L’Etichetta Tazebao di un Esordiente Roerino

Capitolo 01, Langhe Nebbiolo, Stefano Occhetti.

Per strano che sia, Stefano Occhetti ha deciso di raccontare la sua storia direttamente in etichetta. Ma vediamo fatti e antefatti. Si tratta di un nuovo arrivo nella compagine dei viticoltori roerini: una vita precedentemente improntata alla carriera manageriale e adesso virata in quella “contadinale”. Tanto recente la decisione che la vendemmia 2019 è la prima e il vino prodotto per ora l’unico. Il vino è un Langhe Nebbiolo e a quanto appare in questa davvero insolita etichetta si chiama “Capitolo 01” (in alto, in piccolo). Segue un lungo testo, che occupa tutta l’area cartacea del packaging, dove il novello viticoltore racconta come e cosa è accaduto alla sua vita in tempi recenti. Nell’etichetta vengono evidenziate due frasi: “mia prima vendemmia” e “tremilaseicentodieci”, il numero delle bottiglie prodotte in questa prima edizione assoluta. Bellissima la prima frase di questo scritto appassionato (che riportiamo qui nel caso fosse difficile da leggere nella foto allegata): “Non è dato a scoprire quante vendemmie avrai davanti a te, dicono non più di una cinquantina. Credo sia questo a rendere il vino speciale, ogni bottiglia, infatti, porta in sé un intero anno di vita”. Resta solo da ascoltare il consiglio di Stefano, verso la fine del medesimo testo: “Quando deciderai di stapparne una, brinda con qualcuno e goditi ogni istante”. Prosit!

Un Morellino con Ghiaccio

Ghiaccio Forte, Morellino di Scansano.

La decisione di questo produttore toscano, di riportare in grande, in modalità nome del vino, il nome stesso aziendale, è discutibile. E infatti qui ne discutiamo. In questa etichetta si evidenziano due (forse tre) elementi preponderanti: il nome “Ghiaccio Forte” (ove “forte” è ulteriormente fortificato dallo spessore del carattere di scrittura) e la nota definizione della denominazione Morellino di Scansano. In aggiunta, sulla sinistra, vediamo una testa scultorea di donna, in rosso, quasi fosse un bollo, un sigillo, una ceralacca. La Nostra discussione verte su due fattori del primo elemento (Ghiaccio Forte): il significato delle parole e la dimensione (e lo stile) di scrittura. Entrambi questi fattori portano alla mente qualcosa diverso dal vino: ad esempio potrebbe essere evocata l’immagine di un bicchiere da amaro (da fine pasto, detti anche “ammazzacaffè”) di quelli larghi con dentro i cubetti di ghiaccio. Lo stile stesso del design dell’etichetta porta a pensare a una bottiglia di amaro anni ‘70. Sulle ragioni originarie del nome della Tenuta Ghiaccio Forte non abbiamo trovato riscontri (se non che è riconducibile a un sito etrusco del IV secolo a.C.). Possiamo invece dire qualcosa sul nome storico “Morellino”, ormai acquisito e adottato abitualmente: tutto merito del Granduca di Toscana che battezzò in questo modo il Sangiovese del luogo, caratterizzato da uve molto scure, in omaggio e memoria del mantello “morello” dei cavalli maremmani che venivano utilizzati per il traino delle carrozze dei nobili del tempo. Insomma, un Morellino ghiacciato, se non auspicabile nel consumo, nella percezione che potrebbe condurre a livello inconscio.

Il Pinot Grigio più a Nord del Settentrione

Tvleo, Pinot Grigio delle Venezie.

L’etichetta di questo vino, uno degli innumerevoli Pinot Grigio (delle Venezie) dei quali è letteralmente invaso il mondo, non ha nulla di veramente speciale (sì, daccordo, quella “T” grande attira l’attenzione, ma finisce tutto lì) se non fosse per il nome del vino (o nome dell’azienda parificabile). La ricerca di affinità non è stata facile ma alla fine abbiamo scoperto che “Tvleo” non è una televisione locale o digitale, bensì il nome, qui proposto in modo pseudo latineggiante, di un’isola remota, forse immaginaria. “Tvleo” o “Tuleo” (in esperanto) o anche Thule in latino si riferisce a un territorio in mezzo al mare, descritto dal navigatore greco Pitea, che si trova molto a nord della Gran Bretagna. Thule, infatti, nell’antichità era termine per dire “ai confini del mondo (settentrionale)”, in latino “ultima Thule”. Gli storiografi e cartografi pensano che si possa trattare delle Isole Faroe o delle Shetland. Sembra che qualcuno attribuisca all’isola di Thule (a proposito, sulle mappe si trova anche come “Tile”) l’origine della razza ariana. Insomma un mezzo mistero. Il nome di questo vino viene appunto enfatizzato dalla presenta di una grande “T” al centro dell’etichetta. Notiamo anche, alla base dell’elaborato, un tassello nero con la scritta “Limited Edition”, una di quelle terminologie che lasciano il tempo che trovano, un po’ come “vino naturale” o “selezione speciale”.

La Vigna è “Maia”

Amai, Blend di Vitigni Rossi e Bianchi, Podere Orto.

Parliamo di un’azienda molto giovane, proprio come la figlia dei proprietari che corre felice tra i vigneti. Potrebbe essere scritta così la sintesi di questa piacevole etichetta. Ma vediamo... cosa si vede. Un disegno, centrale, con un panorama collinare e alcune vigne appena accennate, in bianco e nero. Una sagoma di una bambina, colorata di rosa salmone (unico elemento cromatico del packaging insieme al nome del vino) corre in mezzo ai tralci di vite. In basso leggiamo “Amai” anagramma di Maia ma anche voce del verbo amare e se vogliamo un brindisi a qualcosa che “mai” potrà finire. L’amore per il vino, per la famiglia, per il territorio. Sono concetti leggiadri, così come leggera (in senso positivo) è la percezione di quel disegno. Spensieratezza il primo pensiero. In alto, ben evidente, il nome dell’azienda, Podere Orto e una scritta piccola sotto di esso: Trivium. L’azienda si trova infatti in un punto molto particolare del Centro Italia: esattamente al confine fra tre regioni che sono Lazio, Umbria e Toscana. Anche in questo caso, come in altri esempi di etichette virtuose, gli elementi sono pochi, ben evidenti, concettualmente significativi. Del resto nel meno c’è il più. E chi non lo vede peggio per lui. N.B.: la bambina che corre si chiama proprio Maia che in Oriente è simbolo di rivelazione, risveglio, purezza, origine, creazione e un sacco di altre cose belle.

Madre Terra Danza con Mozart

Gea, Rosso di Montalcino,
Il Paradiso di Frassina.

L’etichetta di cui parliamo in questo post è di una azienda vinicola fondata “dall’uomo che sussurra alle vigne” (titolo di un suo recente libro). Ovvero Carlo Cignozzi, avvocato a Milano per 40 anni, dal 2000 trasferitosi a Montalcino con la passione per il vino. L’avvocato è noto per aver installato nelle sue vigne un impianto musicale che diffonde 24 ore su 24 musica di Mozart. Il concetto trainante è che la vite, ascoltando musica, cresce più allegramente (producendo migliore qualità). Il vino più modesto della gamma (che comprende naturalmente anche un Brunello) ha attirato la nostra attenzione con un packaging semplice ma interessante. Si tratta del Rosso di Montalcino che si chiama “Gea”. Come tutti sanno e come il produttore specifica nel proprio sito internet “...è il nome della Divinità della Terra” (e anche della figlia). Bel nome, corto, evocativo, forse fin troppo inflazionato, ma suona bene, trasmette genuinità, semplicità, primarietà, solidità. In basso, nell’etichetta, vediamo il nome dell’azienda, “il Paradiso di Frassina” con una nota dorata inserita tra le parole. Ma è la parte superiore quella interessante: la parola “Gea” fa da terreno, forse da radici, per una collina stilizzata, sormontata da un’altra collina e da alberelli. Il tutto con uno stile rastremato, sintetico, gentile, armonico, suadente, piacevole.

Coerenza con Gusto: il Vino è un’Arte

Materico, Nerello Mascalese, Cantine Pellegrino.

“Materico”, il nome di questo vino, è una parola che di solito viene utilizzata negli ambienti artistici, dai pittori o creatori di opere d’arte, per indicare qualcosa di strutturato e solido. L’origine è “materia” o “materiale”, con un precisa connotazione fisica. Un vino si può dire materico quando “si mastica” (questa invece è terminologia da sommelier), cioè quando la sua consistenza diventa quasi densa. Tecnicamente quando si ha un estratto secco elevato. Ma torniamo alle cose di packaging. Questa etichetta creata dal gruppo vinicolo Pellegrino (più noto per il Marsala) risulta molto attenzionale. Sono i colori, certo, ma anche lo stile, pulito ed essenziale, che comunica precisione e quindi competenza. Nella grafica, il tracciato cartografico di una vigna viene evidenziato, in particolare, con un strato di colore fucsia. La dicitura “vino biologico”, del medesimo colore vivace, viene giustamente enfatizzata, laddove il marketing dell’azienda ha deciso di puntare (anche) su questa categoria di prodotti. I caratteri di scrittura sono squadrati, compatti, solidi (proprio come il concept utilizzato per il nome del vino). L’etichetta risulta organica, bilanciata, in una parola credibile. Coerenza e gusto prendono un abbrivio vincente.

Nomi Scomposti su Etichetta Sterile

Caraconessa, Greco Bianco e Malvasia, Fezzigna.

L’etichetta di questo “Melissa Doc” (la pianta aromatica non c’entra, si tratta di un paese in Calabria, in provincia di Crotone) non è commentabile, nel senso che è così semplice (dimessa, informale e senza forma) da “non sussìstere”. Quello che ha attratto la nostra attenzione sono i nomi (tre) che appaiono nel packaging sia pure in modo disorganico. In alto in verde leggiamo “Caraconessa” (verrebbe da leggere Cara Contessa, ma non è, quindi non si tratta di un errore): è il nome del luogo dove ha origine e sede l’azienda vitivinicola in questione. Poi al centro leggiamo “Melissa” con un carattere molto graziato: verrebbe da capire che quello potrebbe essere il nome del vino, facendo riferimento, oltre che a un luogo (poco conosciuto) anche a una pianta e a un nome di donna. La Doc Melissa infatti è davvero sconosciuta, ecco perché, presentato così, si potrebbe generare un malinteso. Infine in basso vediamo il cognome (nonché il marchio) della famiglia titolare: Fezzigna. Le molte consonanti non producono una fonetica agile, ma tant’é che il cognome è questo. Come logo vediamo una “F” con incastonata una rosa. Il tutto risulta poco incisivo. Per riassumere: abbiamo due nomi strani (che non suonano bene, quindi poco memorabili) Caraconessa e Fezzigna e un nome suadente, Melissa, che però è il nome della Doc e non quello del vino. Insomma l’etichette rischia di “scivolare via” senza tanti complimenti.

Convivialità Porta Qualità (e Viceversa)

Barbaresco (Rabaja), Bera Vini.

L’etichetta non è delle migliori. Piuttosto datata come stile e anche come impaginazione grafica non se la cava benissimo (i testi sono centrati, meglio dire ammassati, e sono troppi). Ma quell’immagine nella parte superiore, che raffigura tre uomini, merita comunque un approfondimento. Tre uomini che parlano, discutono, probabilmente davanti a qualche buon bicchiere di vino. I colori e l’abbigliamento richiamano il periodo medievale, l’atteggiamento evoca un appuntamento conviviale, sereno, allegro. La parte rassicurante del vino, non quella molesta di un consumo eccessivo, emerge con evidenza. Il vino è “stare insieme”, confrontarsi e dialogare. Questo atteggiamento trasmette sensazioni di benessere, e automaticamente di affidabilità, di qualità, di cose fatte per bene. C’entra la tradizione, certo. Che in Piemonte è più radicata, o semplicemente più considerata, rispetto ad altre regioni d’Italia. E la tradizione, quando non esasperata, bensì accompagnata anche da risvolti evolutivi, ha un gran peso nella percezione e nella fruizione del vino in Italia. Un uso equilibrato di tradizione e innovazione sarebbe auspicabile per ogni azienda vinicola.

Una Corteccia Carioca per una Ricetta Piemontese (in Oltrepò)

Il Chinaldo, Pinot Nero aromatizzato, Finigeto.

Questa bottiglia “arlecchino” contiene un vino aromatizzato. Un “chinato” per la precisione, ricetta piemontese che varia di famiglia di famiglia e di storia in storia (anche se qui di Piemonte non se ne vede, perché siamo a Montalto Pavese). Il vino comunque si compone di spezie e vino rosso. In questo caso Pinot Nero. La corteccia di china è da sempre un elemento primario dei vini “chinati”. Da qui anche il nome di questo vino: “il Chinaldo”, generato da un gioco di parole col nome del titolare dell’azienda, tale Aldo Dallavalle. Ma torniamo alla variopinta etichetta. L’articolato reticolo di macchie di colore attira l’occhio, sia pure non avendo riferimenti grafici di concetto. Diciamo che sono i colori, come spesso accade anche in natura, che sollecitano retina e curiosità. Questa trama però va a discapito della leggibilità delle parole in essa inserite. Il nome del vino si salva, nel senso che solo “il”, l’articolo che precede “Chinaldo”, si perde un po’. Mentre per il nome dell’azienda, in alto, “Finigeto” e la sua F stilizzata, i problemi di percezione sono evidenti. Forse tutti quei tasselli colorati rappresentano le innumerevoli spezie-ingredienti di questo vino aromatizzato, ma ciò non basta a giustificare un equilibrio grafico non studiato ad arte. Ci scusiamo per la scarsa qualità dell’immagine, ma in rete non si trova di meglio. E nell’epoca delle fotocamere, anche negli smartphone,  da 12 megapixel, risulta quasi incredibile (cioè: non ci vorrebbe molto per le aziende, nel loro interesse, scattare foto di migliore qualità).


Idee Nuove in Terre Lariane

Lupone, Merlot e Cabernet,
Azienda Agricola Runch.

L’etichetta del “Lupone” non è male. Anzi, possiamo dire che si fa notare per originalità e anche coraggio, visto che ci troviamo nell’entroterra brianzolo, a Montevecchia, e che l’azienda che l’ha creata è una piccola realtà poco conosciuta. Ma vediamo dove sono i pregi di questo packaging. In primo luogo pochi, ma impattanti, elementi: la stilizzazione, essenziale, artistica, contemporanea di un pastore tedesco (molto probabilmente la mascotte dell’azienda vitivinicola in questione), il colpo d’occhio del cuore rosso del cane (potrebbe disturbare, risulta “violento”, ma certamente colpisce), quindi il nome del vino scritto in corsivo, in rosso, non immediatamente leggibile ma anch’esso dotato di uno stile particolare, infine il nome del produttore alla base e subito sotto la località. Tre elementi in sostanza: l’illustrazione, il nome del vino, l’azienda. Da notare che il nome del vino è stato stampato con un inchiostro speciale, smaltato e in leggero rilievo. Per il resto... bianco a stacco. Certo si fa fatica a trovare un concept, se non, come già detto, un omaggio al cane di famiglia. Un’altra particolarità: nel sito internet il nome dell’azienda diventa “Runch”, creando un gioco di parole italiano-inglese, tratto dal cognome del titolare (Ronchi), e dalla località (Ronco Alto).

Vino d’Oliva, Strano ma Vero

Di Oliva, Riesling Renano, Defilippi.

Sono molte le particolarità di cui parlare, osservando questa etichetta. Cercheremo di essere brevi. Si tratta innanzitutto del vino di una cantina dell’Oltrepò, con sede a Oliva Gessi (poi torniamo su questo nome), tra Casteggio e Montalto Pavese. L’azienda produce vino dal 1907, di generazione in generazione. Oggi uno dei vini più rappresentativi di questo produttore è un insolito Riesling Renano (di solito su quelle colline vige il Riesling Italico). Veniamo all’etichetta vera e propria. In alto leggiamo, ben evidente, il nome del produttore (il cognome per l’esattezza): Defilippi (tutto attaccato e non De Filippi). Dalla parte opposta, in piccolo, alla base dell’etichetta, scopriamo che il titolare risulta essere Defilippi Fabbio (proprio così: con due “b”, mai visto prima). Sotto al cognome grande, Defilippi, ecco la scritta “i Gessi” a sua volta seguita da un motto latino: “Labor custos Pacis (dal 1907)”. Il significato più o meno è: “il lavoro è custode della pace”. Al centro dell’etichetta la foto di una brocca molto antica. Alla sua sinistra la spiegazione: “Brocca bronzea di epoca romana utilizzata per il vino e ritrovata a Oliva Gessi”. E veniamo quindi alla località dove ha sede l’azienda: Oliva (nome del “ligustro”, un arbusto ligure) e Gessi per i depositi gessosi sfruttati anticamente in quelle zone. Ultimo ma certo non meno importante, quello che dovrebbe apparire come nome del vino (anche se si trova defilato): “di Oliva”. Quasi come se ci trovassimo davanti a un Extravergine (i colori dell’etichetta confermerebbero). Troppi elementi tutti insieme? Eppure l’etichetta si fa notare e non dispiace. E per quanto riguarda il vino siamo di fronte a un prodotto di tutto rispetto.

Uno Storico e Stoico Bianco e Nero

Lolly, Chardonnay,
Podere Ruggeri Corsini.

Perché mettere la foto (storica) di famiglia su una etichetta di vino? Vediamo di ragionarci sopra. Questa scelta potrebbe rivelare la volontà di esprimere l’avvicendarsi delle generazioni alla guida di una cantina. Come valore, naturalmente. Cioè il fatto che tramandando il “buon fare” di padre in figlio (o figlia) la qualità e l’affidabilità di una azienda ricevono giovamento. Oppure si tratta di imprimere all’etichetta uno stile retrò per garantire una percezione classica, seria, tradizionale del prodotto e di chi lo fa. Non è da escludere un guizzo d’orgoglio da parte di un membro della famiglia, per la composizione della stessa o per mostrare al mondo le creature. Certo che utilizzando il format bianco e nero come in questo caso, la memoria va subito alla Famiglia Addams del noto telefilm (in prima fila vediamo anche una inquietante bambola che avrebbe fatto la felicità di Stanley Kubrick). L’etichetta qui in analisi, oltre alla foto in bianco e nero per la quale abbiamo cercato di trovare ragioni, presenta un design semplice, dai toni cimiteriali (scritte in argento su nero), senza elementi di spicco se non il nome del vino (più che “di spicco” si tratta di un nome insolito e quindi curioso) “Lolly”. Probabilmente il diminutivo di Lorenzo, pargolo della famiglia, forse nemmeno molto contento di farsi chiamare così.

Frutti e Animali Lontani

18.5k, Pinot Nero, Giacomo Baraldo.

Davvero curioso il percorso mentale che ha portato Giacomo Baraldo, giovane viticoltore in Toscana, a generare questa etichetta. Partiamo dal fatto che oltre a produrre vino in Italia, Sangiovese e altro, Giacomo si dedica anche a una chicca neozelandese, il pinot noir che produce laggiù (crediamo per interposte persone). Questa etichetta si riferisce proprio a quel vino. Viene raffigurato l’animale simbolo della Nuova Zelanda, il Kiwi, che in questo caso non è il noto frutto peloso ma un gallinaceo piumato. Kiwi deriva dal greco e significa “privo di ali”, infatti l’animalino in questione non vola ma riesce a nuotare molto bene. Insomma ce n’è abbastanza per far parlare di sé. In aggiunta a questo, l’illustrazione ci mostra la sezione dell’uccello acquatico, costituita non dalle sue vere interiora, bensì a sua volta dalla sezione di un chicco d’uva. Le stranezze non finiscono qui: il nome del vino, ufficialmente 18.5k, sarebbe la distanza (18.500 km) dall’Italia alla Nuova Zelanda. Possiamo anche aggiungere, per concludere con le originalità di questo packaging, che la “O” del nome Giacomo Baraldo, in alto nell’etichetta, è una impronta digitale. E subito sotto la scritta, in francese, “vigneron”. Di questa etichetta si potrebbe scrivere un romanzo.

Troppo TOP, Troppo POP

T.O.P. Zero, Spumante MC Pinot Nero, Giorgi.

Questo prestigioso (per il fatto che sta 80 mesi sui lieviti) spumante Metodo Classico si presenta con un misterioso nome. Molto semplice se si osserva in modo superficiale: si legge “Top Zero” e si intuisce che si deve trattare di un dosaggio zero. Ma analizzando meglio l’etichetta (non ci vuole molto: si tratta di un packaging che comunica in modo elementare) si scopre che la prima parola del nome del vino è punteggiata, T.O.P., inoltre quel cerchietto rosso tra le due parole potrebbe anche indurre a leggere “topo zero”, una specie di Topo Gigio matematico. Ma pur tentando di ignorare il grosso punto rosso, ci siamo subito chiesti cosa potrebbe significare l’acronimo T.O.P. e le possibilità sono infinite: Tiraggio Oltre Pressione? Troppo Ossigeno Presente? Tipico Ordito Pleonastico? A parte gli scherzi, non abbiamo trovato una plausibile spiegazione nemmeno nel sito del produttore. E comunque vale sempre l’immediatezza, nella comunicazione via etichetta. Chi si trova davanti a questa bottiglia, cosa potrebbe pensare? Come potrebbe leggerla? Come potrebbe reagire? Queste sono le domande di base che sempre bisognerebbe porsi prima di definire il design estetico di un vino.

Bellissimo, “Brutissimo”, Rosatissimo

Brutissimo, Spumante Rosato, Cà  Salina.

E’ concepibile chiamare un vino “Brutissimo”? A Valdobbiadene l’hanno fatto. Accade nella patria universale del Prosecco (Glera) dove ci si diletta anche nel produrre altre tipologie di vino, giusto per arricchire la gamma e rispondere in modo più completo alla “domanda” di bollicine. Certo, si capisce bene che il nome di questo vino, un rosato da Incrocio Manzoni 13.0.25, deriva dalla terminologia “Brut” (in questo caso ottenuto con Metodo Charmat), ma quello che si percepisce non è “un brut ancora più brut” in senso organolettico, bensì un “bruttissimo”, in senso estetico, come se il nome avesse una doppia “t”. In realtà la bottiglia non è brutta nel suo insieme, grazie anche al bellissimo colore del vino. L’etichetta non si distingue per particolare eleganza ma diciamo che ottiene la sufficienza. In particolare nel design emerge il nome dell’azienda, Ca’ Salina e, più in piccolo, il motto annesso e connesso: “gaudium hospitis”, che sarebbe “la gioia dell’ospite”. L’azienda infatti fa vanto di uno stile e una modalità di accoglienza che privilegia gioviali degustazioni accompagnate da prodotti agroalimentari locali. Il “Brutissimo” e i suoi fratelli (varie versioni di Prosecco) potrebbero, in convivialità, generare bellissime emozioni. Ma rimane la perplessità sul nome del vino. N.B.: il vitigno Incrocio Manzoni 13.0.25 nasce da Raboso Piave e Moscato d’Amburgo.