pochi elementi che vedono protagonista la cupola dorata della chiesetta riprodotta in illustrazione. Certamente tra “Cuba” e “Qubba” meglio la seconda, per non confondere le idee, evitando di portare l’attenzione sulla nota isola caraibica (e a tutto quel mondo di rum e sigari).

Il Calore Post-Atomico del Cannonau

Bàsca, Cannonau, Pedra Niedda Tenute.

Sappiamo questo: che in dialetto sardo, in particolare il campidanese, “bàsca” significa caldo. Ad esempio “est fendi bàsca” significa “fa caldo” e “ta bàsca” è traducibile in “che caldo!”. Infatti nel sito internet del produttore si legge: “Il nostro Bàsca vuole esprimere con i suoi profumi e sapori intensi di frutti rossi, tutto il calore della Sardegna”. Probabilmente parola di origine spagnola, la cui dominazione ha lasciato ingerenze fino ad oggi e chissà fino a quando. Il vino del quale stiamo parlando è il frutto del lavoro di una coppia di giovani, lui toscano, lei sarda, che hanno iniziato da poco l’attività vitivinicola. La sede e i vigneti si trovano a Sini, vicino a Oristano, sul lato ovest della Sardegna. Passiamo alla particolare grafica in etichetta: il nome del vino si trova in basso con l’accento sulla “à” evidenziato in rosso, al centro del packaging una specie di clessidra o forse il buco di una serratura attraverso il quale si scorgono delle linee, delle trame che potrebbero rappresentare colline e nuvole. Occhieggia un sole rosso al tramonto, lo stile è piuttosto “post-atomico”, oppure definibile come “post-moderno”, arte concettuale, sicuramente originale, forse non proprio vinicolo, ma la voglia di fare qualcosa di nuovo c’è.

Un Bianco Orange in Alba Latina

Ex Alba, Trebbiano, Podere Pradarolo.

La natura “orange” di questo vino viene dichiarata dal colore stesso, prevalente, dell’etichetta. Si tratta di uva Trebbiano macerata per 50 giorni ad ottenere un vino fermo e intenso. Ma veniamo alle questioni di packaging. Il nome del vino è “ex Alba”: diciamo subito che è molto rischioso collocare la parola/nome “Alba” in etichetta, soprattutto quando con la nota cittadina del Piemonte non si ha niente a che fare. Infatti qui siamo sulle colline di una valle laterale del parmense: territorio e vitigno non c’entrano con la nota località delle Langhe. E’ chiaro che in questo caso “Alba” è riferito al latino e vuole significare, più o meno, “dal bianco”, cioè un vino che nasce da un frutto bianco, atto a divenire, in questo caso, aranciato. I percorsi della mente (quando legge un nome e “interpreta” la parte visual di un’etichetta) sono molteplici, ma di certo possiamo dire che in questo caso, nell’immediato, “Alba” porta proprio là. Salvo accorgersi, necessariamente documentandosi su questo specifico vino, che si tratta di tutt’altro. Per il resto notiamo che il design è molto semplice: il nome del produttore in alto, con la data vendammiale; in basso il nome del vino adagiato su morbide colline cromatiche. Un critica anche al carattere di scrittura del nome/logo dell’azienda, piuttosto arcaico. Per il resto piace la semplicità e l’immediatezza.

Quando il Packaging ha dei Limiti

Oltre il limite… e altro, Merlot e Cabernet Franc, Salvan.

Il nome di questo vino è piuttosto lungo, quasi una strofa: “Oltre il limite… e altro”. Si tratta del vino-bandiera di questa azienda padovana, prodotto solo nelle migliori annate. Cosa può giustificare l’adozione di un nome così strano? Nella scheda digitale del vino viene detto che è “dedicato a chi cerca, a chi non ha confini ed è destinato ad avere come limite l‘infinito“ (citazione attribuita ad Andrea Emo Capodilista, filosofo). Navigando la rete scopriamo che il nome del vino è in realtà il titolo di una raccolta di poesie di Maurizio Zanon, al quale l’etichetta è dedicata. Passiamo alla grafica del packaging: sconcertante, di primo acchito. Praticamente un rebus, se non fosse opera del pittore Caudin, insieme al poeta citato prima, conterranei del titolare dell’azienda, Giorgio Salvan in quel di Battaglia Terme (Padova). Certo si fa fatica ad apprezzare l’arte contemporanea di questo packaging. Una curiosità: l’azienda Salvan aggiunge al proprio nome la definizione “Vigneti del Pigozzo”, ebbene il pigozzo è i nome dialettale del picchio locale che gironzola tra le vigne. Tutto sommato un ensemble che genera curiosità (ma anche confusione).

L’Alberello Maestro

Maistru, Nuragus, Sa Defenza.

Davvero particolare questa etichetta di un piccolo produttore che ha sede e vigneti a 30 chilometri da Cagliari. Iniziamo dal nome della cantina, “Sa Defenza” che in sardo significa “la difesa”, nome della località, ma che diventa anche filosofia aziendale: la difesa del territorio e dell’integrità agricola del fare vino in modo più naturale possibile. Il vitigno è il locale Nuragus, le viti sono ad alberello come si vede bene in etichetta. Su un tralcio, in dimensioni sfalsate, riposa un uomo, cappello in testa, abbigliamento contadino. Lui probabilmente è il “Maistru” (nome del vino), il maestro. Colui che governa la vigna e decide quando fare vendemmia. Insomma il viticoltore, padre del vino e dei suoi segreti. Si tratta di un packaging semplice, un nome, una data, una figura che richiama l’attenzione. Bianco e nero, salvo il vezzo della “i” di “bianco” che viene rappresentata in rosso. Il “salto” creativo è dovuto a quella differenza di dimensioni tra il tralcio e l’uomo: la vite molto più grande ma l’uomo padrone della situazione. Il tutto, ripetiamo, con estrema semplicità. Etichetta che attira e si propone con personalità e carattere. Come, immaginiamo, il vino che veste.

Dalla Grecia in Arancione

Paleokerisio, Debina e Vlahico, 
Domaine Glinavos.

Ne abbiamo visti di nomi strani, per i vini di casa nostra e per quelli esteri. Questo è uno di quelli, fermo restando che la lingua greca (anche quella moderna) a noi italiani risulta particolarmente strana, per lettere e composizione. Questo vino è strano tre volte: nel nome, nella composizione e lavorazione e nella “Doc” (chiamiamo così la PGI, Protected Geographical Indication). Partiamo dal nome: Paleokerisio (sembra essere di invenzione), lungo e curioso, certo non facilmente memorabile. Il vino è composto da due vitigni sconosciuti in Italia e viene prodotto in modalità orange, semi-sparkling e semi-dry (una modalità antica di quei territori). E infine la PGI (Doc) che si chiama “Ioannina” (o Giannina). Sembra un nome italiano. La cittadina così chiamata si trova vicino al confine con l’Albania, all’altezza di Corfù, quindi molto vicino allo stivale. Per quanto riguarda la grafica in etichetta possiamo dire che accusa l’età, o meglio, la classicità, visto che siamo in Grecia. Senza infamia e senza lode. Per completare il tutto riveliamo che anche la bottiglia è strana, sembra quella di una birra. E infatti è tappata con il “tollino”.