Immagini Storiche, Emozioni Mediatiche

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Leonardo, Rosso da Tavola, Cantine Minini.

L'etichetta, probabilmente sperimentale, di questa "fantomatica" cantina di Verolanuova in provincia di Brescia (il sito aziendale allo stato attuale non è molto esaustivo) potrebbe rivelarsi come un vero colpo di genio, nell'anno e nell'ambito di Expo Milano 2015. Il genio è quello di Leonardo, riportato con cura ed eleganza sul fronte etichetta. Un genio che ha vissuto e lavorato molto a Milano e che è stato eletto un po' a simbolo anche dell'evento mondiale che si tiene dal 1 Maggio al 31 Ottobre 2015. Un omaggio al Leonardo inventore, pittore, scultore, architetto, etc. realizzato graficamente con maestria e con l'utilizzo di inchiostri e cartotecnica di avanguardia, capace certamente di emozionare, sull'onda mediatica delle informazioni culturali e pratiche che circoleranno in Italia e nel mondo per Expo2015. Un colpo di genio e al tempo stesso una "furbata": certo i turisti che affolleranno Padiglioni interni ed estrerni di Expo2015 non mancheranno di approfittare del cibo e del vino italiani che più richiameranno storiche tradizioni, all'interno di un "modello" espositivo moderno e futuribile. Quale nome più azzeccato di "Leonardo" quindi? Sia per un utilizzo "export", sia per una commercializzazione turistica nei luoghi della manifestazione. Salute al genio!

Nomi e Loghi, Numi e Luoghi

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Cortigliano, Syrah e Petit Verdot, Cacciagrande.

Siamo nella Maremma Toscana, dove i vitigni di origine francese si "sposano" (bene, dicono i viticoltori del luogo) con i vitigni toscani. A parte questo, il produttore che osserviamo oggi attraverso le sue etichette, ha deciso di anteporre il nome aziendale a quello dei propri vini. Infatti su ogni etichetta campeggia in evidenza il nome "Cacciagrande", accompagnato da una illustrazione antica che riproduce scene di caccia con uomini e cinghiali (probabilmente iscrizioni etrusche). Da questo punto di vista la "coerenza narrativa" c'è: maremma, cinghiali, caccia, storia, cibo, tradizione, vino, etc. La scelta di dare maggiore importanza al nome aziendale può derivare dalla volontà di affermare il marchio, soprattutto nei primi anni di attività, cioè quando si è di fronte ad una "immagine" non ancora storicamente affermata e "salda" nel conosciuto dei potenziali target.
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I vini si chiamano quindi (in piccolo, in basso nelle etichette): Viognier, Maremma Toscana, Cortigliano e Castiglione. Si registra però una piccola (ma consistente) incongruenza nel logo (in alto a sinistra) formato da una T incastrata in una C. Probabilmente nato dalla volontà di comunicare sia il nome aziendale (Cacciagrande), sia il cognome della famiglia proprietaria (Tuccio). Questa modalità di "tenere il piede in due scarpe" può generare confusione e in generale non è consigliabile. Ogni "interruzione" del "filo conduttore" concettuale di una etichetta può recare danno a immagine e comunicazione.

Colori negli Occhi, Pugni nello Stomaco

Vigna Mè, Trebbiano d'Abruzzo, Angelucci.

"De gustibus (et coloribus) non est disputandum" dicevano gli Antichi Romani. In particolare, secondo Plutarco, questa frase fu pronunciata da Giulio Cesare davanti a un piatto di asparagi al burro, serviti nella casa milanese di Valerio Leone. Agli ospiti Romani il burro non piaceva, lo ritenevano un "cibo da barbari", preferendo l'olio di oliva di mediterranee fattezze. Per "sistemare" le cose Cesare pronunciò la celebre frase e placò gli animi davanti al banchetto. Ai giorni nostri e nel nostro caso, siamo di fronte a una etichetta davvero particolare: il nome Vigna Mè, tra l'orgoglio vignaiolo e l'invenzione egoica, è dotato di indubbia "originalità". Ma il problema qui sono i colori: la grafica in etichetta propone i tratti di morbide colline, nonché le parole che descrivono vino e produttore con un viola, un blu e su tutti un verde "shocking" che di fatto impedisce la lettura del nome e lascia interdetto l'occhio. Il grande Mè, che si scorge sullo sfondo, di contrappunto è grigio (o violaceo). Anch'esso poco leggibile. La capsula è verde anch'essa e lascia a dir poco perplessi. Certo che il coefficente di "notabilità" di questo vino sullo scaffale, è elevato. Bastasse questo alle quote di mercato, i colori catarifrangenti andrebbero a ruba. Invece il vino si vende ancora con il bordeaux, ad esempio, ben inteso come colore!

Etichette che Provocano una "Smorfia"

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Moio57, Rosso, Moio.

Anche a scanso di sceneggiate scaramantiche alla Totò, il nome di questo vino potrebbe essere facilmente collegato al Gioco del Lotto. Né più, né meno di altri vini che in etichetta "giocano" a proporre numeri e cifre. In questo specifico caso il cognome della famiglia imprenditrice non aiuta a fugare dubbi cabalistici: Moio 57 "il morto che parla", direbbe il mitico comico partenopeo (buffo notare che la diatriba sul numero esatto del "morto che parla" si divide tra il titolo del celebre film di Ludovico Bragaglia, che cita il 47, e Wikipedia che afferma il 48). In particolare, per questo "rosso" del Falerno il nome/logo aziendale non viene "relegato" a firma dell'etichetta ma si erge a protagonista posizionandosi al centro, con una dimensione del carattere di scrittura che non può non essere notato. Per la cronaca e per la precisione il numero 57 viene giustificato in questo modo, dall'azienda produttrice, nel proprio sito web: "Moio57 deve il suo nome alla straordinaria vendemmia del 1957 che si ottenne a Mondragone". Con buona pace di chi vuole gufare! (per di più la grafica dell'etichetta sembra proprio quella per un whisky scozzese)

La Leggibilità è un'Arte

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Moréo, Montepulciano d'Abruzzo, Cantina Massimi.

Questa azienda di Ancarano, provincia di Teramo, in Abruzzo, situata proprio a ridosso del confine sud delle Marche, ha fatto dell'arte una propria bandiera. Si parla di arte, giustamente, per le raffigurazioni in etichetta, che vogliono rappresentare pittoricamente il territorio dove vengono coltivate le vigne e prodotto il vino. Si tratta di quel tipo di arte che viene definita "contemporanea". C'è arte, lo afferma il produttore nel proprio sito web, anche nella cura e nella lavorazione della vite e del vino.  A noi, in questo caso, interessa l'arte della realizzazione di una etichetta: complessa, variegata, accurata e spesso soggettiva nella valutazione finale che può suscitare.
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Non è invece soggettivo qui il fatto che il nome del vino non è perfettamente e immediatamente leggibile. Moréo. La scelta del carattere di scrittura non è felice. Certamente artistica, amanuense, sinuosa ma non leggibile. In una logica di identificazione del prodotto, che può dare vita al miracoloso "passaparola", scrivere un nome in modo poco leggibile non è una buona idea. Sarebbe anche un buon nome "Moréo", breve, foneticamente valido, suadente, significante per quanto riguarda il colore del vino, attinente al mondo latino degli Antichi Romani che colonizzarono queste terre ai tempi in cui la "vitis vinifera" assunse quasi il ruolo di un "Dio". 

I Nativi del Vino siamo Noi (Italiani)

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Eremo San Quirico, Aglianico, Nativ.

Per questa analisi si parte del nome aziendale che, del resto, è posto in grande evidenza sull'etichetta, quasi come se fosse il nome del vino (e questo può essere un problema, potrebbe generare confusione nella comprensione). Nativ. A proposito di questo nome il produttore nel proprio sito web esprime un bel concetto: "Il nome è nato per rappresentare, attraverso le produzioni di vini autoctoni, l'origine della viticoltura italiana. Le uve coltivate in tali vigneti e in vigne secolari, rappresentano, oggi, un emblema della cultura italiana, ed il vino, prodotto da queste uve, rispecchia, meglio di ogni altro prodotto, il "made in Italy". Chapeau, direbbero i francesi. Ottimo, diciamo noi. Un altro motivo di plauso, per questa etichetta in particolare, va espresso per quanto riguarda l'illustrazione: un cavallo alato, o come minimo "volante" e che certamente fa volare l'immaginazione e trasmette un senso di storia, cultura, arte, passione ma con estro ed impeto. Il vero e proprio nome del vino, in questo caso, passa in secondo piano, anche come dimensioni di scrittura: Eremo San Quirico. Nome localizzato e localizzante, religioso, quasi sacrale. Nell'economia concettuale e grafica dell'insieme, ci può stare.
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Dove Grufolano le Aquile

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Insoglio, Syrah e Altri Vitigni, Campo di Sasso.

Un vino di "punta" per davvero questo Insoglio della Tenuta Campo di Sasso degli Antinori. Il suo nome fa riferimento infatti alla terminologia venatoria con una parola che il vocabilario Treccani riassume così: "luogo fangoso e acquitrinoso dove il cinghiale si reca a grufolare e a rotolarsi". In effige, a conferma del "racconto" che l'etichetta vuole trasmettere, vediamo infatti un cinghiale realizzato al tratto. Si tratta di un animale piuttosto aggressivo, oltre che potenzialmente grufolante, cioè alla ricerca del sua insòglio preferito. Certo che la poltiglia fangosa alla quale fa riferimento il nome di questo vino, nobilita forse l'attività venatoria nello stile di un tempo ma non trasmette sensazioni positive. Il rotolarsi nel fango del cinghiale e dei maiali in generale non è atto nobile e l'immagine non affascina. Forse la melma può creare un percorso semantico parallelo al "blend", in parole povere al miscuglio. di vitigni che compongono questo vino rosso: Syrah in prevalenza, poi Cabernet Franc, Merlot e Petit Verdot. Per il resto l'etichetta è molto spartana: una cornice racchiude i pochi elementi con uno stile sobrio, forse anche snob. Insomma la comunicazione è rimasta un po' impantanata in codici in parte stereotipati e in parte fuorvianti. Indicato con la carne di cinghiale. Mondato e frollato a dovere.

Cortese con Brio

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Allegretto, Cortese-Favorita-Chasselas, Valli Unite.

Questa etichetta è figlia di una Cooperativa Agricola di quelle "non in vista" nel mercato vitivinicolo italiano. Di quelle che al marketing antepongono la terra e la gestione "naturale" dei suoi frutti. L'etichetta in questione, per un vino bianco, è certamente "minimalista": modesta nei suoi tratti di design, genuina e semplice, sicuramente migliorabile. Il nome invece è bello così com'è, e nella sua apparente semplicità, diciamo pure giovialità, cela sfumature e potenziale emozionale interessanti. Allegretto è allegria, è convivialità, è vivacità, come giustamente affermato nel sito del produttore ("allegro e vivace, seguiamo il volo della farfalla durante un aperitivo d'estate").  Ma è anche musica. Musica per il palato. Allegretto, recita Wikipedia, è un tempo musicale "moderatemente veloce, un po' gioioso, piuttosto animato e vivo, meno veloce di allegro, fra allegro e moderato (98-109bpm)". A parte la particolarità, l'ilarità, di questa descrizione, il richiamo al mondo della musica calza a pennello per un vino che vuole essere sinfonia della tavola e armonia tra gli uomini.


Mescolare le Idee

grafica etichette branding marketingBarricoccio, Sangiovese e Ciliegiolo, Rubbia al Colle.

Siamo di fronta a un nome originale, un neologismo, come si dice in termini tecnici, che nasce dalla fusione, dal "rimescolamento", dei termini "barrique" e "coccio", parola che in Toscana significa terracotta. Togliendo dalla parola francese (barrique) il francesismo (que) e aggiungendo una parola autoctona (coccio) si arriva a Barricoccio. Tra l'altro si tratta di un nome che vale per due, visto che definisce l'invenzione di una botte in argilla cotta a forma di barrique e naturalmente anche il vino che in essa viene posto ad invecchiare. L'operazione quindi è multiforme: strutturale (funzione enologica in cantina) ma anche di marketing (farsi notare con un nome insolito, coerente con tutto il discorso produttivo che si cela dietro al processo stesso). Raramente si assiste, nel panorama vitivinicolo italiano, a operazioni "complesse", forse anche coraggiose, come questa.
Bella trovata quindi, per molte ragioni: pone l'attenzione sulla modalità di produzione del vino, giustificandola con argomenti qualiativi e finalizza la comunicazione rendendo protagonista il nome stesso della "pensata", direttamente sull'etichetta del prodotto. Di per sé, tra l'altro, "Barricoccio" è un nome simpatico, un po' "gargantuesco", rappresentativo di una certa "parlata" toscana (l'azienda è nel livornese), foneticamente armonico, intelleggibile anche all'estero, memorabile. Anche l'etichetta è apprezzabile dal punto di vista della grafica, della cromìa, dell'impaginazione. Un ottimo lavoro da parte del gruppo Arcipelago Muratori, proprietario della tenuta.

Al di Là del Bere e del Male

etichette grafica lettering storytellingMalidea, Nebbiolo e Barbera, Cantina Iuli (forse).

Non è una malvagia idea quella di mettere insieme l'austerità del Nebbiolo con la nervosità del Barbera. Oltre a questo, poi (prima o poi) serve assegnare un nome al "prodotto". Il nome in questo caso è "Malidea". Il produttore nel sito internet aziendale dice che Malidea è "una collina che sta tra la cantina e le vigne di Nebbiolo". Sta anche il fatto che Malidea si compone, come struttura letterale, di Male e Idea. Difficile trovarci altro, forse che sia "Ma, l'idea?". E ci potrebbe stare visto che ce lo chiediamo anche noi: ma l'idea qual è?
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A livello di percezione, insomma, Malidea suona male, non tanto come fonetica, breve, rotonda, quanto per le sensazione che può "portare". L'idea era buona, quella del vino, ma... l'idea, qualla del nome, no. Le etichette sono moderne, "antagoniste", insolite, impattanti, graficamente originali e distinguibili nella massa del "solito". Ma c'è un ma anche qui: sopra al nome del vino si legge (non tanto bene, ma si legge) "Iuli". Il cognome, a quanto pare, del proprietario. Ma nel sito si legge anche che il produttore risulta essere la "Cantina Viticoltori del Monferrato", una cooperativa, sembra. Insomma, madre certa ma paternità confusa. Tante buone intenzioni per questi vini alessandrini, ma brand image e naming da rivedere.

Zero al Quoto

Cobue O, Chardonnay, Cobue (LG).

Se ne vedono di nomi e di etichette in giro. Ma questa è una storia emblematica, un esempio da portare, principalmente per le negatività che l'azienda produttrice è riuscita a "collezionare" in così poco spazio. Cerchiamo di andare con ordine: Cobue è il marchio aziendale (la proprietà è della Famiglia Castoldi) nome originato dalla località dove si trova la sede, cioè Cobue Sopra, comune di Pozzolengo, in provincia di Brescia. La sigla posta sopra al primo "Cobue" in etichetta, FG, fa riferimento a una dei titolari, Laura Gettuli (come riportato in modalità firma alla base dell'etichetta). Cobue O (che sarebbe Cobue "zero") è il nome del prodotto in questione, una bollicina da Chardonnay in purezza. In sostanza, scrivendo due volte più o meno con la medesima enfasi (grandezza) la parola "Cobue" in etichetta, si genera confusione tra nome azienda e nome del vino. Inoltre lo "zero" che compone il nome del prodotto "Cobue O" può sembrare una "o" lettera, infatti si rende necessario scrivere sotto "dosaggio zero". Infine si genera confusione anche per quanto riguarda il logo che riporta LG e Cobue senza una scelta diretta e definitiva. Per il resto, il design, la grafica, il visual, non c'è male. Ma la gestione dei testi, dei nomi quindi, in etichetta e quindi per la comunicazione in generale, appare deficitaria.

L'Essenziale è "Invisibile" agli Occhi

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Marche Rosso, Cavalieri.

La modalità è semplice, in apparenza. Così Cavalieri, l'azienda, sigla i vini con il proprio cognome. Ma anche, nel caso del Verdicchio di Matelica, con il nome Gegè. Due strade di comunicazione completamente diverse che non hanno senso all'interno di un'unica gamma. Ma vediamo il dettaglio delle etichette dal punto di vista della grafica: essenziali. A dir poco. E infatti "dicono" poco. In quel grande (ma non per questo necessariamente occupabile in lungo e in largo) spazio quadrato dedicato all'etichetta, vengono distribuiti parole e caratteri di stampa senza un perché e soprattutto senza un domani. In particolare il "logo" (chiamiamo così la "scritta" con la quale viene evidenziato il nome aziendale) risulta di concezione (e grafica) di vecchio stampo, in tutti i sensi. Ma più che altro non collima, non si amalgama, non funziona agli occhi.
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Sono etichette che gli addetti ai lavori definiscono "del tipografo", senza nulla togliere a quella artigianale e splendida mansione ora pensionata dai PC. Ci sono anche le note positive, ci mancherebbe: in particolare l'etichetta rossa, offre almeno un "effetto macchia di colore" che attrae, in quanto di cromìa intensa e tutto sommato non troppo inflazionata. E poi il nome "Gegè", certo troppo "confidenziale", gigione e giocoso, ma sicuramente simpatico e caratterizzante (penalizzato, ibidem, da una scelta del carattere di stampa discutibile).

Alla Salute!

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La Malora, Langhe Nebbiolo, Terredavino.

In alcuni film datati si trovano ancora scene in cui qualche avventore rubizzo grida "Oste della malora!" al gestore della taverna colpevole di aver portato vino cattivo o andato a male. Si tratta di una locuzione antica, in disuso, ma ancora ben presente nel tessuto sociale e nei dizionari. La Treccani a proposito della parola "malora" scrive: "Perdizione, rovina, in ora non buona, non fausta, disgraziata". In modo molto pratico: quando qualcosa di commestibile è "andato a male" si diceva (e probabilmente si dice ancora) "è andato in malora". Insomma non si spiega, dal punto di vista culturale, semantico, fonetico, sociale, pratico e via dicendo, che un produttore di grande rilievo (per alcuni vini di punta, dal nome molto bello come ad esempio "La Luna e i Falò") abbia deciso di chiamare un vino della propria produzione "La Malora".
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Non si spiega neppure nel presunto tentativo di fare qualcosa di attenzionale, azzardato, coraggioso. Il significato, nemmeno troppo recondito, della Malora è... la malora! Non si scappa. Non confondiamo  l'azzardo con le cadute di stile e soprattutto con potenziali errori di "posizionamento del significato": hai voglia poi a recuperare terreno con il marketing e il posizionamento di prodotto. Basterebbe chiedere a 100 persone a caso se porterebbero a cena a casa di amici un vino che si chiama "La Malora", 95 di loro probabilmente non lo farebbero nemmeno se è molto buono (e lo sarà senz'altro), nemmeno se è molto conveniente (neanche troppo), forse nemmeno se è regalato. Per quanto riguarda la possibilità di metterlo sulla propria tavola, forse incollandoci sopra un nastro adesivo a coprire il nome, giusto per non avere dissonanze quando, al levare dei calici, si reciterà il consueto e benaugurante "alla salute!".

Concetto Perfetto in Verbo Ignoto

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L'etichetta di questo Negramaro del Salento, a titolo del produttore Valle dell'Asso, graficamente si presenta con canoni classici e tutto sommato gradevoli. La scelta, abbastanza insolita nel mondo del packaging per il vino, di caratterizzare il nucleo dell'etichetta con un colore azzurro intenso, quasi blu, risulta originale, attenzionale e fors'anche elegante. Il riferimento alla Grecia Antica, oltre alla illustrazione di una moneta posizionata sopra al nome, è delegato principalmente a quest'ultimo: "Piromàfo". Strana parola, poco conosciuta, di accentazione difficoltosa, che il produttore giustifica così nel proprio sito internet: "Parola di origine greca che letteralmente significa 'combattente il fuoco', Localmente questo termine viene utilizzato per indicare un terreno resistente alla siccità". Ed ecco quindi la "razionalizzazione": la scelta di questo strano nome trova corrispondenza in una caratteristica "fisica" del territorio. Il concept è salvo. La cultura e la viticoltura anche. Un po' meno la leggibilità e quindi la memorabilità del nome. Ma non si può avere tutto da un'etichetta. O forse sì?

Acqua di Colonia e Vino Rancido

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Colonia e Rancia, Chianti Classico Riserva, Fèlsina.

Una pregiata azienda vitivinicola toscana, nota in tutto il mondo per il Chianti Classico che produce, ha deciso di chiamare (e di continuare a farlo nel corso di anni di storica attività) due dei propri items "Colonia" e "Rancia". Non stiamo a valutare ragioni territoriali e tradizionali, qui vogliamo valutare l'impatto semantico presso un pubblico ipotetico che non conosce ancora i vini di questo produttore. Colonia ricorda l'acqua, ormai trade mark, che prende origine commerciale dall'omonima città tedesca. Sfidiamo chiunque, udendo verbalizzare o leggendo (Acqua di) Colonia a non sentire automaticamente, per riflesso sinapsico, il caratteristico profumo.
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Anche il nome "Rancia" può risultare un azzardo ove, superato il riferimento dall'Arancia, aroma anch'esso molto pregnante, la mente si dirige verso "rancio" (il pasto dei militari) e peggio ancora verso l'aggettivo "rancido" che per il cibo e il vino non è certo un complimento. Sull'opportunità di adottare nomi della tradizione con evidenti significati "terzi" abbiamo già discettato molte volte in questo blog: i pareri possono essere pro e contro, ma la semantica è come la matematica. E se i conti non tornano qualche addendo è stato computato male.

Il Piacere del Vino è Senza Tempo

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Godimondo, Cabernet Franc, La Montecchia.

Le etichette di questo produttore che ha sede nella provincia di Padova sono definibili come arcaico-classiche: cavalieri e stemmi di una storia secolare. Sono molto colorate, piacevoli, nonostante il "velo di polvere" che avvolge le loro cornici dorate. Una in particolare ha attirato la nostra attenzione, soprattutto per il nome del vino: "Godimondo". Già simpatico e "godibile" indipendentemente dal significato, dalla sua origine storica, accennata nel sito del produttore e qui riportata: "Godimondo è il leggendario pseudonimo di Sigismondo Capodilista, tipica figura di Signore Rinascimentale che sapeva godere la vita...".
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Il vino, certamente, insieme al cibo, è uno dei massimi piaceri della vita. L'Italia ben rappresenta entrambi in ogni regione e situazione e il "nostro" Sigismondo lo sapeva bene. Nasce così, per questo Cabernet Franca, un nome che è tutto un programma ed una filosofia al tempo stesso: non c'è bisogno di spiegarlo, Godimondo. E così dovrebbero essere tutti i nomi "giusti" per i vini. Esprimere con intensità, linearità, ma anche con intelligenza e quindi un pizzico di ironia, i diversi mondi che sono chiamati a comunicare.

La Serialità è una Cosa Seria

branding storytelling lettering grafica etichettePrimotempo, Colli Perigini Bianco, Sasso dei Lupi.

C'è un filo di ironia nella serie di nomi che questa azienda umbra ha promosso per identificare la propria linea di vini del "Territorio". C'è un filo che lega i 7 vini anche semanticamente, se non concettualmente, rendendoli una "famiglia unica". Tutto ciò serve a facilitare l'orientamento da parte dei consumatori, semplificando l'individuazione e la memorizzazione dei prodotti. Ma veniamo ai nomi. Si parte con un calcistico (e per questo un po' troppo nazional-popolare) Primotempo e si prosegue lungo un percorso il cui schema è facilmente identificabile con: Secondoatto (Colli Perugini Rosso), Terzastrada (Grechetto), Quartanota (Pinot Grigio), Quintotema (Merlot),  lo chardonnay Sestavia (e perché non Sestosenso?) per finire con "L'intruso" (Cabernet Sauvignon) che fa da "special guest", anzi da guastatore della dinamica "ascensionale" qui esposta, la qual cosa va bene perché incuriosisce ulteriormente gli astanti. 
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La grafica delle etichette, sia pure differenziandosi cromaticamente, risulta molto simile le une con le altre. Risultano quindi poco  distinguibili all'atto di una scelta veloce. Solo il nome mette in evidenza la peculiarità dei diversi vini, ma quest'ultimo è scritto molto piccolo: poteva essere posto in maggiore evidenza, proprio perché protagonista assoluto di questa originale "scalata" numeral-letterale. Il logo aziendale invece si merita un "no comment".

Se il Dialetto è un Diletto, non è un Delitto

marketing etichette brandingAur-Oura, Dolcetto, Rocco di Carpeneto.

Questo dinamico e biologico (ma non biodinamico) produttore dell'Alto Monferrato ha creato con coerenza semantica la linea dei propri vini seguendo una strada molto regionale e quindi dialettale. Sono scelte difficili da condividere, ma se portate avanti con convinzione e coerenza possono costituire un buon viatico. Vediamo in dettaglio i nomi dei vini: Aur-Oura, è il più equivoco del gruppo perché potrebbe ricordare l'aurora in lingua italiana, mentre in realtà nel dialetto locale significa "or ora". Poi abbiamo Losna, Ovada Docg, che significa "il lampo del fulmine", quindi Steira, sempre Ovada Docg, che significa "stella", poi Erche, Ovada Riserva, che significa "arcobaleno", quindi Rapp, una Barbera, che significa "grappolo" e infine Ròo, vitigno Cortese, che significa "alone della luna". Una bella carrellata di significati, poetici ed evocativi, che però sono preclusi a molti, se non fosse che la curiosità può spingere a collegarsi al sito aziendale per capire meglio cosa si cela dietro al vernacolo monferrino (http://roccodicarpeneto.it/wine). Le etichette, tutte molto simili, forse troppo (non consentono una giusta e logica distinzione tre le proposte in gamma), si presentano con un design lineare, diretto, moderno, forzatamente austero. Molto "riusciti" gli insoliti e intriganti nome e slogan adottati per l'agriturismo annesso alla tenuta: "La Bella Vite. Camere con Vigna".

Il Diavolo, il Vino e l'Acquasanta

naming brand brandign comunicazione marketingRosso di Baal, Vitigni Vari, Casa di Baal.

packaging branding immagine comunicazioneL'azienda qui presa in esame, sita nella provincia di Salerno, ha deciso di giocare molta della propria immagine sulla parola "Baal". Infatti il nome aziendale è "Casa di Baal" e i vini si chiamano Rosso di Baal, Bianco di Baal, Fiano di Baal, etc. La ragione di questo nome viene spiegata nel sito e fa riferimento e omaggio al fondatore, di nome Annibale. Quindi Baal come contrazione, probabilmente dialettale, di Annibale. L'elefantino nel logo è invece riferito all'Annibale condottiero e conquistatore che la storia antica ci ha tramandato. Con brevi e facili ricerche in rete, si trova che Baal è anche il nome del Demonio, spesso utilizzato nelle trame di film, nei racconti, nei videogiochi. O comunque di qualche varia entità spaventosa e terrorizzante. Il vero Baal (o Bael) della storia è di fatto una divinità fenicia, Crono per i greci e Saturno per i Romani. Ma in sostanza il nome Baal viene ricondotto, dal luogo comune, a una entità degli inferi, non propriamente luminosa e tranquillizzante. Resta da chiedersi se prima di decidere questi nomi, l'azienda ha condotto qualche ricerca o chiesto qualche parere sulla semantica "a rischio" alla quale andava incontro (P.S.: nel Nord Italia, tra l'altro, "foera di baal" è un invito piuttosto perentorio a levarsi dai piedi).