Cromatismi Autoritari di Sobria Eleganza

Monocromo #1, Passerina del Frusinate, Agricola Macciocca.

Il vitigno è di quelli poco noti e poco longevi, si dice. Mario Macciocca decide invece di creare un vino destinato a un consumo più consapevole e anche “durevole”. Siamo nel Lazio, in Ciociaria, esattamente a Piglio, località nota più che altro per un vino rosso, il “Cesanese”. In questo caso si tratta di un bianco che di “immacolato” ha anche il tema dell’etichetta, decisamente spaziosa, leggermente argentata, di sicuro strana. Potrebbe risultare infatti monotona, con quel senso di monocromia espressa anche nel nome: “Monocromo #1”. Vediamo di capire meglio. La definizione del produttore per questa linea di vini (esistono anche Monocromo #2 e #3, un rosso e un rosato) è questa: “…vini concepiti con la volontà di minimizzare l’intervento dell’uomo”. Forse per questo gli “interventi” di grafica, in etichetta, sono pari a zero. Nulla più che un fondo colorato e il nome del vino, anch’esso minimalista. L’efficacia dell’etichetta, se mai dovesse essere riscontrata, è quella di essere diversa, di esprimersi in silenzio, di non dire niente, di lasciare a chi osserva ogni tipo di “auto-emozione”. Arte minima, toni uniformi, il nulla elevato a comunicazione. A volte funziona. Il vuoto in realtà è pieno di qualcosa, recitano i tomi orientali. A noi sembra un modo di esprimersi piuttosto remissivo, rinunciatario, ma in fondo anche gli abiti di Giorgio Armani sono così, e in fin dei conti risultano molto eleganti e davvero molto richiesti.

Arte Misteriosa e Santi Protettori

Pignocco, Verdicchio dei Castelli di Jesi, 
Santa Barbara.

Arte moderna? Forse sì. Un sogno vagamente rappresentato? Può essere. Certo che questa etichetta è una delle più “strane” mai viste nel panorama vinicolo italiano. Un vortice di colori con al centro un volto. Abbastanza enigmatico, per così dire. Molte perplessità sulla sua efficacia in termini di comunicazione. Ma a volte i produttori di vino creano delle etichette in modo “affettivo”, guidati da emozioni che chi osserva dall’esterno non può o non riesce a comprendere. Il nome del vino è “Pignocco”, la spiegazione la troviamo nel sito aziendale: “Il nome è ripreso dall’antica fantasia popolare degli abitanti di Barbara che avevano soprannominato pignocco un imponente pino dalla chioma rotondeggiante situato in cima a una collina coronata dai nostri vigneti”. Notazione funzionale: nell’etichetta, in alto troviamo il nome del produttore “Stefano Antonucci” e in basso il nome dell’azienda, “Santa Barbara”. Sarebbe meglio utilizzare uno o l’altro, per non generare confusione. La spiegazione che riguarda il nome dell’azienda è legata al nome della località: “Nei secoli Santa Barbara divenne la protettrice del borgo ed è, da sempre, un’immagine cara ai suoi abitanti che fin dall’antichità ne venerano il culto. Ancora oggi siamo molto legati ad un’antica statua, custodita all’interno nell’omonima chiesa barocca ed anche ad una pala sacra risalente al Seicento, attualmente esposta nella sede del Comune di Barbara”. 

Pensieri Senza Tempo, Vini Senza Fine

Saltatempo, Passito, LunaMater.

Il concetto (e in un certo senso, il rispetto) del tempo è da sempre un elemento formante nella vita sulla terra. Filosofie a confronto. Il tempo esiste o non esiste? Questa piccola cantina di Luni (solo 2 ettari di vigne) ha deciso di “saltarlo”, il tempo. Massimo Ricci e Jacopo Neri, i due fondatori, hanno creato un passito (frutto delle varietà autoctone liguri) che travalica il dolce, che supera i preconcetti di stucchevolezza, che segna il territorio enogastronomico con il colore ambrato del sole al tramonto sul mare. “Saltatempo” è un nome che incuriosisce tanto quanto lascia aperte le porte della percezione a interpretazioni personali. Ognuno infatti, ha una propria consapevolezza del tempo. Comunque si tratta di un bel nome per un vino che non vuole avere né un inizio e nemmeno una fine. Sinergico il simbolo che viene chiamato a completare l’etichetta: una specie di spirale infinita, un cerchio che mai ritorna su se stesso, una forma di “molla epocale” che fa rimbalzare i giorni, le ore, i minuti. Il tempo che ci vuole per produrre il vino, il tempo che richiede il degustarlo attentamente e goderne la piacevolezza. La vita richiede tempo. E chi ne è sprovvisto è il più fortunato.

Bibitari Winemakers di Germania

Frauen Power, Dornfelder, Vin de Lagamba.

Cosa stappiamo oggi? Coca-Cola o birra? Il tappino in metallo potrebbe ingannare. Ma anche l’etichetta non scherza, proponendosi con codici di comunicazione tipici di una bibita. Ma andiamo a vedere chi, come e cosa. Si tratta di un produttore tedesco della regione del Rheinheissen (Essen Renano) dove il vitigno (rosso) Dornfelder regna sovrano essendo più adatto a quelle latitudini e temperature. In questo caso l’utilizzo di questa uva da noi sconosciuta ha letteralmente “fruttato” un vino frizzante, beverino, canterino. Il nome del vino, di grande impatto al centro del packaging, denuncia velleità femministe: “Frauen” in tedesco significa “donne, signore”. Quindi “potere alle donne”. La proprietaria dell’azienda si chiama Alanna Lagamba, tradendo forse lontane origini italiane. L’idea è stata quella di produrre una specie di “Lambrusco germanico”, concretizzatasi quando Alanna, a 25 anni, si trasferisce dal Canada a Berlino, incontra in una fiera del vino Martin, tedesco, e si unisce a lui in una impresa romantica e aziendale che sfocia nei lieti calici. Tornando all’etichetta, da notare sopra e sotto il nome in grande, alcune scritte come: “Beautiful, fruity, bold…”. Insomma una specie di etichetta-affissione pubblicitaria che a suo modo non manca di attirare l’attenzione. Grazie a Sara Missaglia per l’attenta ricerca e la puntuale segnalazione!

Piccole Grandi Storie della Nostra Bella Enotria

Almarisa, Gaglioppo (Rosato), Russo & Longo.

Il colore di questo Rosato Igt Calabria attira l’attenzione. Non di meno la sua etichetta che ha una storia da raccontare: la Dea Nike e le monete di Petèlia. Riportiamo integralmente l’interessante spiegazione del produttore, pubblicata nel sito internet aziendale: “Un tributo alla storia di Petèlia, fedele colonia romana che diede i natali all’attuale città di Strongoli, rivisitato in chiave moderna per guardare al futuro senza dimenticare gli antichi fasti di un passato glorioso. È quanto si cela dietro l’etichetta di Almarisa, il nuovo rosato tradizionale della cantina Russo & Longo, che in un sincero omaggio alle radici del territorio petelino e alla sua monetazione antica, avvolta da un azzurro intenso, rappresenta graficamente in primo piano la Dea Nike, divinità della mitologia greca simboleggiante la vittoria, la cui figura venne utilizzata intorno alla fine del IV secolo a.C. proprio in alcune monete battute dalla zecca di Petèlia, concessa durante l’impero romano. La storia racconta, infatti, che i primi contatti tra Roma e Petèlia risalgono al 278 a.C., epoca in cui l’attuale Strongoli cade sotto l’egemonia romana per mano del console Publio Valerio Levino stringendo un forte patto di amicizia con Roma e iniziando al contempo a sperimentare un periodo di autonomia. Col passare del tempo i legami tra le due popolazioni si rafforzano sempre di più e in occasione della seconda guerra punica, che vide la vittoria di Annibale nella battaglia di Canne, Petèlia per ben undici mesi resiste strenuamente all’assedio dei cartaginesi. Una prova di fedeltà che in seguito alla vittoria romana fu ricompensata con la città dichiarata libera e federata ma soprattutto con il diritto a battere moneta. Da quel momento in poi prendono vita una vasta serie di emissioni in bronzo tra cui spicca proprio l’oncia scelta per rappresentare l’etichetta di Almarisa, una moneta raffigurante il volto di Ares sulla parte anteriore e sul retro l’immagine della Dea Nike che tiene con sé la corona della vittoria. Un particolare riferimento archeologico che testimonia con orgoglio la passione con cui la nostra cantina sottolinea l’importanza legata alle origini del proprio territorio, caratterizzato da un invidiabile patrimonio storico che, ancora oggi, si tramanda di generazione in generazione”.

Vedo Nero, Bevo Bianco

Mosquita Muerta, Chardonnay-Semillon-Sauvignon, Jose Millán,

Lo strano nome di un vino argentino, della zona di Mendoza, e della sua etichetta molto visibile. Partiamo dal nome (che funge anche da nome dell’azienda): "Mosquita Muerta". Noi italiani possiamo facilmente tradurre dallo spagnolo e quindi chiederci cosa può esserci dietro a un nome così particolare. Ci viene in aiuto il produttore stesso, spiegando in prima battuta, nel proprio sito internet che “Mosquita Muerta è un'espressione che viene usata per descrivere una persona con apparentemente scarso potenziale di successo che finisce per compiere un'impresa notevole. Jose Millán ha scelto questo nome per il suo progetto per deridere coloro che nella regione dubitavano del suo potenziale come imprenditore del settore vinicolo”. Un nome orgoglioso, dunque, oltre che curioso. Non contento, il fondatore dell’azienda crea un’etichetta dalla grafica molto forte, impattante, quasi prepotente. Una grande “X” occupa interamente la grafica. Discutibile il colore nero, visto che nel nome del vino si accenna alla “morte”. Il nero e la croce (la “X” in sostanza lo è) portano a percezioni cimiteriali se non si è in giornate particolarmente soleggiate dal punto di vista psico-fisico. Resta il coraggio di proporsi così, in un modo che potremmo definire sfacciato, ma anche, positivamente, con grande sicurezza di sè.

Andiamo a Ballare con gli Assiri

Abballé, Biferno Rosso Riserva, A.G.C.

Lo strano caso di questo italico vino rosso, venduto a quanto pare in Portogallo e Brasile, inizia dal non meglio precisato produttore “A.G.C.”. Probabilmente solo un esportatore/distributore. Ma questo non riguarda la nostra analisi sull’etichetta. Il nome del vino innanzitutto: “Abballè”. Si tratta della forma dialettale molisana e pugliese di “andiamo a ballare” che evoca subito immagini festose della nota Taranta (che diventa Tarantella, a Napoli). Bello il concetto che veicola (allegria, convivialità) ma il nome risulta slegato dal packaging dove vediamo dei geroglifici o qualcosa di simile. Incuriosiscono questi strani tratti tra la grafia e l’iconografia, come per molti altri alfabeti orientali del genere (vengono in mente quelli cinesi e giapponesi). La spiegazione arriva con un breve testo posizionato subito sotto l’immagine centrale: “Nel sud Italia ancora oggi si tramanda un antico dialetto la cui scrittura deriva da quella cuneiforme assiro-babilonese”. La chiave dell’enigma sembra quindi essere il riferimento storico agli Assiri. Certamente arrivati via mare ad occupare fisicamente e culturalmente quelle coste mediterranee esposte a sud-est. Completiamo l’informativa dicendo che il Biferno Rosso è un vino prodotto nella provincia di Campobasso (Molise) prevalentemente con uve Montepulciano (d’Abruzzo) e Aglianico.

Molte Originalità in un Solo Vino

Qui e Ora, Trebbiano di Spagna, 
Angol d’Amig.

La dinamica filosofica che sottende a un nome così, “Qui e Ora”, è stata già ampiamente commentata in ogni aspetto e derivazione. Non ci attarderemo quindi anche noi su questo tema, ma giova sottolineare che il nome del vino, breve e incisivo, esprime un concetto molto valido per il prodotto e per il tipo di gestione che questa piccola azienda modenese mette in atto. Si tratta di un sorprendente Metodo Classico ottenuto da un vitigno che normalmente viene utilizzato per fare aceto balsamico. Inoltre, la sfecciatura non viene effettuata: la bottiglia viene venduta con i suoi lieviti nel collo (a testa in giù) e la sboccatura la deve effettuare chi poi vuole stapparla e godere quindi del suo contenuto. Attira la grafica molto elementare ma pulita e “genuina” (come il vino, l’unico in Europa fermentato in vigna, tra i filari). Meno di 1000 bottiglie per sancire una certa originalità del progetto portato avanti dal 2013 da Marco Lanzotti, ex-sommelier in sala, ora vignaiolo convinto. Incuriosisce anche il nome dato all’azienda: “Angol d’Amig”, in dialetto modenese, “angolo dell’amico”. Passione e amicizia, in vigna e a tavola: il vino eleva e allieta gli animi. Grazie a Sara Missaglia per la segnalazione!


Mendoza Chiama Italia (o Viceversa)

Alma Gemela, Teroldego, Onofri Wines.

Questa etichetta originale, di forma triangolare, viene da una nota zona vinicola dell’Argentina, Lavalle, nei pressi di Mendoza. Non stupisce l’utilizzo di vitigni tipicamente italiani, infatti anche i cognomi dei titolari suonano molto familiari: Mariana Onofri e Adàn Giangiulio. L’azienda nasce nel 2014 ad opera di Mariana, sommelier e winemaker con esperienze in Francia e Uruguay. Le etichette dei vini di questa giovane azienda sono molto particolari nella forma, nella cartotecnica quindi. E si fanno notare. La punta di un triangolo imperfetto sale verso il collo della bottiglia. La carta è di quelle speciali ma i ghirigori abbastanza seriali. Il nome di questa linea di vini invece ci piace: Alma Gemela. Tradotto in italiano sarebbe “anima gemella”, un concetto molto pregnante sia in considerazione delle relazioni tra il coltivatore e la sua terra, così come tra esseri umani e natura in generale. Il nome del vino è scritto con la seconda “E” girata, speculare, contraria. Questo attira l’attenzione, cattura gli occhi con il meccanismo della “storpiatura” che il cervello subito registra. Inoltre questo piccolo trucco enfatizza il nome stesso evidenziando la “gemellarità” delle due “E” che “si specchiano”. Sorvoliamo sull’utilizzo di vitigni autoctoni italiani… oltre al Teroldego, nella gamma di Onofri Wines troviamo anche Fiano e Bonarda. Il gemellaggio tra Italia e Argentina non sarà perfettamente geologico, ma storico e culturale quello sì.

Parole, Parole, Parole… Anche Troppe.

Terra di Rosso, Piedirosso, Galardi.

Il “problema” di questa etichetta è quello di essere troppo descrittiva. A volte quando si cerca di “fare di più” in realtà si ottiene di meno. La comunicazione non è come il lavoro a cottimo, dove se faccio di più, produco di più e ottengo di più. Comunicare è dare spazio, con i ritmi grafici giusti (lo spazio non è un vuoto, è parte integrante del tutto). “Quanto basta” direbbero le ricette di Giallo Zafferano (dello zafferano, a proposito, ne basta poco sia pure di buona qualità). Ed ecco che anche gli ingredienti di una etichetta ben riuscita dovrebbero essere “pochi ma buoni”. Ma veniamo a questa bottiglia di un produttore di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta. Sullo sfondo abbiamo una mappa antica del Golfo di Gaeta con molti riferimenti (parole, nomi) geografici. Questo crea confusione con gli altri testi presenti nel packaging, come il nome del vino, logicamente, quello del vitigno, l’indicazione dell’IGT, il nome del produttore e così via. Fortunatamente il nome del vino, dell’annata, del vitigno e del produttore sono in rosso (color mattone), quindi emergono dalla mescolanza. Purtroppo si evidenziano anche errori di impaginazione, ad esempio dove parte dei tracciati geografici quasi si sovrappongono ad alcune parole, senza respiro, senza “spazi vitali” utili alla fruizione dell’etichetta e delle informazioni che contiene. Si tratta di un curioso caso laddove la parte grafica collide con quella geografica, giusto per giocare ancora un poco con le parole.

La Vite Viva di una Vernaccia d’Oro

Tollena, Vernaccia di San Gimignano, Borgo Tollena.

Tra le tante proposte agrituristiche che fluttuano attorno alla cittadina di San Gimignano questa azienda, diretta da Barbara Bernardi, si distingue anche per le etichette dei vini prodotti in proprio. Nella gamma a disposizione dei frequentatori del borgo e di molti altri winelovers abbiamo scelto questa classica Vernaccia di San Gimignano, contraddistinta da un packaging dalle valenze artistiche ma anche tecniche. Il design è molto semplice. La complessità, se vogliamo, è data dal rilievo dell’inchiostro speciale in oro, che si nota sia in fotografia che, logicamente, al tatto avendo a disposizione la bottiglia. Si nota ormai abbastanza di frequente l’utilizzo di inchiostri in rilievo, ma in questo caso si nota ancora di più in quando lo spessore è rilevante, pastoso, intenso, materico. In alto vediamo il nome del vino (che distingue anche l’azienda agrituristica), al centro l’immagine stilizzata di una donna-vite con due braccia-tralci a sorreggere grappoli d’uva. L’abbinamento iconografico tra essere umano e tralcio di vite è stato nel tempo molto utilizzato. In questo caso notiamo uno stile artistico, quasi scultoreo, con un carattere molto personale nonché coraggioso, nel proporre qualcosa di insolito e forse non per tutti. Elevare la comunicazione è sempre un rischio, parlare il linguaggio delle moltitudini è più facile e sbrigativo.

Etichette di “Clausura” in Alto Adige

Glassier, Sauvignon e Lagrein, Glassierhof.

Queste due etichette che vestono i due vini di punta di questa azienda, cromaticamente attirano l’attenzione. Colori abbastanza insoliti e una grafica sia pure semplice conferiscono una sorta di originalità. Tre elementi: una foglia di vite, a destra, defilata, il nome del vino (e del produttore al tempo stesso) al centro, in corsivo, il nome del vitigno in alto (con l’annata). Il titolare di questa azienda altoatesina, Stefan Vaja, ci fa sapere, scrivendolo nel proprio sito internet che “…la denominazione "Glassier” deriva dal nome latino "clausura" (un “clos” per i francesi) che veniva usato, come anche nel caso del Glassierhof (nome della tenuta) per i terreni rinchiusi (circondati) da una muraglia. Il maso è da 9 generazioni di proprietà della nostra famiglia. Le uve vengono prodotte secondo il disciplinare CEE 2092/91, che regola l' agricoltura bio-organica…”. L’unico vero problema di questa etichetta è la leggibilità del nome in corsivo: in particolare le due “s” centrali possono essere equivocate. Un piccolo vezzo artistico: il puntino della “i” ha lo stesso colore del nome del vitigno.