Con l’Accento sulla Bellezza

Kalòs kai Agathòs, 
Vernaccia di San Gimignano, Campochiarenti.

Ci sono alcune osservazioni da fare su questa etichetta tutto sommato da definirsi “normale”, diciamo pure molto classica, per quanto riguarda il design. Le notazioni necessarie riguardano il nome del vino, in greco antico. La traduzione/spiegazione di “Kalòs kai Agathòs” che viene comunicata nel retro-etichetta non è esatta. O meglio, non tutti i tomi sacri delle traduzioni sono concordi. In modo spicciolo potrebbe essere “il bello e il buono” ma approfondendo si scopre un concetto più denso, più pregnante: la bellezza fisica rispecchia la bellezza interiore. Si può essere d’accordo o no, ma questo è quanto. Insomma in Grecia, nell’antichità, si sosteneva che se uno (o una) è bello “fuori”, significa che è anche bello dentro, cioè “in possesso di tutte le virtù”. Si allude alla bellezza di una vigna, in questo caso e alla qualità, conseguente, del vino tratto da essa. Si potrebbe applicare il medesimo concetto al rapporto tra bellezza/gradevolezza dell’etichetta e qualità/genuinità dal vino. Ma non sempre è così. L’abito non fa il monaco. Certo che se un vino si presenta con un bel vestito ha maggiori probabilità di essere scelto e acquistato, compresi gli annessi e connessi come le spiegazioni che si trovano sul retro dell’etichetta. La seconda osservazione riguarda gli accenti: sull’etichetta qui riportata sembrerebbe sbagliato quello sulla terza parola (sulla seconda “ò” accentata). Anche se sull’argomento ci sono molte discontinuità, la versione che va per la maggiore è quella con le due “ò” accentate allo stesso modo (accento grave). Inoltre, anche la “A” maiuscola di “Agathòs” non trova giustificazioni accademiche. Sicuramente prima di andare in stampa sarebbe meglio verificare bene: in giro qualche purista del greco antico ancora c’è, e magari si intende anche di vino.

Toccaterra Pocaroba Stile Estremo

Tokaterra, Passito, Vinicola Cherchi.

Solo una parola, un nome: “Tokaterra”. Non ha molte spiegazioni (di fatto non ne ha, da parte del produttore) se non il significato lineare, tolta la “k”, assimilabile a “tocca terra”. Forse l’uva di quel vigneto matura su rami bassi, vicino a terra (ma sarebbe troppo rischioso per la salubrità dei grappoli), forse si tratta di un vino che, bevuto, ti riporta con i piedi per terra piuttosto che farti volare in alto. Sappiamo che si tratta di innominabili “uve autoctone a bacca bianca” (no, il tokaj non c’entra) e che siamo a Usini, in provincia di Sassari, Sardegna. E che il vino è dolce, una specie di passito. Per il resto l’etichetta non dice molto, presentando, oltre al nome del vino, in verticale a tutto campo, il logo aziendale in basso, formato da una sagoma di un paesello e dalla scritta “Vinicola Cherchi”. Packaging effimero, ristretto, forse timido. Nome insolito, che skappa via senza arte né parte (la “k” è voluta). Genera dubbi, avrebbe potuto generare maggior pensiero strategico nella fase realizzativa.

Il Troppo Stroppia, Anzi, Stroppola

Stroppolatini, Schioppettino.

Ci sono due elementi che hanno attirato la nostra attenzione su questa etichetta: il cognome del produttore “Stroppolatini” e il colore di fondo del packaging. Due elementi insoliti, e per questo in grado di generare attenzione e curiosità. Uno non voluto, il cognome del produttore, che si poteva certo evitare mettendo al suo posto un nome aziendale di fantasia. L’altro elemento è voluto, il colore, così come tutti gli altri elementi che compongono il design. “Stroppolatini” incuriosisce ma è molto difficile da leggere e da memorizzare. Il colore rosa, invece, è molto raro nel packaging del vino e quindi porta una connotazione orginale. E poi c’è anche un terzo elemento interessante: il sole “buffante” al centro dell’etichetta. Una scultura antica ripresa fotograficamente e riproposta nel design. Simpatica, evocativa, concettualmente valida (il sole, il vento, gli elementi della natura). Peccato per la resa tipografica e cromatica: una migliore soluzione sarebbe quella di scontornare l’immagine e renderla più vivida. Per il resto l’etichetta presenta elementi centrati, ordinati, con caratteri di scrittura eleganti e misurati. Realizzato male il logo (un classico stemma) sopra al cognome aziendale: troppo piccolo e poco dettagliato, cioè troppo complesso per essere intercettato visivamente in modo efficace.

Dove l’Essenza è l’Assenza

Venum2, Aglianico di Taurasi, 
Marianna Venuti.

Il logo dell’azienda di Marianna Venuti, giovane viticultrice irpina, si legge a fatica. L’occhio deve abituarsi all’estrema sintesi dei caratteri di scrittura. Quindi, osservando bene, appaiono una M e una V. La sintesi è ben presente (ma possiamo parlare perlopiù di una assenza) in tutta la comunicazione aziendale, nell’etichetta prima di tutto. Ma per terminare il discorso sul logo ecco cosa ci dice la titolare dell’azienda attraverso il proprio sito web: “Il logo si ispira agli ideogrammi giapponesi ed in particolare a quello che esprime il concetto del “ma”: una porta con all’interno il sole. Ma (間) è un concetto estetico, filosofico e artistico che può essere tradotto come “intervallo”, “pausa” o spazio vuoto tra due elementi: una stanza immaginaria che si trova in una posizione indefinita tra il cielo e la terra. Il vuoto è la condizione a priori perché il pieno (i fenomeni, le cose) possa esistere ed operare. ”Tutto” e “vuoto” coincidono”. Davvero interessante. Coraggioso e intrigante tutto il discorso. Forse non per tutti, ma lo spessore c’è e chi lo vede è saggio. Passando al design dell’etichetta cosa vediamo? Molto spazio. Abitato da una semplicissima foglia dorata (semplice nel disegno, particolare per l’inchiostro che la conforma). Sotto alla foglia il nome del vino, scritto in piccolo: “Venum2”, vitigno Aglianico in purezza (in gamma c’è anche il “Venum1”, sempre Aglianico e il “Venum3”, Fiano di Avellino). La parola “Venum” (in latino significa “in vendita” e qui torniamo con i piedi per terra), in questo delirio di sintesi risulta davvero compressa, al punto da essere poco leggibile (si legge “verum”). Come già detto parlando del marchio aziendale MV all’inizio di questo articolo, l’occhio si deve abituare, deve cercare tra i caratteri, deve “imparare a capire”. P.S.: forse “Venum” è semplicemente preso da “VENUti Marianna”, chissachilosà.

La Zappa Come Simbolo (Verbale) di Artigianalità Contadina

FirriFirri, Catarratto e Pignatello, Tanca Nica.

Il nome di questo vino, un rosato siciliano che viene da Pantelleria, è ricollegabile a un tipo di zappa a 4 denti utilizzata in quelle campagne. Naturalmente le particolarità di questo naming e di questo packaging non finiscono qui. Anzi, iniziano proprio da lì. Il nome del vino, infatti, “FirriFirri” non può sfuggire: soprattutto perché viene scritto “a tutto campo” sulla bottiglia. Cioè per tutta l’estensione di vetro disponibile. Il risultato è una scritta molto grande, otticamente davvero attenzionale, come se fosse scritta a mano con un grosso pennello o pennarello. Sul fronte della bottiglia non appare altro. Andando nel dettaglio tecnico, come diciamo sempre in questi casi, la spezzatura della parola non aiuta la lettura. Inoltre il colore bianco dà ancora di più una sensazione di provvisorietà, come se il nome fosse scritto in gesso. Certamente si tratta di un design anomalo e per questo destinato a farsi notare. In generale una soluzione così trasmette anche sensazioni di genuinità campagnola, di artigianalità, di sostanza invece che di frivolezza. E queste ultime caratteristiche sono senza dubbio positive.

Etichetta Votiva, ma non Volitiva

Linea Vini, 
Bricco della Cappelletta, 
Carlin de Paolo.

C’è qualcosa di normale e di speciale al tempo stesso nell’immagine protagonista di questa linea di vini (una gamma che va dal Nebbiolo al Roero Arneis) che si chiama “Bricco della Cappelletta”. In teoria non è il massimo dei nomi vista la sua lunghezza e complessità (tre parole). L’immagine però aiuta. Sulla sommità di una collina interamente vitata vediamo una piccola cappella votiva sorvolata da rondini. Dall’alto protegge i vigneti e già questa immagine, reale e concettuale, genera un’emozione. Le vigne di tutta Italia sono cosparse di Crocefissi, Madonnine, Altari e Tabernacoli vari: le coltivazioni hanno bisogno di una sorta di protezione celeste, si sa. O quanto meno ci piace crederlo. Di fronte a una religiosità contadina da prendere seriamente ancora oggi, l’illustrazione di queste etichette si presenta in modo giocoso, con uno stile vagamente fumettato. E questa dicotomia genera ulteriore simpatia, ancora di più: empatia, vicinanza. Siamo solidali con il produttore. Capiamo la sua “lingua” e la riconosciamo come anche nostra. L’azienda in questione è condotta da 4 fratelli della famiglia Carlin de Paolo, opera nella zona delle Terre Alfieri (nome consortile in memoria del poeta e drammaturgo astigiano Vittorio Amedeo Alfieri) con 15 ettari di proprietà. 

Il Vezzo e la Poesia, il Vino e la Fantasia

Tatone, Montepulciano d’Abruzzo, Terre d’Aligi.

Ad Atessa, Chieti, l’azienda Terre d’Aligi (di questo nome ne parliamo in fondo) produce un Montepulciano d’Abruzzo che si chiama “Tatone”. Ebbene, di Tato, Tata, Tatini e Tatine se ne sentono nominare tanti, soprattutto nelle famiglie del nord Italia. Ma dobbiamo dire che il Tatone ci giunge nuovo. La spiegazione di questo nome si trova direttamente sul fronte-etichetta che testualmente recita: “Tatone: è il nonno. La figura più prestigiosa della famiglia patriarcale secondo l’antica tradizione contadina d’Abruzzo”. E pace sia con femminismi e matriarcati vari. In Abruzzo comandano (ancor oggi?) gli uomini. Potremmo anche dire che alle tradizioni non si comanda, ma di certo si tratta di una affermazione che ad un pubblico emancipato può dare fastidio. Per il resto l’etichetta fa bella mostra di sé con una centratura dei testi ordinata, una presenza lineare e “pulita”, forse fin troppo sobria. Ci concede qualcosa di emozionale con il logo aziendale, in basso nell’etichetta, proprio sopra al nome “Terre d’Aligi”, con un trama dorata di piccole parcelle che potrebbero rappresentare una costruzione rurale. Il pastore Aligi invece era il protagonista di “La Figlia di Iorio”, celebre dramma scritto da Gabriele d’Annunzio, di origini abruzzesi. Un omaggio al Vate d’Italia nato a Pescara.

Un Grande (e Lungo) Silenzio

Mio Silenzio (Grande Edizione), Cabernet Sauvignon, Ponte Lungo.

Etichetta ricca di particolari di stampa che possiamo definire anche di un certo pregio. Inchiostri dorati e in rilievo, cura dei particolari, design di impatto. Affiorano ulteriori considerazioni. Il nome del vino che risulta essere “mio silenzio”, viene ripetuto due volte in modo ravvicinato, creando un “eco” percettivo che non giova. Un nome davvero particolare: molto bello e discutibile al tempo stesso (a nostro parere più discutibile che efficace). Da un lato evoca la pace, il relax, la tranquillità di (poniamo) una sera d’estate in terrazza in un casale isolato dal mondo (o in uno chalet invernale con camino, scegliete voi). D’altro canto il significato rimane celato, un po’ criptico, intimista. Il silenzio che viene enunciato è gioia o malinconia? E’ reticenza o saggezza? E’ di protesta o di epifania? Il silenzio è terapeutico, ma la convivialità non lo prevede: una bottiglia di vino è chiassosa in partenza. Anche se, lo ammettiamo, siamo in un campo molto soggettivo. Non comprendiamo fino in fondo anche la definizione di questo vino (che appare in etichetta in modo molto più evidente del nome): Grande Edizione. Nel linguaggio parlato una “edizione” può essere Nuova, piuttosto che Esclusiva, o anche Speciale. In questo caso è “Grande”. Sarà il numero di bottiglie prodotte? Ma in questo caso non sarebbe positivo e per nulla esclusivo. Infine il design dell’etichetta: come detto all’inizio di questo articolo si tratta di un packaging impattante. Il cerchio rosso al centro attira l’occhio e non lo molla più. Nero elegante di sfondo. Oro luccicante. Pochi elementi di sintesi che cromaticamente funzionano. Senza infamia e senza lode il nome e il logo aziendale: Ponte Lungo.

Catarratto Prematrimoniale e Sponsale

Imené, Catarratto, Ricalkata.

Andando a caccia di nomi si apprendono nozioni interessati, magari dimenticate dai tempi della scuola. Questo catarratto dell’azienda Ricalkata (è il reale nome del produttore) si chiama “Imené”. Le definizioni per questa parola sono due (da Treccani): “In anatomia, la membrana mucosa che limita l’accesso all’ostio vaginale, tesa come un setto incompleto fra vulva e vagina; viene lacerata o interrotta nel primo rapporto sessuale”. Non pensiamo sia stato questo il riferimento al quale ha pensato chi ha creato il nome di questo vino. Piuttosto ecco il secondo significato: “Propriamente, nome del Dio greco degli sponsali, usato in senso figurato, nel linguaggio poetico, per indicare le nozze”. Ecco, qui forse ci siamo. Anche perché il produttore nel proprio sito internet narra che Imeneo “...è il Dio che camminava alla testa di ogni corteo nuziale e proteggeva il rito del matrimonio; gli ateniesi, in alcune feste solenni, lo invocavano con un canto di gioia: "Imené, Imené!". Tutto torna. Certo che, proposto così, questo nome potrebbe anche portarsi appresso qualche perplessità. Design dell’etichetta molto solare e ordinato, pulito e “fresco”.

Un Agguato alla Comunicazione

Il Pugnalone, Sangiovese Cabernet Merlot Syrah, 
Torre Bisanzio.

Sull’opportunità di chiamare un vino “il Pugnalone” si potrebbe discutere. E infatti, volentieri, qui commentiamo. Innanzitutto apprendiamo dal sito dei Musei della Provincia di Terni che “Il termine "pugnalone" si fa derivare dal "pungolo", bastone munito ad una estremità di un puntale di ferro e all'altra di un raschietto usato dai contadini per sollecitare i buoi a muoversi e per pulire l'aratro dalle zolle”. Termine contadino quindi e per questo assolutamente accettabile dal punto di vista concettuale. Ma se vogliamo analizzare il nome per la fonetica e la semantica “parlata”, sono maggiori le sensazioni spiacevoli. Il pugnale, ancor più un pugnalone, è arnese che risulta aggressivo, evoca agguati sanguinari, trame sommesse, tradimenti concitati. Nel linguaggio volgare si possono trovare anche altri riferimenti che qui preferiamo non citare. Ecco perché nella scelta di un nome devono essere considerati tutti gli elementi in atto, possibili e remoti. Dal punto di vista del design l’etichetta di questo importante produttore umbro (noto anche per l’allevamento di bestiame di Razza Chianina) si presenta in modo elegante, total black, con pochi elementi, offrendo un’immagine sobria anche se un po’ sopita (tranne, come già detto, l’aggressività del nome).

Panata Panacea di Tutti i Mali

Panata, Orvieto Classico Superiore, Argillae.

La panata, che nel Nord Italia è il nome di un piatto povero, il pancotto, e in altre zone potrebbe ricordare la ricetta dellla cotoletta impanata, nella zona di Orvieto invece, come racconta questo produttore nel proprio sito web, “è il nome all’antico boccale dalla forma panciuta caratterizzato da un beccuccio molto sporgente e tradizionalmente decorato con motivi floreali o animali. Usato in epoca medievale per mescere acqua e vino, ebbe ampia diffusione nella bassa Umbria, ed in particolar modo ad Orvieto. L'etichetta del vino (che appunto, si chiama “Panata”) riprende da tali brocche un uccello e vuol essere un omaggio alle tradizioni e all'arte del territorio”. Si tratta a nostro parere di un nome popolare, non molto elegante e prezioso, ma in grado di recuperare crediti raccontando in sostanza la storia relativa alla grande quantità di coppe, tazze e boccali in ceramica prodotti nel medioevo in tutta l’Umbria. Coppe, tazze e boccali, naturalmente atti a contenere vino e a donare ebbrezza agli astanti di taverne e conventicole varie. L’etichetta, graficamente suddivisa in due blocchi rettangolari, presenta altre grafìe storiche nella texture che campeggia sotto al nome del produttore “Argillae”. Tutto sommato si tratta di un genere di design studiato apposta per raccontare la storia del territorio e per questo credibile e gradevole.

Un Design “Disegno” che Racconta

Pecorino, Pasetti.

Il Pecorino è una varietà autoctona abruzzese. L’azienda in questione, Pasetti, ne fa una bandiera che rappresenta ben un terzo di tutta la produzione. Simpatica l’etichetta: vediamo due grandi scritte, “Pecorino” e “Pasetti”, il nome del vino e il cognome del produttore. Fin qui nulla di nuovo. L’immagine centrale dell’etichetta, invece, ha qualcosa da raccontare: una bambina felice, cammina con due fiori in mano, inseguita da una pecorella. Notiamo diversi particolari: la bambina ha i capelli rossi e indossa degli scarponcini da contadinella. Sopra di lei splende un sole giallo stilizzato (che figura anche nel marchio aziendale). L’immagine trasmette immediatamente sensazioni campestri, di idillio, di spensieratezza, di genuinità, di innocenza, di serenità. Mica poco per un’etichetta. Concettualmente si gioca con il nome del vitigno “Pecorino” proponendo l’immagine di una pecora. Ma è marginale. Il gioco, se mai individuato, si perde nella poesia del racconto visivo. Diciamo che si tratta di un packaging semplice, che non vuole stupire con la preziosità, bensì con un’immagine simpatica, condivisibile, empatica.

Un’Etichetta che Ferisce

Il Pugnale, Rosso di Toscana IGT, Podere Gualandi.

L’etichetta recita testualmente così: “Il Pugnale“ (nome del prodotto), “un vino penetrante”. Una certa logica c’è: le caratteristiche dell’oggetto raffigurato e chiamato a rappresentare il prodotto si uniscono a quelle del vino stesso e comunicano all’unisono. Si tratta di un Cabernet (per l’80%, il resto Foglia Tonda). Quindi il vino penetra tra le viscere dell’uomo ma anche, crediamo, nell’immaginario del produttore, nella mente e quindi nel ricordo della mescita. A parte tutte queste considerazioni, lo ammettiamo, un po’ ironiche, quello che vediamo è un packaging molto obliquo su sfondo giallo ocra impattante, così come è biecamente pregnante (potremmo dire anche “pugnante”) l’immagine del coltellaccio. Nel senso che risulta pure aggressivo se non fosse che l’arnese mostra forme archeologiche. Il nome del vino e la frase penetrante vengono tradotti immediatamente in inglese appesantendo ulteriormente il corredo di scritte che già affollano l’etichetta. Sotto al pugnale si vede qualcosa di simile a uno spiedino, ma non ne siamo sicuri. Diciamo che si può apprezzare l’ardimento, un po’ meno il risultato in generale. Certo che, in qualche modo, la bottiglia si fa ricordare.

Wai, Voce del Verbo Wandare

Wai, Pinot Nero, Tenuta Belvedere.

Ebbene abbiamo saputo che “Wai” (il nome di questo vino) significa “benvenuto” in thailandese. Siamo comunque nell’Oltrepò Pavese, a Montecalvo Versiggia. Non conosciamo le ragioni della scelta di questo nome, forse, possiamo ipotizzare, al titolare di questa giovane azienda, Gianluca Cabrini, è rimasta impressa la Thailandia dopo qualche viaggio in quelle terre lontane. Il vino è un rifermentato naturale da Pinot Nero. Colore molto suadente, moderata frizzantezza. Considerato per ora un esperimento all’interno della gamma della cantina. Certo il nome sorprende, ma non per la sua capacità di comunicare, bensì perché risulta strano, insolito, indecifrabile (se non si conosce la lingua thailandese). Il croma fucsia contribuisce alla visibilità. Per il resto abbiamo una etichetta bianca, scritte in finto-a-mano (ma stampate), design centrato, bellino, elegantino ma senza picchi emozionali. L’azienda si chiama Tenuta Belvedere e presenta un complesso (troppo articolato) marchio con rami e acini stilizzati. Tornando al nome del vino: come lo possiamo pronunciare? Anche questo è un problema: “Uaii” o “Ueei” all’americana? “Vai” all’italiana? “Vu-ai”? Non si sa. L’unica certezza è il tappo a corona. No, troppo nobile “a corona”: il tappo della gazzosa, insomma.