La Dura Legge del Nome

etichette comunicazione branding grafica pubblicitàVit dai Maz e At, Sauvignon Blanc, Aquila del Torre.

etichette vino design comunicazione marketingStiamo parlando di un produttore friulano, della provincia di Udine, e delle sue due proposte che riguardano il Sauvignon Blanc: il cru e il base. Etichette di stile diverso, logicamente, per distinguersi in gamma: nel primo caso in evidenza la pulizia e l'eleganza grafica, con una illustrazione "tribale-ancestrale" in inchiostro metallizzato e con un nome anch'esso piuttosto "metallico": Vit dai Maz. Si tratta di un nome di chiara derivazione dialettale che soffre dal punto di vista della pronunciabilità (per chi non è friulano, certo) e della fonetica, a causa delle consonanti "tronche" e dell'effetto sincopato che ne deriva in lettura e pronuncia. Difficile, di conseguenza, la memorabilità. Nella bottiglia del Sauvignon base, a destra, possiamo notare sempre un'ottima pulizia grafica, di grande impatto a scaffale, con una inquietante illustrazione (potremmo definirlo l'uomo-tralcio) e un nome che non si capisce se attribuire ad una cercata modernità anglofona, "at" come la chiocciola degli indirizzi di posta elettronica, oppure, come più probabile ma banale, alle iniziali di Aquila del Torre, nome dell'azienda. Per concludere: etichette di gusto e raffinatezza estetica, nomi di discutibile interpretazione.

La Madre di Tutte le Viti

Madrevite, Azienda Agricola, Umbria.

packaging branding storytelling design letteringSi tratta di una azienda che produce olio e vino a Castiglione del Lago . Il nome scelto per distinguere l'azienda è "Madrevite" (la famiglia si chiama Chiucchiurlotto e il podere Mastronuccio, bizzarrie della semantica nomeica). E se si trattasse solo di leggerlo, Madrevite, il riferimento alla vite in quanto vegetale sarebbe scontato. La madre della vite, delle viti, della vita... insomma. Ma nel logo, che si può evincere nel sito e sulle etichette delle bottiglie nella gamma del produttore, al nome "Madrevite" si aggiunge una illustrazione, che appare subito piuttosto "tecnica". Osservando bene si ha la conferma: si tratta della madrevite, "un pezzo forato e filettato atto a ricevere una vite (di metallo) che s'impana nel suo filetto (sempre di metallo, non di carne). Si costruisce maschiando la parte interna del foro oppure filettandolo sul tornio". Questo secondo Wikipedia. Sorge quindi la domanda: perché un riferimento verbale alla vite e uno illustrato alle viti (filettate)? La verità è una terza: "Madrevite si riferisce all'omonimo strumento che veniva usato dagli antichi vignaioli umbri per fissare l'usciolo (la porticina frontale) delle botti in legno". Questa la spiegazione contenuta nei testi del sito aziendale. Un logo, quindi, che comprende tre interpretazioni possibili. Certamente articolato, forse non propriamente chiaro e diretto, a livello di percezione immediata.

Il Divino della Santa Trinità

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The Holy Trinity, Barossa, Grant Burge Wines.

font design viticoltura marketing comunicazione etichetteLa Santa Trinità di questo vino è rappresentata dai tre vitigni in uvaggio: Grenache, Shiraz e Mourvedre. Sul modello dei vini della Cote du Rhone un produttore australiano propone un vino rosso "di prestigio", realizzato nella Barossa Valley. Il prestigio si evince in primis dall'etichetta, dove una bella illustrazione verticale dona preziosità e decoro. In aggiunta al pregevole rilievo del vetro che caratterizza la bottiglia nella parte alta.  La "caduta grafica" si verifica con il carattere di scrittura (il font, tecnicamente) utilizzato per il nome "The Holy Trinity": possiamo definirlo eccessivamente arcaico e con conseguenti problemi di leggibilità. Peccato perché tutto il resto del format grafico è ben studiato, con equilibrio e gusto. Per quanto riguarda strettamente il nome, non si può evitare di considerare anche un possibile problema semantico, culturale, storico e religioso (più probabile nella cattolica Europa) legato al voler deliberatamente citare la "Santa Trinità" riferendosi ai tre vitigni che compongono il vino, piuttosto che ai simboli religiosi venerati (e molto rispettati) dal mondo ecclesiastico.

Numerose Etichette

design grafica marketing storytelling etichette brand496, Malvasia di Candia, De Sanctis.

Il nome prescelto per questo vino del centro Italia, fa riferimento all'anno (496 a.C.) in cui gli Antichi Romani sconfissero la Lega Latina, nei pressi di Frascati, "spianando la strada ad una millenaria dominazione". Come scrive il produttore nel commentare questo vino. La data è certamente di quelle importanti, soprattutto a livello locale, ma anche in generale per la storia e la cultura della penisola italica. Ma c'è un "ma". Come già detto altre volte, il nome del vino dovrebbe essere memorabile, oltre che evocativo e coerente con prodotto, vitigno, territorio e storia. Un numero, soprattutto di tre cifre, è difficilmente memorizzabile.
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Il rischio è quello di ottenere una notorietà "sui generis", così che gli avventori riescano, forse, a dire solo "Ma tu ti ricordi il nome di quel vino che si chiama con un numero?" senza riuscire ad identificare bene tipologia e azienda produttrice. La "passione" per i numeri storici di questa azienda, si manifesta anche in un'altra etichetta: "Diciassette Undici" (la sua "data di nasciata"), passito Cannellino di Frascati (un mix di vitigni bianchi). Numerologie a parte le etichette, graficamente, si presentano equilibrate e gradevoli.

L'Elementare Fonetica dei Nomi

design comunicazione lettering labels wine moscatoCiombo, Moscato d'Asti, Il Falchetto.

Il Falchetto, azienda vitivinicola di Santo Stefano Belbo, ha chiamato il Moscato d'Asti ivi prodotto, Ciombo. Proprio così: "Ciombo". L'abbiamo scritto due volte per consentire alla mente di ognuno (meglio ancora pronunciarlo "a voce") di analizzare le sensazioni "fonetiche" che la dizione trasmette. "Ciombo", un po' come "tonfo" e come "floscio", ma anche, per etimo "indotto", come "inetto": tipo "quel tuo amico mi sembra un po' ciombo". Ma si potrebbero fare molti altri esempi e derivazioni. Serve anche aggiungere, quindi, che il nome "Ciombo" non collima per niente con l'eleganza del vino che viene chiamato a nominare: si tratta di un gentile, profumato, suadente Moscato d'Asti, come la descrizione del produttore, nel sito aziendale, conferma: "...al naso ha grandi sentori di fiori freschi...", Ciombo; e "nel finale una vena citrina rinfrescante...", Ciombo. "La sua dolcezza e aromaticità di sposano bene con dolci e paste...", Ciombo. Insomma, ogni volta che si pronuncia "Ciombo" il castello di carte cade. E questo, di certo, non è un buon viatico per una comunicazione emotivamente pregnante. A latere aggiungiamo altri due "sorprendenti" nomi rinvenuti nella gamma di questo produttore piemontese: Soulì Broida (!), Pian Scorrone (!!) e tra gli altri anche "Incompreso". che in un certo senso chiude il discorso.

Nomi "Ampi", Molto Evocativi

grafica lettering labels ilnomedelvino nome comunicazioneFar Niente, Cab e Chardonnay, Napa Valley.

etichette vino nome definizione comunicazione mktgIl produttore di una "classica" linea di vini, composta unicamente da uno Chardonnay e un "Cab", come lo chiamano gli americani, Cabernet, ha deciso di chiamarsi "Far Niente". Si tratta di un nome che attira l'attenzione, lo farebbe in Italia, pensiamo lo possa fare ancora di più in America, con il limite della comprensione della lingua, logicamente. In ogni caso interessa qui portare "Far Niente" come esempio di nome "ampio" ed evocativo. Uno di quei nomi che fanno viaggiare la mente, che fanno immaginare ad ognuno il proprio personale concetto del far niente. Domeniche di relax, serate con gli amici, degustazioni in coppia o anche in "singolo". Il "Far Niente" viene comunque accettato come accadimento positivo, ricercato, atteso. Un nome coraggioso per un produttore americano che certamente conta sulla comunità italiana del luogo e sulla conoscenza dell'italiano, in gereale, degli americani. A questo punto manca solo di citare anche la divertente canzone di Chico Buarque che ha fatto del "Far Niente" un simbolo per il Brasile e per il mondo, cantando, e siamo sicuri anche bevendo, in italiano.

Il Funambolismo deile Etichette

Scabi, Sangiovese di Romagna, Vini San Valentino.

design etichette grafica labels wine sengioveseIl nome di questo vino non ha apparente significato. E se non risulta apparente non appare, logico. Cioè, il nome è ben chiaro in etichetta (con dei limiti che poi vedremo) ma non emerge per significato e, di conseguenza, memorabilità. Risulta anche foneticamente "duro", "scavato", con quell'inizio così scontroso ("Sc"). Nel sito del produttore non viene spiegata la sua origine per cui la prendiamo così com'è e così come la prendono e la prenderanno i potenziali clienti: senza punti di semantici di riferimento. Leggibilità: viene ostacolata dal tentativo grafico di "simpatizzare" la "c" creando un improbabile calice inclinato. Tentativo maldestro che va a inficiare anche la leggibilità dell'annata (con lo stelo del calice). Per quanto riguarda il design, possiamo coniare una definizione: siamo di fronte ad una "etichetta Arlecchino" che oltre ad uno spiccato arancione di fondo (codice alimentare del cibo, solitamente, ma ultimamente abbastanza utilizzato anche nel vino), presenta una serie di piccoli quadrati, alla base, di colori diversi. Il risultato non è di grande eleganza. L'impatto a scaffale potrebbe esserci, ma il deficit creativo generale è percepibile.

Parole al Vento

Sciurio, Sangiovese-Canaiolo-Merlot, Cantine Zanchi.
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Non conosciamo il significato di questo nome, "Sciurio": nel sito del produttore non si fa menzione di origini dialettali ("scuro"?) o altro. E' comunque possibile fare una analisi di leggibilità e di pronunciabilità (fonetica). Insomma qui siamo a zero. Già risulta molto difficile pronunciare "Sciurio" per un italiano, immaginamo all'estero. Cosa può spingere dunque una azienda a chiamare così un vino? Le ragioni della comprensibilità e della memorabilità vanno oltre a quelle delle origini, del dialetto o del territorio. Qualunque esse siano. Il vino in questione, tra l'altro, è uno dei top di gamma, barricato, quindi destinato certamente anche a un mercato estero, o come minimo nazionale e non limitato alla regione di nascita (l'Umbria). Si tratta quindi di "nominare" con lungimiranza, pensando ai possibili acquirenti. A dir poco "curiosi" anche gli altri nomi dei vini di questa azienda: Pizzale, Flavo, Areia, Floresio, tanto per citarne alcuni. La ricerca dell'originalità o la difesa della "familiarità" a volte rischiano di generare risultati non ottimali, soprattutto in comunicazione.

Vitigni e Nomi dalla Grecia Antica

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Didyme, Malvasia, Tasca d'Almerita.

packaging grafica storytelling storybrandingDal mare di azzurro cielo di questa etichetta emerge subito il nome del vino: Didyme, certo non comune. Il vitigno che origina il prodotto viene coltivato a Salina nel piccolo arcipelago delle Isole Eolie. Il nome del vitigno ha origini antiche e certamente greche: infatti "Malvasia" viene dalla città di Monenbasia nel Peloponneso. E anche il nome del vino, Didyme, proviene dal Greco Antico: "didymos" significa gemello, e l'isola di Salina presenta alla vista due vulcani principali gemelli, ecco il motivo di questo nome arcaico. Tasca d'Almerita, noto produttore siciliano, sceglie quindi la strada "colta" di un nome di origini elleniche, quasi a sottolineare la "nobiltà", ancora di più, la storicità, del vitigno e quindi del vino. Passando al design dell'etichetta, il cui colore, criticabile per un vino ma certo differenziante, è forse stato influenzato dal cielo sempre terso di Salina o dal suo mare, possiamo notare alcuni problemi di leggibilità, causatei dall'inchiostro argentato del lettering (il nome principale si legge ottimamente, alcune altre parole meno) e anche dal carattere di scrittura sottile e graziato della specifica IGT del disciplinare (la dicitura Indicazione Geografica Tipica pecca anche di una eccessiva spaziatura tra la parole "Indicazione" e "Geografica"). Nel complesso un'etichetta elegante, classica, valoriale, che si proponde ad un pubblico erudito. 

Veneto il Vino, Romano il Nome

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DIVICI, Prosecco, Casa Vinicola Botter.

Dicono che anche la Glera, vitigno con il quale si produce il Prosecco, sia giunta nelle regioni nord-orientali attraverso le conquiste degli Antichi Romani. E non si è trattato solo di vitigni ma anche di numeri e sistemi di misurazione. Ed ecco quindi che il nome prescelto per questo Prosecco viene espresso in numeri romani: DIVICI, sarebbe a dire 604. In pratica la D vale 500, la V vale 5 e la C vale 100. Un "gioco" letteral-numerologico (non tanto logico, visto che il numero a quanto pare non ha attinenze e la parola "divici" non significa nulla di particolare). Nel sito (americanizzato) del produttore si legge: "DIVICI was costructed from Roman numerals to create a memorable name of classical harmony". Qualche dubbio permane sulla memorabilità di questa "formula". Del resto il design dell'etichetta è molto elegante, molto italiano, molto "Giorgio Armani": essenziale, pulito, prezioso, austero ma non stantìo. Originali i rilievi sul vetro che riproducono le colonne classiche dell'architettura romanica. Gli americani, comunque, apprezzano.

Vespe Antiche e Moderne

packaging comunicazione lettering brandingVespa Rosso, Merlot-Refoso-Cabernet, Bastianich.

etichette bottiglia vino nome del vino graficaUn vino famoso che si chiama "Vespa" e che allude chiaramente al ronzare dei piccoli insetti attorno ai grappoli di uva matura, ha sperimentato una etichetta molto essenziale (a sinistra): bianco e nero, grafica al limite della "sobrietà non espressiva". Certo la vespa è sempre (e giustamente) protagonista, ma tra le due etichette (quella effettivamente in uso è quella a destra) c'è un abisso di design, modalità grafiche e idee diverse. La "classica" che pur dimostra di aver fatto un passo verso la modernità rispetto ai canoni di una regione tradizionalista come il Friuli, e "l'innovativa" che osa spingersi nelle praterie dell'austerità creativa. Quella in bianco e nero guadagna in attenzionalità, in colpo d'occhio, mentre quella ocra prende vantaggio nel campo della credibilità enoica. Un bel confronto, di pensiero e di esperienza di packaging.

Santi Numi

Turi, Don Calò, Fani e Domi, Numi Vini.

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Sembra uno sciogli-lingua la serie di nomi dei vini di Numi Vini. Letti tutti di seguito. La sintesi c'è: sono tutti di 4 lettere (se prendiamo il Don Calò per il solo "Calò" che è quello che si legge nell'immediato sull'etichetta). Forse mancano di profondità. Sembrano soprannomi più che nomi. E hanno qualche problema di leggibilità, formulati con il carattere di stampa (mescolato con una lettera "simbolica") che è stato scelto. Per quanto riguarda le etichette nel loro "complesso", nel sito dell'azienda produttrice si legge testualmente: "Un nome per ogni vino. Un volto per ogni nome. Un colore per ogni volto. Un carattere per ognuno di essi." Abbastanza sconcertante il giallo pieno, accettabili gli altri colori. Sicuramente una serie molto vistosa, non molto "vinosa". Potremmo annoverarle tra le etichette moderne. 


Il Vento come Elemento Naturale

Spiffero, Ciliegiolo di Narni IGP, Fattoria Giro di Vento.
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Quale nome migliore se non "Spiffero" per il vino di un produttore ha deciso di chiamarsi Giro di Vento? Coerenza e simpatia. Uno spiffero è certamente anche qualcosa di negativo quando fa filtrare aria gelata da sotto le porte in inverno, ma può essere anche una voce, un consiglio, un gustoso pettegolezzo. Anche "Giro di Vento" è un bel nome e al riguardo, nel sito dell'azienda si legge: "Sinergia perfetta tra uomo e natura, serenità della campagna e ricerca di eccellenza, equilibrio vitale di acqua, terra, sole e vento...". Il vento quindi come elemento naturale, qui "girato" in modalità quasi giocosa, certamente rispettosa dei suoi dispetti. Bella quindi la sinergia concettuale con Spiffero, ma peccato che il produttore non abbia continuato su questa strada evocativa, che riguarda le intemperie, chiamando gli altri vini Pura Vitae, Raggio, Lunaria Bianco e Lunaria Rosso. Bello il logo, ma qualche dubbio sulla scelta di un design "anni '70" per le etichette, forse alla ricerca di una modernità che come percezione può portare verso altri settori merceologici.



Sull'Altare della Visibilità

etichette branding barolo labelsBarolo Brunate, Elio Altare.

Non avrebbe bisogno di visibilità e di celebrità questa "colonna" del Barolo, produttore delle Langhe noto e apprezzato in tutta Italia e nel mondo. Ma ci prendiamo volentieri la briga di analizzare la sua comunicazione "labellare", cioè la sua collezione di etichette che in fin dei conti è come lui ha deciso di presentarsi ai consumatori del suo prezioso nettare. Si nota subito la "deriva azzurra" della gamma Barolo con il logo in alto e il nome del vigneto "cru" al centro. Un azzurro ciano, come tecnicamente si chiama l'azzurro acceso, nemmeno un blu di quelli "contenuti". Merita una riflessione questa nota cromatica azzurra, insolitamente abbinata al re dei vini austeri d'Italia. Inoltre il nome del "cru" in azzurro chiaro (di fatto il nome del vino, il nome con il quale distinguere proprio quella bottiglia) può creare problemi di leggibilità in luce moderata. Salta anche all'occhio, al conscio e all'inconscio della percezione intellettiva, la violazione di una delle principali "raccomandazioni" del design grafico, quella di non cambiare il colore al marchio aziendale, mantenendo per esso una rigorosa identità, per ogni tipo di sua "manifestazione". Il marchio in questo caso è la vittima sacrificale di una variabilità cromatica (qui probabilmente dettata dalla volontà di distinguere le varie famiglie della gamma) che sarebbe bene evitare. Ci sono altre modalità per differenziare le varie serie di etichette. Ultima osservazione: tutto il resto dell'etichetta è visibilmente fin troppo "normale" e "classico". Ma tutto sommato è comprensibile visto l'ambito super-tradizionalista nel quale si colloca il produttore in oggetto.
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Mizzega, che Vino!

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Minchia, Montepulciano Australiano, 
First Drop Wines.

etichette vino naming comunicazione marketingCosa può spingere un produttore australiano a chiamare uno dei suoi vini rossi "Minchia"? Le sue (solo presunte) origini italiane? Dal sito, che definisce "Minchia" un vino esuberante e sensuale, si evince che probabilmente l'intenzione è quella di dare al prodotto una connotazione da "Italia del Sud". Forse l'espressione gergale aiuta in questo intento. Anche le foto sono abbastanza eloquenti in merito: la bottiglia di "Minchia" fuoriesce da una cerniera, fortunatamente posizionata sul petto, di un uomo. Non si tratta quindi di un errore di valutazione per l'utilizzo di una parola straniera (o autoctona che somiglia a parola straniera) di significato inaspettato, qui il produttore ci mette tutte le proprie (buone?) intenzioni. Dopotutto in Italia si è visto anche il "Vino del Cazzo", etichetta stampata e realmente commercializzata. La folla è menzogna, diceva il filosofo Kierkegaard. Di cosa stupirsi?

La Testimonianza è una Bella Storia

storytelling design grafica etichette brandTestimonio, Malbec, Luigi Bosca.

packaging sign labelCoerenza assoluta, voluta ed "evoluta" tra il nome di questo vino e la soluzione grafica adottata per la sua etichetta. Eleganza ed equilibrio, tinte morbide, centralità del concept: ecco una impronta digitale (del produttore, argentino) al centro della impaginazione come "testimonianza" di una storia famigliare, di una tradizione, ma anche come firma "fisica" del lavoro prodotto, e al tempo stesso garanzia, il fatto di averci messo le mani, e di "metterci la mano" su quanto promesso e poi messo in vendita. E il nome? Testimonio, che fa un po' matrimonio, ma forte è la valenza della radice semantica, la forza fonetica, l'autorità dell'etimo: "quegli che è presente ad alcuna cosa". Presenza e volontà, ferma testimonianza di passione per la qualità, o almeno la percezione chiara e netta di tutto questo da parte del target di riferimento.

Attenzione alla Linea (Figurella)

Baronale, Codacchio, Figurella, Macchione, Radiosa, Nonno Vittorio.

Una nuova linea di etichette contraddistingue i vini del produttore "Nonno Vittorio" dalla provincia di Foggia. Produttore anche di olio di oliva, il logo lo dichiara subito, suddividendo la "O" finale di "Vittorio" in un tralcio e in un'oliva, ha recentemente rinnovato il packaging dei vini, come dichiarato nel sito aziendale: "Nonno Vittorio si rifà il look: abbiamo pensato a delle nuove etichette per i vini, create per esaltare lo spirito e il valore di ciascuna bottiglia." Non ci soffermeremo sul nome aziendale fortemente basato sull'avo di casa, stereotipo che all'estero può ben influenzare la clientela, e nemmeno sul logo (la "V" e la già citata "O" fatta di mezzo tralcio e mezza oliva). Ci interessa qui dare una lettura semantica, creativa e anche commerciale dei nomi dei vini. Figurella, innanzitutto: digitando tale denominazione in Google Search ognuno potrà constatare che il primo e assoluto risultato è la nota catena relativa al benessere e alla forma fisica che porta il medesimo nome. Insomma non una bella figura, anche se non vietata dal copyright, in quanto appartenente a diverso settore merceologico e di servizi. Baronale, parola forse con valenze (un vissuto gergale) più negative che positive. Codacchio che foneticamente porta, nel finale, ad espressioni macchiettistiche e nell'incipit "Coda" non è privo di richiami selvatici. Macchione, grossolano ma potrebbe risultare simpatico ed evocativo (salvo verificare cosa esattamente può evocare: l'area della "macchia" e del "macchiato" è in agguato) e infine Radiosa, bella parola, luminosa, foneticamente agevole, evocativa, sorridente, positiva.

Acqua di Colonia o Vino di Provenza?

Made in Provence, Rosé Premium, Domaine Sainte Lucie.

Immaginate di vedere queste bottiglie su uno scaffale di una profumeria, non stonerebbero. Anzi, sarebbe indispensabile avvicinarsi e leggere l'etichetta per convincersi che invece si tratta di un vino rosato. In questo caso a confondere non è solo la grafica in etichetta, che se vogliamo è anche "moderna e disinibita" con quel punto esclamativo rosso e i caratteri di scrittura "a mano". E' anche l'industrial-design, cioè la forma della bottiglia e la sua trasparenza, a trasmettere "codici di percezione" similari a quelli di riferimento per il mondo dei cosmetici. La lotta per risultare originali nei confronti dei concorrenti non dovrebbe varcare i confini dell'immaginario collettivo: per utilità "commerciale" pratica, non per conformismo, anzi, il conformismo è il peggior nemico della creatività! Il vino in questione è un blend di Syrah, Grenache, Rolle e per quanto riguarda il naming, dobbiamo anche registrare che "Made in Provence" non è una gran trovata. Identifica molto bene la regionalità ma con un "mantra" comunicativo già molto sfruttato in tutto il mondo, in tutti i settori merceologici.

Un Vino ha Sempre una Storia da Raccontare

packaging design lebellingVerjago, Valpolicella Classico, Domìni Veneti.

Le storie dei vini d'Italia si intrecciano in modo "naturale" con tradizione, cultura, arte, costume e molte altre amenità che lo stivale porta con sé in dote. I vitigni, i vigneti, le generazioni di viticoltori sono testimonianze viventi. Spesso per "estrarre" queste storie è necessario perlustrare il "Paese Italia" e parlare con la gente. Ancora pochi, tra i produttori, decidono di rendere centrale, ad uso della comunicazione di un vino, un racconto, una leggenda o una vicenda del passato. Per dare personalità e spessore al vino stesso. Eppure i potenziali clienti hanno sete di conoscenza, hanno voglia di sapere "cosa c'è dietro" a un vino, al suo nome, alla sua stessa natura, intesa come terra e territorio. Pensandoci bene un vino ha sempre una storia da raccontare. Basta andare a cercarla, a volte semplicemente assaggiandolo e calpestando le zolle dove è "cresciuto". Meglio ancora, la storia, trovarla in etichetta, prima di stappare la bottiglia. In questo esempio, tutto sommato sintetico ma esortativo, la Cantina di Negrar (Domìni Veneti) spiega l'origine del nome, Verjago (da "Vallis Veriacus", toponimo utilizzato nell'Alto Medioevo per circoscrivere i confini della Valle di Negrar, "capitale" della Valpolicella) con un breve racconto: "Anno di grazia 971. Un documento attesta che nella Valle Veriacus, nel Vicus Vile e nel luogo detto Termino, un campo di viti cambia padrone. E' l'inizio di una nuova storia, della quale questo vino è oggi l'erede." La storia nella storia. Per dare sapore ad una esperienza gustativa che vive anche di sensazioni "conoscitive". 

Festa di Fiori e di Colori

packaging design labels grafica illustrazioneMalvasia e Pignoletto, Cavicchioli 1928.

L'etichetta dei vini definiti "piacere della festa" di un noto e grande produttore emiliano (noto più che altro per il Lambrusco) è ricca di colori. In particolare si notano le illustrazioni di alcuni fiori. Estrapolandola dalla bottiglia, cioè vedendo l'etichetta isolata in un quadrato, potrebbe somigliare alla confezione di certe caramelline alle erbe alpine. Se non fosse per il nome del vitigno, Malvasia, naturalmente. E per il marchio del celebre produttore. Curioso anche considerare che per esprimere "festa" sono stati scelti dei fiori, forse per decontestualizzare il vino e liberarlo da vincoli natalizi e quindi collocarlo, a livello di percezione, in un ambito celebrativo più "quotidiano" e non stagionale. L'impressione generale è quella di un vino "gioioso", poco impegnativo, giustamente spumeggiante. Ma forse anche non ai vertici qualitativi della categoria.
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