Vini Tellurici sulle Pendici dell’Etna

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Sisma, Terre Siciliane Igt, Monterosso.

Questo vino si chiama proprio così, “Sisma”. Si tratta di un Nerello Mascalese in purezza del produttore Monterosso (in etichetta indicato come Mt. Rosso, invece nel dominio del sito, in WordPress, risulta Monterosso Wine). L’etichetta è sicuramente originale, insolita, attenzionale. Nei colori e nella proposta grafica. Ma vediamo cosa scrivono in proposito i titolari dell’azienda vinicola (tre giovani amici): “I colori utilizzati per le etichette rappresentano il vulcano Etna: il Nero della pietra lavica, il Rosso della lava ed il Bianco della neve. Ogni etichetta si presenta con un’impostazione tecnica e con la funzione di trasmettere nozioni ed emozioni sul territorio che ospita la viticoltura estrema dell’Etna Doc”. Nero, rosso e bianco, tre colori molto “ottici”, da manuale.
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Vediamo invece, ed è l’aspetto che ci interessa di più, cosa scrivono riguardo il nome del vino: “L’epicentro di un terremoto immaginario al centro del complesso vulcanico dell’Etna, suggerisce le coordinate geografiche (latitudine e longitudine) dei crateri sommitali del vul cano attivo più alto d’Europa. Nel 2013 l’Unesco ha nominato l’Etna “Patrimonio Mondiale dell’Umanità”, definendolo uno dei vulcani “più emblematici e attivi del mondo”. E meno male che il terremoto è immaginario, aggiungiamo noi. Certo che citare il sisma in una zona sismica è davvero coraggioso, dal punto di vista scaramantico. Consideriamo pure che siamo in una regione, la Sicilia, che a queste cose, per tradizione, presta molta attenzione. Ora, immaginiamo di portare a casa di qualche amico o parente questo vino, dove la parola “Sisma” campeggia a tutta grandezza e quindi a tavola sarebbe protagonista. Se siamo ospiti di gente del sud, dove il terremoto è una minaccia costante, forse qualche considerazione in merito salterebbe fuori. In Danimarca invece no, sismicità zero. Forse questo vino è destinato più che altro all’estero, dove i vulcani sono vissuti come qualcosa di cinematografico.

Piovono Belle Parole

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 Cerasuolo d’Abruzzo, 
Vini Valori.

L’azienda prende il nome dal suo ideatore e fondatore, Luigi Valori, che nel 1996 inizia questa attività sulle Colline Teramane. Le etichette sono fortemente (e cromaticamente) caratterizzate da una serie di ombrelli in posizioni diverse, ma sostanzialmente simili. Dove sta l’intuizione? In quella piccola scritta tra la pioggia, in alto, sopra l’ombrello. Piovono lettere che compongono parole interessanti: “Chiamami quando piove”. Curioso nome, affermazione che attira l’attenzione. Ecco come la spiega il produttore nel proprio sito internet: “Del massimo rispetto per la viticoltura e l’agricoltura abbiamo fatto il nostro vessillo: Chiamami quando piove – cioè quando in vigna non si può lavorare – significa riscoprire la necessità di vivere e coltivare secondo natura, ma non rincorrendo ideali bucolici avulsi dalla realtà“, Bello, pratico, peculiare, sinergico. Questa frase diventa simbolo, oltre che nome vero e proprio, dell’azienda. Così interessante che a nostro modesto parere poteva essere “giocata” ancora meglio, con maggiore enfasi, cioè, in pratica, scrivendola più in grande, con un colore diverso, in evidenza. Piace questo stile scanzonato ma pratico, allegro, colorato ma “applicato” al territorio e alla attività di vignaiolo. Un modo di fare nomi che spiegano, indicano, valgono.

Guerrieri di Sabbia sulle Rive del Metauro

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Guerriero del Mare, Bianchello del Metauro, Azienda Agraria Guerrieri.

Dove si pone il confine tra il mare e il deserto? Su una spiaggia, sul bagnasciuga, certo. Ebbene il mare, nella sua semplicità, una linea azzurra all’orizzonte, contiene una immensità di risorse. Questa etichetta invece è deserto, dove la linea orizzontale della percezione è priva di elementi aggiuntivi, solo sabbia, monocorde. Le onde del mare sono dinamiche, le onde del deserto statiche (salvo durante episodiche tempeste di sabbia). Semplicità, linearità, orizzonti diversi. Obiettivi distanti. L’etichetta di questo Bianchello del Metauro (siamo nei dintorni di Fano, bella e storica località che poggia sull’Adriatico d’Italia) che si chiama “Guerriero del Mare”, è così elementare da sembrare bella. Proprio come un deserto. Di fatto risulta un po’ arida, statica, asciutta. Sembra uno di quei biglietti da visita superclassici di qualche notaio polveroso. O le partecipazioni alle nozze di una coppia di aristocratici ancora rinchiusi nella loro gabbia dorata. Nessun colore, nessuna emozione. Un carattere graziato, elegante sì, ma senza anima. Le “grazie” impresse dalla stampa non concedono la grazia di alcuna sensazione di bellezza vera, sincera, bensì austera. È un guerriero senza lancia, questa bottiglia. Stupisce l’annata “puntualizzata”. Quel 2017 seguito dal punto. Precisione in luogo di profusione. L’austerità sembra essere il filo conduttore di quel rapporto tra bevitore e bevante che qui non viene incoraggiata. Mentre il vino dovrebbe essere passione ed effusione. Questa è una bottiglia che indossa una camicia bianca. Ma ha tutto l’aspetto di una camicia di forza.

Vino Puro, Etichette Pure

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Primo, Frascati Superiore, Merumalia.

Ci sono etichette che difficilmente si spiegano. Inteso nel doppio senso della frase: non trovano giustificazione e non riescono a comunicare efficacemente. Questo packaging, relativo a un Frascati Superiore (Malvasia del Lazio, Greco e Bombino) dell’azienda Merumalia è un valido esempio (in negativo, per quanto riguarda le potenzialità di comunicazione). Si tratta di un’etichetta “neutra”, lineare, semplicistica, priva di stimoli ed emotività. Unica concessione a qualcosa di descrittivo, sia pure per immagini, l’accenno illustrato e rastremato di colline vitate, in basso, poco visibile, sotto alla scritta “Vino Biologico”, immagine eseguita con leggeri tratti dorati. Dove, per altro, campeggia una piramide che sembra quella posta nel cortile di ingresso del Louvre a Parigi. Per i restanti elementi che compongono il packaging-design le scelte grafiche sono state così facili che crediamo abbiamo occupato una mezz’ora di tempo a chi le ha create (questo, se vogliamo è un plus: più tempo da dedicare alla vigna, se il creatore è stato il titolare.
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Se invece il colpevole è stato un designer di “mestiere”, forse sarebbe meglio operare una presa di coscienza). Andiamo avanti: ci sono nomi che difficilmente si spiegano. Non solo il “Primo” di questa etichetta (molto semplice nel suo significato, poco distintivo) ma anche, ad esempio, quel “8nese” (curiosità: il vitigno si chiama “Ottonese”, cioè un Bombino, ma perché non scriverlo per intero?). Si salvano in corner “Vetus”, “Canto” e “Terso”. E per quanto riguarda il nome aziendale si può felicemente registrare una interessante commistione: “Merum”, vino puro e “Alia”, Dea del mare. Per tutto il resto c’è Master Card!

Quando il Packaging è un Dosso

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Dosso del Cuculo, Rosso di Valtellina, Azienda Agricola Pietro Selva.

Si poteva fare meglio. Sì, decisamente. Non è una critica fine a se stessa, no. Prendiamo in esame questa etichetta di un piccolo produttore valtellinese affinché possa essere anch’essa d’esempio, così come lo sono quelle più virtuose. Certo, gli elementi di questa analisi sono quasi tutti negativi. Ma anche questo serve per capire meglio le logiche del packaging. Partiamo dall’unico aspetto positivo: quell’uccellino in alto a destra, simbolo di ambiente naturale, di ruralità, di ecologia, descritto, sia pure con caratteri molto piccoli, con il suo nome in latino: Clamator Glandarius. Praticamente il Cuculo. Il nome del vino lo conferma: “Dosso del Cuculo”. Sicuramente è meglio il nome scientifico di quello “volgare”. Salvo avere l’occasione di ricordare quel bellissimo film con protagonista Jack Nicholson che viene annoverato al titolo di “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (in gergo americano, il manicomio). Vediamo qualche particolare dell’etichetta: il carattere con il quale è scritto il nome del vino è anacronistico, diciamo “datato”, oltre che poco leggibile; in totale, i caratteri di stampa, presenti tutti insieme, tutti diversi, nel medesimo fronte-etichetta, sono almeno 5, forse 6: non si dovrebbe fare; l’impaginazione dei testi è un po’ a bandiera sinistra, un po’ centrata, senza una logica; il tassello verde scuro che si staglia su tutto il resto e che contiene il riferimento alla tipologia di vino (Rosso di Valtellina) risulta troppo invadente e anch’esso senza un nesso, cromantico o altro (se non essere dello stesso colore del simbolo del vetro riciclabile alla base, ma anche questo particolare non è determinante). Nel complesso si tratta di una etichetta che avrebbe bisogno di un sostanziale rifacimento. L’azienda, individuale, che risponde al giovane Pietro Selva (che ha registrato il nome aziendale come “Selva Pietro” e non sarebbe corretto) è nata nel 2010. Avrà tempo per introdurre le giuste migliorie strada facendo.

Un Vermentino in Multicolor

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Giallo Paglia, Vermentino, il Drago e la Fornace.

Questo design ha ricevuto il premio “Etichetta dell’Anno 2017” del 21mo Concorso Internazionale Packaging di Vinitaly. Vediamo se, come e perché. Ecco la motivazione: “...la giuria presieduta dalla direttrice di Interni Gilda Bojardi ha premiato il design dell’etichetta del Vermentino Giallo Paglia per la sensibilità nel combinare, in modo nuovo ed efficace, creatività e rispetto per la tradizione”. E vediamo quindi le motivazioni di chi l’ha creata, Valentina Cresti di Archirivolto Design: “...volevo ottenere un’etichetta riconoscibile in mezzo ad altre mille, mettere un accento sulla freschezza sensoriale del prodotto: ecco quindi che delle gocce lucide irregolari, a ricordare le gocce di vino, prendono i colori dei fiori e dei frutti tropicali percepiti nella degustazione, intervallati dall’oro del sole che bagna la maremma toscana, da cui proviene questo vino”. Arrivando infine ai nostri commenti: il nome del vino non è originalissimo ma fornisce in ogni caso una connotazione. Il colore giallo-paglia attiene al vino, è linguaggio comprensibile e cita un elemento della natura che porta verso un mondo campestre. Qualche problema di leggibilità, in etichetta, per la parola “giallo”. I pallini colorati che puntinano e caratterizzano questo packaging sono piuttosto allegorici, ricordano i coriandoli, certo sono molto particolari, escono dalla tradizione, donano allegria, tolgono classicità, parlano di arte moderna, rinnegano una ruralità che, se totalmente inesistente, smarca in modo troppo evidente il prodotto dalla paternità toscana. Nel complesso un ottimo esperimento di grafica. Chi osa vince. Quasi sempre.

Numerologia Portami Via

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60 20 20, Igp Veneto Rosso, Zyme.

Questa etichetta di una nota e premiata azienda dei Colli Berici gioca sui toni del rosso. Questo è evidente. Cromatismo legato al contenuto. Facile da interpretare. Tanto più che nel proprio sito internet il produttore esplicita che “Lʼetichetta è giocata su linee decise e i toni forti del rosso che ben rappresentano il carattere dei vitigni Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc e Merlot. I numeri 60 20 20 esprimono le percentuali dei vitigni che compongono questo vino. Rappresenta il dono della vita”. Il nome del vino è, quindi, un numero. Anzi tre. Da giocare la lotto se non fosse che il “20” è ripetuto. Ma si può sempre tentare un ambo. Magari su Napoli, porta sempre buono. La ragione del nome sono le percentuali dei tre vitigni che compongono il vino. Espediente già visto molte volte. Certo serve a spiegare meglio il vino stesso, ma risulta poco memorabile, vago, dispersivo. Vieppiù che nell’economia grafica dell’etichetta i tre numeri in questione sono espressi in modo molto ridotto, in un angolino. Alla base di tutto quel rosso artistico (del quale parliamo a breve) sta la spiegazione: quindi i tre vitigni “per il lungo”. Bene ma non benissimo, direbbe un refrain noioso che circola sui social. Vediamo quindi l’illustrazione: una foglia, un occhio, un decoro, delle curvature: arte. E l’arte, anche quella contemporanea, non si discute. In quanto soggettiva. Questa in particolare colpisce l’attezione. Rapisce nello scaffale. Però manca qualcosa: un concetto (che vada al di là del “rosso per rosso”), un nome vero, uno statement. Rimane la firma, prestigiosa, alla base, che si è fatta largo per la qualità dei propri vini. 

Asini, Somari e Ciuchi, in Valle Asinari

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Ciuchino, Barbera del Monferrato, Cascina Valle Asinari.

Questo vino, commercializzato in esclusiva da Eataly, si chiama “Ciuchino”. Il simbolo dell’azienda sono un paio di asinelli simpatici che appaiono anche in un altro packaging, quello della Barbera d’Asti, top di gamma della casa. Notare che il produttore si chiama Cascina Valle Asinari (quindi i riferimenti al gioviale equino da soma sono molteplici, anche se “Asinari” risulta essere un cognome storico di una casata del 1300). Come tutti sanno, ciuco o ciuchino sono termini alternativi ad “asino” (ciuco è in uso soprattutto in Toscana). Ma sono anche riferibili a qualcuno che si è ubriacato, che è uscito dai binari dell’autocontrollo. Essere “ciucchi” (o “ciuchi) significa aver esagerato con il vino o in generale con l’alcol. La parola dilettale, ancora di più, diciamo pure gergale, è in uso soprattutto nel nord-Italia, e di fatto il produttore di cui stiamo parlando si trova in Piemonte. Il vino infatti è una Barbera coltivata nell’Alto Monferrato, località San Marzano Oliveto. Chissà se il “bisticcio” semantico è voluto, se la provocazione è un atto volontario: “ciuchino” l’asino, ciucco il bevitore di vino, somaro chi esagera nello stappare bottiglie e versare calici.
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In un certo senso il cerchio si chiude. Ma veniamo all’etichetta: pulita, simpatica, moderna, lineare, con un piglio comunicativo di nuova concezione che presenta una soluzione grafica che si fa notare: quella sovrapposizione delle scritte con “invasioni di colore” (tra l’annata, in questo caso 2016, e il nome del vino). Una originalità che non risulta determinante, tanto attiene al mondo dei particolari, ma denota cura e attenzione nella realizzazione del design. Il ché nella realizzazione di etichette per il vino non guasta mai: “Dio è nei particolari”, diceva qualche svitato filosofo tedesco. 

Il Rosato Metallaro Molto Amato in Norvegia

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Senza Compromesso, Rosato Piemonte, Wongraven (Luca Roagna).

Strana coalizione quella tra Luca Roagna (dell’omonima nota famiglia che produce vini eccelsi nelle Langhe) e il leader del gruppo black metal norvegese Sigurd Wongraven (il gruppo, per chi volesse cimentarsi in un ascolto dedicato si chiama Satyricon). Dopo i primi due vini con questa “etichetta”, un Barolo chiamato “Unione Nero” e un Langhe Rosso chiamato “Alleanza”, ecco il Rosato (100% da Nebbiolo) che si chiama “Senza Compromesso”. Le stranezze sono almeno due: il nome (cognome) norvegese in alto, a tutta grandezza, e la foto, nemmeno molto bella, di un casotto di campagna al centro. Il nome del vino, in basso, sotto le diciture burocratiche, “Senza Compromesso”, se vogliamo è il fattore più normale, e anche molto sfruttato, di questa proposta enologica. Sfruttato sia come semantica, sia come concetto. Non accettare compromessi nella produzione del vino (e nella gestione commerciale, è anche questo il caso dell’azienda qui recensita) dà valore in quanto enfatizza la “genuinità della verità”. In particolare si ha l’impressone che il concetto di non cedere a compromessi è stato applicato anche al design dell’etichetta, molto semplice, al limite del semplicistico. Nella sua normalità rimane nei binari di un elaborato accettabile, ma senza squilli di tromba (strumento, del resto, che probabilmente la band metal norvegese non contempla nelle proprie composizioni).

Teste di Grappolo Senza Arte né Parte

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Cerasuolo d’Abruzzo, Bossanova.

Possiamo definirle “strane” queste etichette? Particolari? Originali? Qual è l’idea di fondo che ha animato la creatività? Si tratta di sagome di animali di fattoria che al posto del muso hanno un grappolo d’uva. Come minimo possiamo considerarlo bizzarro. Questo è importante: attira l’attenzione? Sì. Poi, in fin dei conti, stranisce. Non convince fino in fondo. Ma andiamo con ordine e scopriamo che questa azienda vinicola si chiama “Bossanova”. Ecco la definizione di Treccani: “...dal portoghese bossa nova, da intendere nel significato di ‘tendenza nuova’. Ballo moderno di origine brasiliana, messo in voga intorno al 1960, sviluppatosi dal samba e caratterizzato da elementi armonici di derivazione jazzistica”. Nuove tendenze, quindi. Giovani imprenditori, in effetti, provenienti da altri settori, dalla moda luxury e dal marketing. Con l’intento di cambiare registro e iniziare a fare vino. L’azienda si trova a Controguerra in provincia di Teramo, in quell’Abruzzo che per i vino è ancora una regione-Cenerentola.
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E infatti il vino che abbiamo chiamato a rappresentarla è un Cerasuolo d’Abruzzo, laddove i cerasuoli più noti vengono da altre regioni (Vittoria, Sicilia, varie topologie in Puglia, qualcosa nel Lazio). In particolare in questa etichetta vediamo un coniglio dal muso a grappolo (di uve Montepulciano d’Abruzzo). Mentre nelle altre due che compongono la produzione dell’azienda vediamo un gallo e un’oca, sempre con il muso, diciamo così, coperto da acini copiosi. La grafica nel complesso è moderna, pulita, semplice. Da notare il carattere di scrittura del logo/nome dell’azienda in stile Star Trek.

Mistero Maestoso con Mantello

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Sire Nero, Syrah, Rapitalà (G.I.V.).

Questo “Sire Nero” in realtà è molto vivace: un arancione “ottico”, bordato d’oro rilucente, domina il packaging-design. Il nome comunque influisce. E dice “nero”. La figura sopra al nome conferma ed è eloquente: un misterioso e oscuro figuro mantellato (e coronato). Troviamo un breve rational di tutto ciò in etichetta, nella parte bassa. Una frase che viene riportata anche nella pagina dedicata a questo vino, nel sito dell’azienda produttrice (che fa parte del Gruppo Italiano Vini): “Dice la leggenda che dal sole di Sicilia nacque un re maestoso, che per distinguersi da suo padre indossò un mantello nero. Ancora oggi, lo chiamano Sire Nero”. Noi abbiamo scritto “misterioso”, loro lo definiscono “maestoso”. Questione di poche lettere ma la differenza è notevole. Insomma questo Sire Nero adombra, incupisce, fa un po’ da spauracchio. Il mistero si fa nero, giusto per rincarare la dose. A latere rimane il dubbio che “sire” sia stato evocato dal nome del vitigno, l’esotico Syrah. E comunque il tutto viene sdoganato con l’abbondanza di quell’arancione solare e vivido. Ma il mantello oscuro rimane e il nome da “uomo nero” pure. Paga un compensativo riscatto il nome del produttore, quel “Rapitalà” davvero teatrale, immaginifico, sognante, leggendario. L’etichetta in generale è ben studiata, equilibrata negli elementi di comunicazione, attenzionale a scaffale, curata nei dettagli.

Cognomi Nobili ed Evitabili

Erminia Segalla, Chardonnay, Pisoni.

Questa azienda trentina, nota per la produzione di grappe, si distingue anche nelle bollicine “di montagna”. La qualità dei vini è elevata, non tanto quella del packaging-design. Veniamo quindi ad analizzare la veste del top di gamma, uno spumante da Chardonnay in purezza, che rimane sui lieviti per ben 80 mesi (da notare, in cantine scavate nella roccia). Il nome del vino è un omaggio alla sposa (nel 1927) di uno dei fratelli della Famiglia Pisoni che dopo la prima guerra mondiale ho preso in mano le redini dell’azienda. Tale Erminia Segalla. È necessario dire subito che l’omaggio a una persona di famiglia è ammirevole, ma in questo caso, in particolare il cognome di questa donna, non è molto presentabile in termini semantici e di percezione verbale. Insomma, “Segalla” non conduce a qualcosa di suadente e significativo, bensì ad affinità con parole gergali che nulla hanno di entusiasmante, anzi. Il design dell’etichetta, sia pure molto lineare, semplice, pulito, non porta emozioni. Uno sfondo “puntinato” fa da base per le scritte in etichetta. Sull’apice dell’elaborato grafico troviamo un busto di donna in una dinamica da bollo in ceralacca, mentre sul collo della bottiglia troviamo un altro “bollino” dalle fattezze misteriose. Non un gran etichetta, quindi, in termini di eleganza ed espressività. Eppure si muove (la bollicina vende e piace).