Come Non Farsi Capire Bene

Andrä, Lagrein, Schmid Oberrautner.


La cantina in esame, dicono gli attuali proprietari, vanta 21 generazioni di attività (ventuno!) e infatti nello stemma di famiglia si legge la data 1363. Non abbiamo motivo di dubitarne: la viticoltura in Alto Adige risale agli Antichi Romani, avanti Cristo, per intenderci. Sappiamo anche che da quelle parti sono piuttosto contrari a lasciarsi coinvolgere dalla lingua italiana, per cui utilizzano in gran parte e su ogni supporto di comunicazione il tedesco o il dialetto locale (sempre germanico). Ma la leggibilità è un’altra cosa. Cioè è quella cosa che fa sì che un nome, un vino, un prodotto, venga dapprima identificato, poi memorizzato, insomma riconosciuto. Il nome del vino in questione, un Lagrein (Gries), sarebbe “Andrä”, poco importa il suo significato (forse il nome della vigna) perché praticamente è illeggibile. Anche conoscendo il tedesco, anche sapendo da dove viene, anche sforzandosi un po’, niente. Illeggibile. Colpa del carattere di scrittura utilizzato, certo, ma possibile che a nessuno in famiglia sia venuto in mente che forse si stavano tirando una zappa sui piedi? D’altro canto l’azienda è anche agrituristica. Superando il problema della leggibilità del nome, vediamo che la grafica dell’etichetta è molto semplice. Nero su fondo bianco. Stemma in alto, nome dell’azienda al centro, nome del vitigno in piccolo e infine nome del vino in basso, in modalità scarabocchio. Minimalismo teutonico? Tutte le strade portavano a Roma, anche quella che partiva da Bolzano.

Una Sabbia che Diventa Bollicine: Tutto Torna

Sablà. Ribolla Gialla, i Clivi.

Il nome di questo vino, che potrebbe sembrare un riferimento al “sabrage”, termine francese che indica la pratica di stappamento violento a mezzo di una sciabola di un vino spumante (da “sabre”), si riferisce invece e molto probabilmente al tipo di terreno dove radicano le viti di Ribolla Gialla che lo compongono: si tratta di roccia arenaria formata da granuli assimilabili a una sabbia. Ed ecco qua il nome: come dire “dalla sabbia, oplà”, sintetizzando, “Sablà”. Il nome risulta compatto, simpatico, memorabile, attinente. Ma anche la grafica dell’etichetta ha uno svolgimento interessante. Su fondo nero molto charmant, spiccano delle grosse bolle, forse acini, forse entrambi. Guardando bene il packaging si notano delle sinuosità stampate con inchiostro lucido. Sono le colline friulane dove matura l’uva che serve a produrre questo Brut. Il risultato è molto impattante: abbiamo la nota cromatica, arancione, che attira molto l’attenzione (anche il tassello alla base spicca, e il nome si legge in modo chiarissimo), abbiamo pochi elementi ma molto distintivi (le bolle, il nome, il nero dello sfondo), abbiamo infine la “finezza” di quelle colline appena accennate, che letteralmente sbucano, discrete ma a loro modo protagoniste, fornendo all’elaborato un equilibrio invidiabile, tra impatto ed eleganza. Il vino, come promesso dal produttore, è morbido, l’esperienza cognitiva (che di fatto inizia quando l’occhio incontra l’etichetta) è completa.

Un Orange Tagliente dalla Sicilia Nord-Occidentale

Katamacerato, Catarratto, Elios.

Il nome di questo vino è di facile interpretazione, essendo il vitigno che lo compone il nobile, sia pure molto diffuso, Catarratto di Sicilia. “Kata” dalla prima parte del nome del vitigno, e quindi “macerato” per via della modalità di produzione che prevede 1 settimana di macerazione sulle bucce. Ma kata, dal giapponese (significa forma, modello, esempio), sta a indicare anche una serie di movimenti che servono per le varie tecniche di combattimento. In effetti nell’etichetta, con uno stile molto dinamico, si vede una figura vagamente orientale che con una katana (con la “n”, poi ci arriviamo) divide in due parti un acino d’uva. E qui giungiamo ad un ulteriore significato, forse il più importante visto che nella grafica il nome del vino viene proprio suddiviso così: “katama” poi “cerato”. La katana (ribadiamo, con la “n”) è una spada giapponese curva, a taglio singolo, utilizzata anticamente dai Samurai e oggi oggetto ornamentale (si spera). Certo che raccontare questa etichetta è un’operazione molto articolata. Catarratto + macerato + katana = Katama-cerato. Qualche perplessità, ma procediamo con i cromatismi che nel packaging sono molto aggressivi (come lo stile del disegno) grazie a un arancione molto pronunciato, su trame nere e bianche. Si tratta di un vino atipico, un “orange”, e anche l’etichetta si esprime in modo spregiudicato. Grazie alla giornalista del vino Sara Missaglia per la tagliente segnalazione!

Il Bianco e lo Spino a Montalcino

Biancospino, Blend di Bianchi, Fonterenza.

Siamo nelle famose e promettenti terre attorno a Montalcino, dove i vini rossi vendono cara la pelle, per così dire. Cioè rendono molto e sono, per questo, preferiti ad altre tipologie di raccolto. Qualche produttore, in questo caso due sorelle che da Milano si sono trasferite in Toscana, non disdegna la produzione anche di vini bianchi, seguendo trame antiche e vitigni quasi dimenticati. È il caso di questo “Biancospino” che nasce da una commistione di Trebbiano, Procanico, Malvasia e anche il raro Ravanese. Il nome del vino richiama quello di un alberello dai fiori eleganti e dai rami spinosi. Contiene non a caso la parola “bianco”, ad indicare la tipologia di vino. Nella gamma della stessa azienda infatti troviamo il “Pettirosso” (Sangiovese) che segue il medesimo schema comunicativo. Interessante l’impaginazione di questo packaging, in stile disegno amanuense, anche se la leggibilità viene compromessa dallo “spezzatino” verbale. Interessante anche il logo dell’azienda che a prima vista potrebbe sembrare un albero dalle alte fronde, invece, a guardar meglio si scorgono i profili di due donne, Francesca e Margherita Padovani, titolari dell’impresa, con la rispettive “chiome”. Nel complesso si tratta di una etichetta che sa farsi notare, con originalità, sia pure con semplicità e un approccio naturale.

Tralci Come Frecce per Comunicare il Vino

Saittole, Malvasia-Trebbiano-Bombino, Cantina Ribelà.

Diciamo innanzitutto che il nome di questa cantina laziale, “Ribelà”, deriva da una forma dialettale di Monte Porzio Catone (dove ha sede l’azienda) che significa ricoprire, “ribelare”, rincalzare la terra sulle viti appena piantate. Il simbolo e in un certo senso il logo di questi giovani produttori è una sognante mongolfiera che aleggia anche nella home del loro sito internet. Nella grafica in etichetta è comunque protagonista, come dimensioni, il nome del vino, molto particolare, insomma da decifrare: “Saittole”. Riportando le parole del produttore: “Saittole viene dal latino "sagitte", le frecce, come a Frascati venivano chiamate "le marze", i tralci di vite che si tagliavano per piantarli o innestarli. Nasce per essere un vino Frascati della tradizione, cioè un vino con diverse qualità di uve. Proprio per questo ci piaceva l'idea delle saittole... ossia dei tralci di vite che nella storia ci siamo sempre scambiati dando vita a molti biotipi e vini, in contesti diversi”. Nome non facile da leggere e da pronunciare ma aderente al territorio per via del suo antico significato. Etichetta semplice che trasmette sensazioni di genuinità che l’azienda professa soprattutto con una viticoltura biodinamica e biologica. Grazie a Sara Missaglia, giornalista del vino e attenta comunicatrice, per la segnalazione di questo naming e packaging. In alto i calici! (Anche in mongolfiera, volendo)

Un “Roggio” di Sole (e di Design)

Roggio del Filare, Rosso Piceno Superiore, Velenosi.


Sulla scelta di chiamarsi “Velenosi”, cioè di far diventare il cognome di famiglia un marchio, abbiamo già discettato in altri articoli. In un settore che, soprattutto negli ultimi anni, privilegia naturalità e dintorni, un nome così potrebbe portare, almeno inconsciamente, verso altre aree di significato. Ma andiamo oltre: in questo caso il nostro commento è su un packaging scultoreo, dove la forma della bottiglia si fa emblema. Partiamo dal nome del vino, “Roggio del Filare”, che nasce dalla poesia di Giovanni Pascoli, “Arano”. Eccola in versione integrale: “Al campo, dove roggio nel filare qualche pampano brilla, e dalle fratte sembra la nebbia mattinal fumare, arano: a lente grida, uno le lente vacche spinge; altri semina; un ribatti le porche con sua marra paziente; ché il passero saputo in cor già gode, e il tutto spia dai rami irti del moro; e il pettirosso: nelle siepi s’ode il suo sottil tintinno come d’oro”. Ci teniamo a precisare che le “porche” sono strisce di terra tra due solchi. “Roggio” invece, sarebbe il colore “rosso” di qualche “pampino”, cioè di quelle foglie di vite rimaste sulla pianta (i campi si arano tra ottobre e novembre). Passando alla forma della bottiglia, quel taglio verticale così originale fa riferimento alla luce diagonale del sole che attraversa la vegetazione e che, in questo caso, indica la vera e propria etichetta in carta, nella parte bassa. Un esercizio di design che spicca tra molte altre “forme” di comunicazione di prodotto. Ci vuole coraggio (e qualche costo in più) ma il risultato è evidente.

Tutta la Pazienza che Serve

Santa Pazienza, Croatina, Filarole.

Il nome di questo vino, segnalatoci dall’instancabile winesurfer Sara Missaglia, ha almeno tre ragion d’essere. Infatti “Santa Pazienza”, secondo il racconto del produttore, può essere riferito al fatto che le uve di Croatina che compongono il vino vengono “attese” fino a maturazione inoltrata. Aggiungiamo che la fermentazione dura almeno 40 giorni (altra attesa lunga) e infine viene consigliato di invecchiare il vino anche fino a 15 anni. Ma da dove viene questo modo di dire? Premettendo che Santa Pazienza è una santa vera e propria (una delle più sconosciute e quindi non presente nei calendari), Treccani dice che si tratta di una “espressione d’ira mal contenuta”. In questo caso dà origine a un nome che sintetizza tutta la meticolosa opera di chi produce vino, dal germoglio all’acino, dalla vendemmia alla fermentazione. L’etichetta che mostriamo è del produttore piacentino “Filarole”, nome che deriva dal dialetto filaröl, cioè i filari di una vigna, italianizzato in Filarole. Viticoltura biologica sulle colline della Val Tidone con tralci che contano fino a 100 vendemmie. La grafica è spartana: il nome del vino al centro, in alto il logo aziendale, molto visibile in quanto rosso vivo, alla base le diciture di legge. Niente più. Il nome in questo caso la fa da padrone e tutto sommato è bene così.

Tutto Perfettamente in Bolla

In bolla, Ansonica, Arrighi.

C’è ancora qualcuno che ha voglia di divertirsi. Fortunatamente. E che realizza etichette insolite e ironiche. L’efficacia, certo, è un altro aspetto che andrebbe esaminato a parte. Ma in ogni caso ci piace far notare questo packaging, per le sue caratteristiche un po’ folli. Il vino, un frizzante a base Ansonica che nasce all’Isola d’Elba, si presenta col nome “In bolla”. Notoriamente nello slang interregionale italico, forse di più al nord, si dice “bolla” per indicare un vino spumante, frizzante, sparkling. “Stasera ci beviamo una bella bolla…”. “Che ne dici di una bolla?”. Sono frasi ricorrenti. Dalle parole alle immagini: al centro dell’etichetta vediamo, con stile illustrativo-fumettoso, una bimba vestita di rosso, sdraiata e sognante dentro… una bolla! La forma è quella di una bolla di sapone, ma in questa situazione iconografica vale tutto, l’immaginazione viaggia. Nient’altro se non il logo aziendale in alto. Da notare che “in bolla” significa anche, in un linguaggio tecnico da carpentieri, essere in perfetto equilibrio orizzontale (la bolla è uno strumento che serve per attestare la perfetta linearità delle superfici). Ma “essere in bolla” significa anche essere un po’ ebbri. Insomma largo alle interpretazioni, fermo restando che la giocosa innocenza della bambina vestita di rosso ci porta un un mondo di simpatica convivialità.

Tanti Nomi, Vecchi e Nuovi

Enantio, La Prebenda.

Questa azienda veneta ci fornisce l’occasione per prendere in esame diversi nomi. In primo luogo non inganni il nome del paese dove ha sede la produzione, Brentino Belluno (il paese si chiama proprio così): in realtà siamo in provincia di Verona, sulle sponde dell’Adige (poco più a sud del Trentino). La zona, enologicamente parlando, si chiama “Terra dei Forti”, nome davvero bello, possente, immediato, significativo (originato dal fatto che in quella zona si trovano le vestigia di numerosi forti di guerra, italiani e austriaci). Procediamo: l’azienda in questione è “La Prebenda”, nome non proprio e non sempre positivo, vediamo perché leggendo le definizioni di Treccani per “prebenda”: “porzione di beni di un capitolo o di una collegiata, assegnata come dote a un ufficio canonicale; comunemente il termine indica i beni costituenti il patrimonio dei benefici ecclesiastici minori, destinato a fornire un reddito a un ecclesiastico (o a un laico) che ne sia beneficiario”. O anche: “Guadagno lauto, compenso conseguito, più o meno lecitamente e in genere con poca fatica, grazie a incarichi straordinarî, attività clientelari e simili”. E infine il nome del vino (che è anche il nome del vitigno): “Enantio” (in greco significa “opposto”) cioè un tipo di uva autoctona, originaria della Vallagarina, molto affine alle uve selvatiche e per questo resistente al freddo e alle malattie, chiamata ancora oggi “lambrusca” in quanto piuttosto “rustica”. Per quanto riguarda la grafica in etichetta preferiamo soprassedere, diciamo così, per motivi di spazio. E ci scusiamo per la scadente qualità dell’immagine ma nel sito del produttore e in generale in internet non si trova, ad oggi, una risoluzione migliore.

Numeri e Nomi, Parcelle e Procellae.

195, Merlot e Cabernet, Villa Bogdano 1880.

Villa Bogdano 1880 è una strutturata realtà vitivinicola con sede a Lison di Portogruaro (Venezia). Partiamo dal logo (nella parte bassa dell’etichetta): si tratta della Dea della Caccia Diana e prende spunto da un gruppo bronzeo risalente al III secolo d.C. ritrovato nel 1926 durante degli scavi nel territorio “Romano Concordiese” lungo la Via Annia che collegava Padova con Aquileia. La Dea è nell’atto di scagliare una freccia. Ai suo piedi un cane e una cerva. Veniamo al particolare nome di questo vino (un Merlot con un piccolo contributo di Cabernet Sauvignon): “195”. Proprio così, quella che può sembrare una “i”, per il produttore è un “1” e forma il numero “complessivo” 195. La gamma di vini biologici di questa azienda dà anche altri numeri… il 185, Tocai Friulano, il 186, Refosco dal Penduncolo Rosso e il 187, Chardonnay. I numeri fanno riferimento alle parcelle agricole riportate in antiche mappe. Ma come si può vedere qui in basso con le altre etichette va anche peggio rispetto alla 195: in prima battuta non si riesce letteralmente a “decifrare” il nome o numero che dir si voglia. Non sappiamo cosa possa spingere un produttore a realizzare delle etichette poco interpretabili. Possiamo solo mostrarle come esempio non troppo virtuoso. A onor del vero sopra a ogni numero “arabo” si trova in piccolo la stessa cifra in numeri romani. Invece alla base del numero in questione troviamo una scritta in latino, ugualmente poco interpretabile. Un alone di mistero a volte fa bene, ma quando si tratta di consentire l’identificazione di un vino attraverso il suo nome, meglio essere chiari, diretti, eloquenti, senza lasciare dubbi.


Andiamo in Paucis

Paucis, Ribona, Sant’Isidoro.

Due nomi che meritano di essere analizzati: il nome del vino, “Paucis”, che in latino significa “poco” o al massimo “alcuni” (insomma qualcosa di scarsamente disponibile) e il nome del vitigno che compone questo vino, “Ribona”. Probabilmente il nome del vino viene riferito proprio al vitigno, molto particolare, molto raro, del quale si possono contare davvero pochi ettari, oggi tutti concentrati sulle colline maceratesi. Un tempo chiamata anche Greco Maceratese, Greco Castellano, Verdicchio Marino, Montecchiese, quindi catalogato nel Registro Nazionale della Varietà d’Uva come “Maceratino” (che può far pensare alla modalità di vinificazione, ma così non è), l’uva Ribona prende il proprio nome forse dal dialettale “Ri-Bona” cioè due volte buona o anche dall’antica abitudine di far rifermentare i grappoli per ottenere vini più longevi. L’etichetta si presenta con elementi un po’ scoordinati, con il logo aziendale in alto a sinistra, il nome del vino centrato, con un carattere poco leggibile e un colore discutibile, poi seguono uno scudo in tutti i sensi grigio, quindi la denominazione su una trama di linee oblique. Nel complesso il packaging si fa vedere ma non sa farsi piacere. Ultima nota di cronaca (relativa al Covid), la parola “paucis” è diventata improvvisamente nota con il termine “paucisintomatici”, che indica appunto quelle persone che manifestano pochi, scarsissimi, irrilevanti, sintomi relativi alla malattia.

Quando il Nome del Vino è una Battaglia

Freccia degli Scacchi, Torgiano Rosso Riserva, Terre Margaritelli.

Iniziamo comprensibilmente dal nome di questo vino che appare davvero strano. “Freccia degli Scacchi” potrebbe condurre il pensiero al celebre gioco cervellotico che muove torri e alfieri (e in effetti un certo collegamento poi lo si trova). La freccia, che appare anche in etichetta, porta a ulteriori percezioni di sfida (ma anche di velocità). Nulla di tutto ciò, visto che l’origine del nome di questo vino umbro a base Sangiovese è da attribuirsi al nome del “capitano dei generali della battaglia di Miralduolo” (sede dell’azienda in questione). Questo almeno si trova in rete come informazione generalmente riconosciuta. Non riusciamo a capire come possa esistere un “capitano dei generali” nella gerarchia di un esercito, ma soprassediamo. La battaglia in questione, quella di Miralduolo, dovrebbe essere avvenuta nel 1367 tra la città di Perugia (sconfitta) e la Compagnia Bianca (papale). Il nome Miralduolo, strano anch’esso, potrebbe essere ricondotto alla terribile e truculenta scena del dopo battaglia, tale da far affermare “mira ‘l duolo” nel senso di “guarda che strage!“. Detto questo passiamo al packaging vero e proprio che risulta molto spartano: su una carta con trame verticali in rilievo, il nome del vino è scritto a sinistra mentre sulla destra in basso vediamo una freccia (riferimento ad armi da combattimento?) e il logo e nome dell’azienda. Semplice e lineare. A volte funziona.