Poliedricità Cromatica e Concettuale

Three (3) Girls, Chardonnay, Oakridge Winery.

Tra le etichette “allegre e colorate” è impossibile non annoverare questa, realizzata per un vino australiano della Yarra Valley. Ma vediamo di mettere insieme una analisi più dettagliata rispetto a una visione allegorica e superficiale. Il vino si chiama “Three (3) Girls”, nome confermato da una illustrazione molto originale che raffigura tre ragazze. Le tre protagoniste si presentano con caratteri e abbigliamenti diversi, sia pure molto colorati. Una è mora, una è bionda e una è rossa (relativamente ai capelli). I cappelli che indossano sono tutti della stessa forma ma di colori diversi, così come le camicette, molto fantasiose. Anche gli occhiali da sole delle tre ragazze hanno design diversi. In generale la grafica è molto impattante: lo sfondo dell’etichetta a pois e il carattere di scrittura del nome completano l’opera. Non abbiamo trovato traccia di un rational, cioè di una spiegazione del nome e del concetto che si voleva esprimere per cui avanziamo l’ipotesi che il produttore abbia voluto indicare la duttilità di questo vino nell’adattarsi a situazioni e portate diverse. Di certo si tratta di una soluzione in grado di attirare l’attenzione allo scaffale e di portare conseguentemente in tavola un po’ di vivace spensieratezza.

Scarafone, Scarrafoni o Scaraffone?

Scarafone, Sangiovese e Cabernet, 
Az. Agr. Palmoletino.

Leggendo il nome di questo vino toscano viene subito in mente un proverbio partenopeo: “Ogni scarrafone è bello a mamma sua”. Laddove scarrafone (o scarafone con una sola “r”) sarebbe lo scarafaggio. Non sappiamo cosa abbia spinto questo produttore a chiamare questo vino rosso col nome di uno dei più odiati insetti al mondo. Possiamo solo tentare una timida difesa ipotizzando (visto che siamo in provincia di Grosseto, a Cinigiano) che “Scarafone” possa essere riferito alla “caraffa”, cioè all’atto di “scaraffare” il vino. Sia pure accettando questa seconda ipotesi ci si deve necessariamente arrampicare sui vetri per ovviare alla prima impressione descritta in partenza. Del resto l’etichetta non si distingue per altri elementi che potrebbero distrarre dal problema semantico. Vediamo l’illustrazione al tratto di una cascina e alla base un tassello con la denominazione (Montecucco Rosso Doc). Unica concessione alla fantasia la lunga “f” decorativa sulla sommità della quale vediamo poggiato un picchio dorato. Etichetta semplice, classica, arcaica che riesce a farsi notare, purtroppo, solo grazie a un nome che lascia qualche perplessità. Quanto meno riuscirà, nel bene e nel male, a farsi ricordare.

Dal Reno, un Vino Puritano

Eins Zwei Zero, Linea Vini in Lattina, Leitz.

Sull’opportunità filosofica di creare vini senza alcol si potrebbe discutere a lungo. Sull’opportunità commerciale anche. Qui lo faremo in breve, come sempre, per non annoiare la platea. Produrre vini senza alcol è un po’ come fare dolci senza burro e uova. O se vogliamo anche come mangiare la pasta “in bianco”. Certamente c’è un pubblico, insomma una platea di acquirenti, anche per questi anfratti (punitivi) della vita. L’azienda “Leitz” (il logo è una grande “L” stilizzata) è tedesca e opera nella zona vinicola del Reno con un’ampia gamma di vini, compresa una linea in lattina che porta il nome “Eins Zwei Zero”. Traducendo dal tedesco “Uno Due Zero”. Una specie di gioco di parole dove pur aspettandoci il numero tre (dopo uno e due) ci troviamo invece uno zero a rappresentare la totale assenza di alcol della bevanda. Sotto alla scritta del nome, realizzata con un carattere che simula la scrittura a mano, vediamo l’ovale di un grande “0” (zero) in colore bianco. Alla base dell’etichetta il nome del vitigno e la precisazione sulla tipologia di prodotto, a scanso di equivoci (“alcohol free”). Il packaging si presenta bene, con originalità e gusto, fatto salvo per i colori pastello (in questi due esempi, azzurrino e rosellino) che possono far pensare a un pubblico prevalentemente femminile (uomini disposti ad ammettere il proprio consumo di vino senza alcol crediamo ce ne possano essere pochi in giro). Prodotto di successo? Lo dirà il mercato.

Il Lambrusco Giusto per Raggiungere il Settimo Cielo

Settimocielo, Rosé Metodo Classico, 
Cantina Settecani.

Abbiamo qui un valido esempio di come i nomi possano fornire “risultati” diversi. Nel bene e nel male. Partiamo dal nome della cantina che si chiama “Settecani”. Già non parte bene, non suona in modo positivo, non è suadente. Scopriamo quindi l’origine e il significato di questo nome direttamente dal sito del produttore: “Il nome della nostra cantina deriva dalla località Settecani, frazione di Castelvetro di Modena, cuore del territorio di produzione del Lambrusco Grasparossa. Il toponimo risale addirittura al XII secolo e una leggenda ne racconta le origini. Si narra che un giorno sette uomini intenti al lavoro si siano lasciati andare a esclamazioni blasfeme di fronte al passaggio di una processione religiosa. La punizione divina per questo comportamento fu quella di essere trasformati in cani. A ricordare questa leggenda, sull’antica facciata della cantina sono scolpiti i musi di sette cagnolini”. Che a simbolo (marchio) dell’azienda venga eletto un episodio certamente non virtuoso, tutto sommato volgare, da violenza verbale, lascia un po’ perplessi. In compensazione troviamo su questa bottiglia uno dei nomi (del vino) più belli tra quelli pubblicati in questa raccolta: “Settimocielo”, scritto così, in parola unica, ma inerente all’affermazione “essere al settimo cielo”, cioè essere allegri, contenti, gioiosi. L’origine di questa espressione viene ricondotta alla visione dantesca: secondo il sistema cosmologico aristotelico-tolemaico la Terra, al centro dell’universo, è circondata da 9 cieli cioè dai primi sette, Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e quindi dall’ottavo (il resto di tutte le stelle), dal nono (cielo cristallino senza stelle) e infine dal decimo dove alberga Dio. Di questi 10 cieli solo i primi 7 risultavano accessibili all’uomo, ecco perché il settimo rappresenta il più alto livello di raggiungimento della gioia celeste. Bella anche la grafica dell’etichetta, molto semplice ma elegante, con il nome del vino sovrastato da un firmamento planetario e null’altro se non le diciture relative alla tipologia di prodotto.

Le Nano-Bottiglie che Fanno Bere Meno (Forse)

Quanto Basta, Chardonnay e Sangiovese, Cantine Riunite.

Siamo in ambito mass-market, cioè sugli scaffali della Gdo dove si fanno i volumi di vendita più alti. Favoriti anche dal prezzo molto basso. Pur sempre vino, come recitano le etichette. Il packaging potrebbe essere definito “spartano”. Colori di base, forme non particolarmente studiate, testi di grandi dimensioni a partire dal nome del vino “Quanto Basta”. Il nome logicamente allude al formato: piccole bottiglie da 250ml. Si vuole quindi comunicare al consumatore che la quantità del prodotto è quella giusta per un aperitivo, ma anche per il consumo personale di una cena. Probabilmente senza incorrere in rischi da alcol-test (se si mangia anche qualcosa di solido, naturalmente). Il nome contiene il consiglio d’uso: si tratta di un “gancio” commerciale che può fare presa. E’ come se il produttore si preoccupasse della salute dell’acquirente. Viene consigliata e fornita una quantità moderata (salvo berne due, di bottigliette, a propria scelta). Non siamo di fronte a soluzioni grafiche strepitose, ma il nome, di suo, può svolgere bene il proprio compito e in generale la funzione di aumentare il potenziale di vendita. Idea furba? Sì, perché si muove nella doppia direzione semantica di rassicurazione e di facilità di fruizione che possono fare di questa linea di vini un buon successo commerciale.

Semplice non Significa che sia Facile

Cirò Rosato, Librandi.

Questa storica azienda vitivinicola calabrese ha lanciato nel settore della Gdo (supermercati) una nuova etichetta per il Rosato da uve Gaglioppo, una delle bandiere della propria gamma. Nell’estetica generale, governata da cromatismi azzeccati, fa da protagonista innanzitutto il colore del vino. Tutt’altro che rosato, potremmo definirlo in vari modi: aragosta, arancio, creta senese, cipolla dorata, e perché no, color tramonto. L’abbinamento con i tre colori che caratterizzano l’etichetta è perfetto. Laddove troviamo dei toni pastello, dell’azzurro, del giallo e del verde. I tasselli colorati rappresentano certamente gli appezzamenti di terreno, le vigne insomma. A conferma di ciò, sul colore, vediamo delle strisce regolari, realizzate con inchiostri in rilievo, che danno proprio l’impressione, ottica e tattile, di qualcosa di materico, vivo, presente. Regna altresì la semplicità. Perché questo è uno dei segreti del packaging ben realizzato: la convivenza tra vari elementi anche complessi, che raccontano qualcosa, con una semplicità di esposizione di tali elementi che “tranquillizza” l’occhio. Comunicare senza gridare. Far percepire senza forzare. Con eleganza e gusto. Operazione per niente facile, credete a noi.

Un Vino che Resuscita i Morti

Vino Vivo, Blend di Bianchi, Isola Augusta.

Si tratta del vino “orange”, non filtrato, di un produttore friulano di Palazzolo dello Stello (Udine) che per tutte le altre etichette in gamma sceglie un design sobrio e molto classico (che non vi mostriamo, tanto in quella categoria sono tutte uguali). Per questo vino invece, l’azienda si spinge oltre i confini della tradizione (sia per la modalità di produzione, sia per il packaging). Nasce un’etichetta gioviale, colorata, ben illustrata con un tratto piacevole che raffigura un uomo (d’altri tempi, questo sì, con baffetti, papillon e con un cappello in testa) intento a degustare un calice dell’Orange Wine in questione. In alto troviamo il nome/logo aziendale e in basso il nome del vino: “Vino Vivo”. Forse che tutti gli altri vini siano morti? No. Si tratta di una sottolineatura per un prodotto che è più vivo degli altri, trattenendo in sé i lieviti, probabilmente mai domi. L’etichetta è di quelle che si portano volentieri alla tavola di amici e parenti con scanzonate aspettative. Il vino sicuramente saprà confermare passione e gioia di produttore e consumatore.

Il Grillo delle Onde Tonde (dette Anche Gorghi)

Coste a Preola, Grillo, 
Tenuta Gorghi Tondi.

Questa etichetta impatta molto a scaffale, non ci sono dubbi. Sono i colori, certamente, ma anche la grafica moderna e i tratti decisi (insomma, molto vistosi). Prima della nostra analisi vediamo cosa dice il produttore al riguardo, nella pagina dedicata a questo vino nel sito internet: “Coste a Preola è il nome scelto per rendere omaggio alla Sicilia e alla sua biodiversità: così si chiamano i vigneti che ricadono in questo lembo occidentale dell’isola, a ridosso del mare Mediterraneo, in una zona limitrofa alla Riserva Naturale del WWF Lago Preola e Gorghi Tondi. Coste a Preola Grillo è il vino-simbolo del forte legame tra la nostra azienda e l’oasi naturalistica”. Un nome, quindi, geolocalizzante (siamo nell’agro di Mazara del Vallo) curioso sì, non facilmente memorizzabile ma sufficientemente ricollegabile a qualcosa di locale, ad una narrazione del luogo. Torniamo ai colori e alle forme: un sole (un perfetto cerchio arancione in alto a sinistra), delle onde (che si alternano e si intersecano tra l’azzurro, l’arancio e l’argento. E come una quinta teatrale, un tassello bianco che si staglia tra i flutti con in alto il logo del produttore e in basso il nome del vino, il vitigno e la Doc. Il risultato complessivo è valido, originale, attenzionale, dinamico e quindi plausibile.

Il Pinot Nero alla Conquista dell’Etruria

Ermius, Pinot Nero, Panizzi.

La stimata azienda Panizzi di San Gimignano (nota soprattutto per la locale Vernaccia) ha da qualche anno iniziato a sperimentare la coltivazione del Pinot Nero, certamente non un autoctono toscano, vitigno che in linea generale gode maggiormente di latitudini più nordiche. Negli ultimi mesi la sfida si è materializzata in un nuovo vino nella gamma aziendale: “Ermius”. L’etichetta graficamente si distingue per i noti quadrati bianchi e neri (come se fosse il particolare di una scacchiera), simbolo e logo dell’azienda. In alto, in oro, leggiamo il nome del produttore. Al centro il nome del vitigno, in basso il nome del vino. Apprendiamo che il significato di “Ermius” è da ricondurre alla traduzione di “agosto” in etrusco. San Gimignano infatti rientra in quell’area di influenza di quel popolo che tanto ha fatto per diffondere il consumo e il mito del vino, prima ancora degli Antichi Romani. Il nome “Ermius” viene a confermare che il mese di raccolta è proprio agosto, a volte a inizio mese, soprattutto in annate calde come questo torrido 2022. Ermius suona bene, è breve, trasmette cultura e antichità, e di riflesso conoscenza dell’ enologia.

Per le Etichette Serve una Certa Inclinazione

Poggiogirato, Sangiovese di Romagna, Poggio della Dogana.

Dal sito del produttore: “Poggiogirato, Romagna Sangiovese Superiore Riserva DOC, è un vino biologico prodotto a Castrocaro Terme in località “le Volture” da vigneti di Sangiovese (vari cloni) di 15 anni di età con 5000 piante per ettaro, allevate a cordone speronato e dislocati a quota 200 metri slm. La resa per ettaro è di 5.000 kg/ettaro, ossia 1 kg per pianta”. Detto questo passiamo al nome, composto ma interessante: “Poggiogirato prende il nome dalla disposizione dei vigneti con i filari allineati a girapoggio, ossia ortogonalmente alla linea di massima pendenza”. Fin qui tutto bene. Passando però ad una analisi della grafica dell’etichetta sovvengono alcune considerazioni non del tutto positive. L’inclinazione degli elementi: forse il produttore voleva alludere al “giramento” delle vigne. Graficamente non risulta molto piacevole. Inoltre l’estrema semplicità (che in questo caso è semplificazione non valorizzante) del packaging non consente di attribuire una valore percettivo al prodotto che di per sé è di rilievo, essendo un Sangiovese Superiore Riserva. Il nome dell’azienda è: Poggio della Dogana, ribadito in etichetta in alto in corsivo e in basso a sinistra in forma di logo. Rivedibile.

Piuttosto che Niente

Piuttosto, Trebbiano di Romagna, 
Tre Monti.

Questa etichetta e questa bottiglia attivano subito l’attenzione. La bottiglia per la sua forma, simile a quella dei vini Porto, detta anche “Clavelin”. L’etichetta per questa tonalità verde smeraldo che risulta abbastanza insolita per un vino. Ma naturalmente c’è di più (e ringraziamo Sara Missaglia, giornalista del vino, per la segnalazione): il nome “Piuttosto”. Verrebbe da pensare a un “più tosto” come caratteristica del prodotto (e di certo vale anche questa sfumatura semantica visto che la seconda “t” del nome viene enfatizzata cromaticamente), ma possiamo comunque contare sulla spiegazione del nome da parte del produttore, tratta dalla scheda del vino, nel sito internet: “Alla vigilia della vendemmia 2019 eravamo sul punto di estirpare l’ultimo ettaro del nostro splendido vigneto di trebbiano “della fiamma” a Petrignone: il riscontro commerciale ed il “mood” del mercato erano troppo tiepidi (eufemismo) nei confronti di questo vitigno. Ma, “piuttosto” che estirparlo, abbiamo voluto fare un estremo tentativo, e mettere a frutto le esperienze di macerazione acquistate con il Vitalba e fare una cosa nuova: 25 giorni di macerazione in cemento, un po’ di buona sorte, e, voilà”. Un nome nato da una discussione, da un progetto, dalla lingua parlata, a generare un prodotto originale anche nella sua formulazione. L’operazione è riuscita.

Ne Resterà Solo Uno (Forse Nemmeno Quello)

Forabuja, Trebbiano e Malvasia, Val di Buri.

Il naming di questo vino che viene dalle colline pistoiesi si può definire un esempio di unicità. E come si manifesta la singoarità, nel nostro nuovo mondo digitale? Semplice: se inizio una ricerca su Google con una parola (in questo caso il nome “Forabuja”) e i risultati (tutti i risultati) riguardano esattamente il prodotto che ha quel nome… ho fatto bingo! Nel senso che non ci sono problemi nell’essere in cima all’elenco o nella prima pagina della ricerca perché tutte le risultanze portano all’obiettivo. “Forabuja” non è un nome facile da leggere, da pronunciare e da ricordare, ma ha il vantaggio di essere unico e quindi originale. Nella ricerca di un nome (in questo caso si tratta di un toponimo di una vigna) sarebbe auspicabile trovare una soluzione particolare, non replicabile, ma anche foneticamente e concettualmente valida. Non si può avere sempre tutto ma almeno ci si può provare. Il vino in questione è un “orange” molto genuino (solo 300 bottiglie ogni anno) prodotto da una coppia di giovani viticoltori, Marina Ciancaglini e Giacomo Lippi che vivono e lavorano a Baggio, appena fuori Pistoia, in zona Valle delle Bure, infatti l’azienda si chiama Val di Buri (le “Bure” sono le tracce scavate dai torrentelli che confluiscono nel fiume Ombrone). Vitigni autoctoni, agronomia supernatural, passione oltre misura, tante buone qualità in bottiglia.