I Vigneti a Nord, Escono dalla Clandestinità
Vino Elegante, Nome Petulante
Scrapona, Moscato d’Asti, Marenco.
Un vino così “gentile” come il Moscato d’Asti (quello dolce e aromatico) si meriterebbe un nome diverso da questo. Infatti questo Moscato Bianco Docg dell’azienda Marenco di Strevi, si chiama “Scrapona”. Ora, pur considerando che questo nome nasce da una toponomastica storica (la vigna dove viene coltivata l’uva), non si può certo parlare di eleganza. “Scrapona” è così poco aggraziato nella pronuncia (e anche in lettura) che rischia di compromettere l’eleganza del vino stesso e dell’etichetta, che a ben guardare è opera fine e graficamente molto gradevole. Tralasciando quindi il nome e concentrandoci sul design vediamo in alto due oche in volo sotto le quali si legge il nome dell’azienda (il tutto con un prezioso inchiostro in oro e in rilievo). Segue il nome del vino e ancora più in basso il vitigno, sempre in oro su una bella carta color crema che tiene insieme il tutto con classicità ma anche con una semplicità impreziosita con gusto. Anche altri nomi dei vini aziendali non convincono del tutto, come quello del Moscato Secco “Ma Mù” (proprio così) come sintesi di Marenco Muscaté, oppure “Carialoso” (Monferrato Bianco) e ancora “Valtignosa” (Cortese Frizzante).
Gigiò, Gigino, Gigetto e un’Allegra Brigata
Paonazzo, Sangiovese e Colorino, Poggio la Noce.
Le etichette di questo produttore toscano di Fiesole sono tutte molto particolari, accomunate da un “family feeling” che le rende riconoscibili in mezzo a molte altre, sugli scaffali (e già questo potrebbe bastare). Tra tutte abbiamo scelto l’ultima arrivata, anche perché il nome del vino è divertente: “Paonazzo”. Certo, il colore del vino è “rosso rubino molto intenso”, da qui l’effettivo significato della parola: accusare un colorito del volto piuttosto acceso. L’immagine al centro dell’etichetta ci guida però alla vera origine della parola, infatti paonazzo o pavonazzo o pagonazzo come antiche accezioni, riportano al pavone e a una delle sfumature di colore della sua coda, cioè un violaceo piuttosto scuro. Ed ecco che il “Paonazzo” insieme al noto e vanesio pennuto stabilisce un contatto visivo e un cortocircuito mentale che fissano nella memoria il prodotto. Ed è proprio questo il compito del packaging-design e della comunicazione in generale. L’azienda è stata fondata ed è attualmente di proprietà di Claire Beliard ed Enzo Schiano che coltivano 16 ettari di vigne sulle colline nei dintorni di Firenze. Ma vediamo i nomi anche degli altri vini della produzione: Gigiò (blend di Sangiovese e Colorino), Gigino e Gigetto (Sangiovese) e Pinko Pallino (nome che ci è particolarmente simpatico), rosato di Sangiovese. Nel complesso un’operazione di design semplice, dotata di ottima originalità, con il sorriso sulle labbra.
Cacofonie Laziali in Terre a Denominazione Garantita
Cifione, Cesanese del Piglio, Petrucca e Vela.
In primo luogo, di questa etichetta, ci hanno sorpreso i nomi: Petrucca e Vela sono i cognomi dei due titolari, cioè Tiziana Vela e il marito Fabrizio Petrucca, che coltivano le loro vigne a Piglio, in provincia di Frosinone, cittadina che dà il nome alla denominazione (costituita al 90% dal Cesanese di Affile) che nel 2008 ha segnato la nascita della prima Docg del Lazio. Naturalmente abbiamo notato anche il nome del vino, “Cifione”, e ci siamo dati da fare per trovare una spiegazione. Il sito dell’azienda, ad oggi è in ristrutturazione per cui non si possono leggere specifiche sui singoli vini. E anche girovagando per la rete non si trovano spiegazioni, storiche o dialettali, di questo cacofonico nome. Giacché “Cifione” suona proprio male. Sarà per la somiglianza con “cifone” che, di origine dialettale, starebbe a indicare una persona con un andamento incurvato, ingobbito; ma anche solo per la fonetica, goffa e “ingombrante”, che trasmette sensazioni di pesantezza e gergalità. Gli altri nomi dei vini di questo produttore sono: “Tellures” (un altro Cesanese, top di gamma), “Agape” e “Nerva” (altri due Cesanese) e “Vela” (Passerina del Frusinate). Tutti abbastanza strani, tranne “Vela” riconducibile al cognome della titolare. Graficamente le etichette sono pulite, ordinate, originali. In quella che mostriamo qui a fianco si vede un grappolo stilizzato, forse troppo tecnologico, ma particolare e quindi che sa farsi notare. In alto i cognomi dei titolari e il marchio, uno stilema formato da una P e una V fuse insieme. Tutto sommato un packaging valido e funzionale, ma “Cifione” proprio non ci piace (il vitigno invece sì!).
Romanticismi Famigliari in Riva al Lago
L’Estro Creativo di Positano, in Napa Valley
Farella Vineyard, Cabernet Sauvignon,
L’azienda si trova in Napa Valley, California. Ma il nome del vignaiolo nonché imprenditore è inequivocabile: Massimo Di Costanzo. Radici italiane in quelle vigne. In particolare a Positano, sembra, dalle riscostruzioni storiche di famiglia. Massimo, dopo varie e importanti esperienze enologiche in Toscana, Stellenbosch, Mendoza e non ultimo per la nota marca americana Screaming Eagle, decide di mettersi in proprio e creare un’azienda vitivinicola indipendente. Le etichette sono molto particolari. Quasi dei quadri di arte contemporanea, come questa, relativa al Cabernet. A parte il cognome del produttore, in basso ma ben visibile e leggibile, il centro dell’etichetta è occupato da un vortice di pesci. Proprio così, un banco di pesci rilucenti a formare una nuvola cromatica che trasmette profondità e mistero. Molto realisticamente uno dei misteri è che il vino in questione è rosso, per cui, almeno da noi, qui in Europa, male si adatta a una cucina ittica. Soprassedendo possiamo dire che l’illustrazione con i pesci, ripetiamo, praticamente un’opera pittorica, è molto bella, originale, coinvolgente. Denota stile e cultura dell’immagine e anche una certa abilità realizzativa. Sarà il frutto dei geni italiani che i nonni di questo produttore americano gli hanno fornito nell’avvicendarsi delle generazioni?
Per il Corpo e per lo Spirito
Perlagioia, Albana, Ancarani.
Questa azienda con sede nei dintorni di Forlì si sta distinguendo per la produzione di vini schietti e fedeli al territorio. Le etichette vanno di pari passo. Originali, dirette, pulite, insomma spesso insolite e coraggiose. Come questa, che veste un bianco secco, da vitigno Albana (anche se non si può dire in etichetta per questioni normative), che si presenta con un messaggio chiaro: forchetta e coltello. Insomma un vino da portare in tavola e da accompagnare con qualcosa di masticabile, possibilmente gastronomico, come insegnano le tradizioni di quei luoghi. Le posate elette a simbolo di un buon vivere che non può escludere un buon vino. Per quanto riguarda il nome del vino ci sono alcune osservazioni da fare: “Perlagioia” viene scritto tutto di seguito, creando così una specie di neologismo, una parola nuova che però nasce chiaramente dalla ricomposizione di “per la gioia”. Da notare che si potrebbe anche suddividere in “perla gioia” dove la perla trasmette sensazioni di preziosità. Il primo intento è assolutamente la gioia, come dichiarato dal produttore anche nel proprio sito: la condivisione, la convivialità, l’allegria di una buona tavola, con tutto quello che ne consegue.
Il Caso del Casino Incasinato
Casino Murri 14,
Nome composito per questo vino abruzzese: parole e numeri. Fin troppo. In etichetta risulta subito evidente il numero, il l4. Si pensa subito alla gradazione e infatti si pensa bene. Ci si chiede come sia possibile tenere fede ogni anno al nome prescelto, con la corrispondente gradazione (le annate cambiano: più caldo, più freddo, etc). Sotto al numero leggiamo Casino Murri. Viene da dire che in italiano “casino” è sì una piccola casa, ma anche tutto il resto. Insomma, si potrebbe dire un casotto. Per il resto l’etichetta è molto classica, con una base di colore chiaro, una illustrazione sullo sfondo che raffigura filari di vite, logo aziendale in alto, nome del vitigno in basso. Niente di veramente emozionante se non quel grande numero al centro del packaging che potrebbe colpire i fanatici della smorfia napoletana (a proposito, il 14 è l’ubriaco, e forse non è del tutto casuale). Per concludere un’occhiata al marchio aziendale, sintetizzato con due lettere, S e G, affiancate dentro a un rettangolo che sta un po’ stretto. Il nome della cantina è San Giacomo, il paese dove ha sede è Rocca San Giovanni… speriamo che non litighino!
Tra il “Losco” e il Brusco, ma con Linearità
La Gentilezza del Calice (e della Produttrice)
Prima, Durante e Dopo i Pasti
Trebbiano, Cerasuolo e Montepulciano d’Abruzzo, Rabottini.
Capita raramente di incontrare vini “tutto nome”. In pubblicità si parlerebbe di “copy-ad”. In pratica l’etichetta è costituita dal solo nome del vino. Con l’aggiunta, necessaria, del nome del produttore (e del claim, che vediamo dopo). In questo caso l’azienda Rabottini gioca la propria comunicazione in etichetta su informazioni molto basiche: “per iniziare”, “a salire” e infine… “ed in fine”. Si tratta proprio dei nomi dei vini: in pratica sono degli evidenti consigli per il momento di consumo. Per iniziare c’è un Trebbiano d’Abruzzo, a salire un Cerasuolo ed in fine il Montepulciano, in una logica progressione bianco-rosato-rosso. Il nome (consiglio d’uso) è preponderante, non si può non notare. Ma, sia pure con un carattere molto più piccolo, sotto al nome del produttore, si nota anche un claim particolare: “prodotti di campagna”. Si allude anche all’olio d’oliva, parte importante delle attività aziendali. Insomma la gamma delle produzioni non si limita al vino che comunque si è guadagnato il favore degli intenditori, facendosi notare per la qualità nel bicchiere e ancora prima, alla vista, per questa curiosa e a nostro parere efficace (in quanto molto originale) modalità di nominare/identificare le bottiglie.
La Donna di Bastoni Come Icona Protettiva
Celebrare la Rivoluzione con Insolite Bollicine
Revolution, Cuvée Spumante, Hlebec.
Davvero rivoluzionario questo vino, quanto meno per chi è abituato ai soliti vitigni da Champagne. Si tratta di bollicine, certo, ma prodotte in prevalenza con il Furmint, molto noto in Ungheria, anche se di fatto siamo in Slovenia, a nord-est, in un angolo di terra tra Austria, Ungheria e Croazia. La rivoluzione viene compiuta anche in etichetta con il nome propriamente detto e il gioco di parole (e di grafica) che si porta dietro: leggendo al contrario una parte del nome viene evidenziata (in rosso) la parola “love”. Non a caso il titolare dell’azienda, Milan Hlebec, definisce questo spumante come “il vino dell’amore”. Il packaging è spartano e non per questo meno attenzionale. Il nome del vino viene scritto con un carattere molto incisivo, squadrato, ben leggibile. Il gioco di parole è inequivocabile grazie al colore rosso delle lettere, la stella sopra al nome riporta a qualche reminiscenza del regime sovietico del secolo scorso. Alla base vediamo scritto in oro il nome dell’azienda. Tra le righe, in piccolo, leggiamo “Special Sparkling Cuvée”, una modalità nobilitante che risolve l’imbarazzo tra rifermentato, metodo Martinotti o Classico che sia (di fatto non viene dichiarato, stiamo indagando). Che dire? L’etichetta è coraggiosa, con personalità e un tocco di creatività. Promossi.