Minus che Diventano Plus

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Culley Road, Shiraz, 
Altschwager & Kenneally Wines.

Diciamo subito che questa etichetta ha ricevuto un premio per la grafica (Tdc: Certificate of Typographic Excellence). In apparenza ci sarebbe poco da dire: si tratta di un packaging davvero molto semplificato. In realtà, come dicono gli esperti del settore, “nel meno c’è il più” (citando un famoso architetto). Vediamo quindi di analizzare questo “meno” (tutt’altro che un “minus”): carta goffrata e leggermente ambrata che fornisce una sensazione anche tattile di preziosità; caratteri di stampa semplici ma incisivi, chiari, statuari, senzienti; ed ecco il colpo di genio: le lettere della seconda parola “volano via” con una modalità che “trascina” la mente, stabilisce un corto circuito mnemonico, cattura l’attenzione.
Etichette packaging naming
Quella stranezza nel modo di scrivere (di posizionare le lettere, sostanzialmente) genera immaginazione: è il vento? È la strada? (Road) È un volo di gabbiani? È un gioco? È allegria? È un pizzico di follia e quindi di originalità. Tanto basta. Qualcuno potrebbe dire che questa etichetta è banale, noi diciamo che è ricercata. Ebbene, la ricercatezza risiede nei particolari di un’idea. E avere belle idee non è prerogativa di massa. Altrimenti sarebbero “capaci” tutti. Naturalmente tutte le informazioni che una bottiglia deve fornire al consumatore sono state raggruppate nel retro-etichetta, che risulta quindi tutt’altro che pulito. Comunque ordinato ed esplicativo per quello che serve. Complimenti a questo produttore neozelandese e all’agenzia di packaging che ha creato per loro l’etichetta in questione.

P come Pinot e come Poema

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Orlando Innamorato, Pinot Nero, 
La Guardiola.

Ci sono due belle storie dietro al nome di questo vino. Una è quella del produttore di origini venete (si chiama proprio Orlando) che trasferitosi in Toscana, ivi coltiva in altura, in provincia di Arezzo, Sangiovese, Pinot Nero e altre uve. L’altra è quella del poema scritto nel 1476 da Matteo Maria Boiardo con il titolo “Orlando Innamorato”. Si tratta di un poema cavalleresco composto in ottave “rimate” che non ottenne grande fama (anche perché non fu concluso, causa morte prematura dell’autore) fino a quando l’Ariosto non lo riprese creando l’Orlando Furioso, molto più noto e pubblicato. Notevole lo spessore semantico e narrativo dell’Orlando Innamorato (titolo originale: “L’inamoramento de Orlando”, con una “n” secondo il volgare settentrionale dell’epoca con cui è redatto). Ecco un tratto dall’opera: “Io tiro teco a un segno, che l'arme son de l'omo il primo onore; ma non già che il saper faccia men degno, anci lo adorna come un prato il fiore”. Veniamo all’etichetta di questo Pinot Nero di Toscana (di qualità fotografica non eccelsa, quella qui riportata, ma attualmente non se ne trovano di migliori nemmeno nel sito del produttore): dai tratti classici, una bella illustrazione “d’epoca”, al centro, raffigura il nostro eroe (Orlando) mentre beve da un calice. Vicino al nome del vino vediamo un cuore, accenno di romanticismo che risulta efficace anche cromaticamente. Un particolare di grande finezza: il cuore è posizionato proprio al posto giusto (sul petto) dell’ingrandimento dell’Orlando che si intravede sullo sfondo dell’etichetta. I caratteri di scrittura sono giustamente arcaici. Il logo dell’azienda, in alto, “La Guardiola”, di sintesi e ben realizzato. Complessivamente una buona etichetta con un bel racconto da esprimere. Rimane il sospetto che l’Orlando (attuale) si sia innamorato davvero della Toscana (Val di Chiana).

Follature Sì, Affollamenti No

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Amacos, Frascati Superiore, De Sanctis.

Il nome di questo vino viene spiegato direttamente sul fronte-etichetta. Diventa così più incisivo, più rappresentativo ed efficace. La scelta di spiegare le origini del nome direttamente in etichetta è sempre vincente, anche se costringe a qualche ragionamento in più nella gestione degli spazi dedicati alla grafica. Lo spazio di un’etichetta è davvero risicato e gli elementi di comunicazione mai dovrebbero risultare affastellati. Ecco perché è necessario operare delle scelte. Decidere cioè quale elemento è più importante di altri. In questo caso, analizzando in generale il packaging, spiccano (oltre al nome, in bella evidenza, e alla sua spiegazione) una figura angelica, molto bella, e il nome del produttore, in basso. Per il resto il design è pulito, evidenziante, ordinato, valoriale. La cantina in esame è di nuova istituzione, si è dotata di strumenti moderni, sia per quanto riguarda le tecniche di vinificazione, sia per quanto riguarda il marketing. E questa etichetta è una valida testimonianza. Tornando e concludendo con il nome in questione, “Amacos”, che in greco significa appunto “pacifico”, è sicuramente riferito alla sua “maturazione” di 6 mesi in botte. Come dire che un vino di qualità ha bisogno di periodi di stasi, di riposo, di tranquillità, per diventare, a tempo debito, piacere per la tavola.

Editori e Viticoltori Rigorosi

Barolo, Gregorio Gitti, Castello di Perno.

È la volta dello strano caso dell’azienda vinicola (a Monforte d’Alba) che è anche un editore di libri d’arte (a Brescia). Si dirà: l’arte e il vino sono sempre andati d’accordo. Ma vediamo gli elementi distintivi della comunicazione a partire dall’etichetta. Innanzitutto il logo, un esagono (o celletta d’ape, se vogliamo essere ecologici piuttosto che geometrici) ma potrebbe essere anche la testa di un bullone (l’azienda si chiama Castello di Perno). Molto spartano il logo, molto spartane le etichette. Prendiamo qui come esempio quella del Barolo (l’azienda produce anche Nascetta, Dolcetto, Barbera, Nebbiolo, tutti vini con la medesima etichetta, cambia solo il colore del profilo dell’esagono grande). La prima reazione, per una analisi tecnica del packaging, è di imbarazzo. Molto bianco (e fin qui niente di male) con elementi “sparsi”. La cornice dell’esagono grande taglia la scritta “Barolo”, isolando (diciamo inglobando) le lettere “Ba”, in modalità formula chimica. Si intravede (poco) una specie di stemma grigino al centro dell’esagono e in basso a destra, con lo stesso tono di grigio, una sigla: “GG”. In alto a destra, sotto all’esagono piccolo a pieno colore, il nome e cognome del titolare: Gregorio Gitti. Se si tratta di arte, potremmo definirla contemporanea? Se si tratta di grafica, forse di germanico rigore. Se si tratta di packaging probabilmente siamo di fronte a una genialità incompresa.

Poetica Bucolica-Alcolica

A taj, Chardonnay, Cascina Castlet.

Bella, bella, bella. Non tanto l’etichetta che se vogliamo possiamo definire “tipografica”, cioè fin troppo “parolata”. Bensì la descrizione di questo vino, tra il poetico e il narrativo-filosofico, che il produttore propone al proprio pubblico nel sito web aziendale: “Una nuvola colma di parole. Un dizionario antico di suoni e significati sorprendenti. Sono gioco e memoria. Se fossi lapide avrei le lettere scolpite nella pietra. Le mie sono incise nell’aria di queste colline. Modi di dire e richiami, metafore e paragoni. Nomi e suoni che hanno attraversato il tempo. Chi non le comprende le liquida come espressioni del dialetto. Qui si rispetta la lingua dei padri, trasmessa di bocca in bocca, di madre in figlio, e ancor oggi usata per affinare e rendere più viva una frase. Ci sono parole che paiono prese a prestito da lingue lontane. Testimoni dei secoli solcati dai viaggiatori, commercianti e eserciti. Uomini spinti dalla fede o dalla sete di potere, dalla fame o dalla voglia di scoprire l’oltre. Ogni uomo lascia un segno, a volte anche solo una parola. Quante ne sai nascoste nella tua memoria? Prova a legger le mie mentre assaggi lo chardonnay che mi dà vita. Scoprirai assonanze e intuizioni. Aggiungine pure tu, coglile dal tuo sapere e mettile sulla giostra dei suoni. Sono Ataj. Chi mi pronuncia dice di cosa giusta al momento giusto”.
Se approfondiamo la comprensione di questa etichetta possiamo aggiungere che il nome del vino, “A taj”, sempre con le parole del produttore: “...in piemontese significa utile, bello, che giunge al momento giusto”. Interessante anche la dinamica collettivista che ha portato alla realizzazione dell’etichetta: “Per scegliere il nome a questo nuovo vino, la nostra azienda ha indetto un concorso tra clienti ed amici; in tantissimi hanno risposto e un centinaio di proposte sono state scritte sull’etichetta in ordine sparso e casuale a formare quasi una nuvola di parole che evocano i vari aspetti del vino, usando metafore e dialetto, semplici sintagmi, provocatori solecismi e ricercate antiche dizioni; da questa nuvola di significati emerge A TAJ, al centro, come una scelta naturale”. Complimenti per l’estro e la creatività. Soprattuto nell’arcaica cultura del vino piemontese, nonostante il dialetto (che più volte abbiamo osteggiato in questo blog), chi osa vince.

Pensiero Positivo con Nomi Negativi

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Pallido, Montepulciano Rosato, Simone Capecci.

Proprio così: questo vino si chiama “Pallido”. Non vi sono molti dubbi, da subito, sulle intenzioni di questo nome e di chi lo ha pensato. Pallido come il vino che nomina e rappresenta. Certo non siamo di fronte a un complimento. Quando si dice di qualcuno che sia pallido, di solito non significa niente di buono. In generale anche nell’ambiente più tecnico dei colori, qualcosa di pallido allude a una modalità di comunicazione timida, remissiva, introspettiva. Ed è forse in quest’ultima accezione che possiamo trovare qualcosa di positivo: un rosato con uno stile dimesso ma elegante, almeno per quanto riguarda il cromatismo. Ma vediamo cosa dice il produttore, riguardo a questo nome: “Vino rosso vestito di pallido. Pallido è il colore del vino, il massimo del pallido di cui può vestirsi un’uva rossa, guardando all’incontrario un grappolo di uva Montepulciano, vinificato in assenza di ossigeno”. Evince ma non convince, a nostro modesto parere: il pallidume è comunque una nota “grigia”. Analizzando più in generale le etichette di questo stimato produttore di Ripatransone (nelle Marche) vediamo che sono di buona fattura, pulite, eleganti, abbastanza distintive.
Al centro di ognuna di esse campeggia un simbolo rotondo che viene così spiegato dall’azienda, nel proprio sito internet: “Pochi elementi di straordinario impatto contribuiscono a definire, anche graficamente, la filosofia ed il pensiero di Simone Capecci: l’Armilla Picena, posta al centro dell’etichetta e sovrastata dal nome del prodotto rimanda, a colpo d’occhio, ad una composizione tanto essenziale quanto equilibrata, equa, armoniosa, proprio come il naturale divenire delle cose. Tracciando, immaginariamente, due rette simmetriche ed oblique che a partire dai due estremi del nome del prodotto convergono sull’Armilla Picena si crea, inoltre, una celebre figura simbolica, cara alle religioni arcaiche, che, con la sua forma ad imbuto, rappresentava per gli antichi il simbolo del ventre materno, il cosiddetto Femminino Sacro, metafora spirituale associata appunto al culto della Dea Madre e al concetto di fertilità”. Abbiamo cercato il “Femminino Sacro” in rete ma senza risultati eclatanti: molto spesso si tratta di varie rappresentazioni di un semplice triangolo. Infine ha attirato la nostra attenzione anche un altro nome di un vino di questo produttore, quello del Pecorino “Mvria”, scritto così, con la “v” all’uso di “u”, come insegnavano i latini, o meglio gli Antichi Romani (testo del produttore): “Con il termine Mvria i Romani identificavano un vino minerale e sapido, caratteristiche rigorose e preziose che contraddistinguono questo vino bianco dalle spiccate peculiarità”. Per la precisione, dicono alcuni dizionari, “mvria” starebbe per “sale marino”. Fatto sta che tra pallore e “muria” (come si dovrebbe leggere questo nome, mutando la “v” in “u”) la percezione non può essere totalmente positiva. Meglio gli altri nomi dei vini aziendali: Ciprea (Pecorino), Picus (Rosso Piceno), Tufilla (Passerina), Fedus (Sangiovese), Qvinta Regio (Montepulciano).

Parla Molto Questo Vino Taciturno

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Taso, Valpolicella Superiore, Tenuta Villa Bellini.

“Taso” è un vino che cambia vestito continuamente. Non ha fissa dimora per quanto riguarda il packaging. Non offre riferimenti se non uno sfondo cromatico molto colorato. Che si fa notare. Si esprime spesso in italiano ma anche in inglese e in francese. Non ci sono regole, insomma. Se non quelle che la produttrice (Cecilia Trucchi, in quel di San Pietro in Cariano, in piena “zona Amarone”) si è data nella realizzazione di vini biologici con una attenzione particolare per il rispetto delle tradizioni locali. Quale etichetta abbiamo scelto per rappresentare questa cantina “creativa”? Una in francese, che afferma una bella e poetica verità: “Et voilà! Cecì n’est pas un vin, c’est l’amour”. Niente da aggiungere, il vino è buono quando fatto per e con amore. Il vino è anche, esso stesso, amore, quando riscalda le tavole conviviali, indifferentemente di famiglie, amanti, amici, viandanti.
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E veniamo al nome del vino, “Taso” che tradotto dal dialetto significa “sto in silenzio”. Chiudendo aggiungiamo che si tratta di un vino composto dai vitigni classici della zona (cioè Corvina, Corvinone, Rondinella e Molinara) da vigne centenarie che crescono su terreni tufacei con esposizione a sud-est. Le uve subiscono un appassimento di 30 giorni, 2 anni di affinamento in legno e 1 in bottiglia. 

Eleganza Femminile in Forma d’Arte

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Flora Italica, Barbera Colli Bolognesi, Manaresi.

Questa etichetta è un “inno” all’eleganza femminile. Almeno nelle intenzioni dell’azienda produttrice che nella scheda dedicata a questa Barbera, nel proprio sito internet, scrive: “...un vino suadente e, come testimoniano la particolare etichetta e il nome, dalla elegante femminilità, ma anche con una personalità importante...”. Certo che l’etichetta a prima vista risulta criptica: si vede una sagoma, ma non si riesce ad interpretarla immediatamente. E anche il blocco di colori alla base non chiarisce l’enigma. Come normalmente si cerca di fare, il significato generale del packaging viene ricercato e possibilmente ancorato al nome del vino, “Flora Italica” in questo caso. Ma anche qui non si trovano allineamenti. Serve una spiegazione che il produttore (anzi, la produttrice e titolare, come vedremo) ci fornisce, sempre tra le pagine del web di riferimento: “Il nome Flora Italica è un omaggio all’illustre naturalista Antonio Bertoloni (1775 - 1868), autore dell’omonimo monumentale trattato di botanica ancora oggi riferimento scientifico della materia. Il Bertoloni possedeva un tempo la collina e la sovrastante omonima storica Villa Virginia, a Zola Predosa, sede estiva dei suoi studi, prospiciente l’attuale vigneto di Barbera ora di proprietà dell’azienda Manaresi. Da un punto di vista del visual design, la nuova etichetta Flora Italia è originale e innovativa, ma in linea con lo stile delle altre bottiglie (della gamma aziendale) che sono ispirate all’arte di Paolo Manaresi, importante pittore e incisore del novecento al quale la nipote e attuale titolare Donatella Agostoni ha dedicato la cantina (il logo aziendale Manaresi è la firma stilizzata dell’artista)”. Il racconto continua, in particolare per quanto riguarda l’etichetta che qui a sinistra mostriamo: “...il profilo femminile e sinuoso di una mitologica Flora, la dea romana e italica della fioritura. Ma una ‘novella’ Flora, perché la sua silhouette, i suoi capelli, il suo atteggiarsi sono quelli di una donna contemporanea, di carattere.
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Così pure come contemporanei sono i fiori, i petali e gli steli colorati che in basso introducono una sorta di collage informale”. Interessante anche l’analisi della “dinamica” percettiva dell’etichetta: “Non si distinguono infatti un’etichetta principale e una contrapposta retroetichetta, perché di fatto entrambe, etichetta e retroetichetta, si susseguono lungo la circolarità cilindrica della bottiglia, per dar forma in negativo alla figura femminile di Flora, che si staglia sul nero totale del vino rivelato dalla trasparenza del vetro. Non solo, la etichetta e la retroetichetta, osservate singolarmente, con i loro frastagliati profili, rivelano un’estetica autonoma, quasi strappi della carta, con una loro informale poetica e una propria forza espressiva, che dà la vera sostanza di questa originale confezione”. E infine un accenno alla sinergia col vino contenuto nella bottiglia: “L’immagine di donna, in Flora Italica, è un voluto riflesso del suo contenuto intrinseco: la Barbera, uva e vino già normalmente declinati al femminile, è per Manaresi femminile in tutte le sue connotazioni più alte: di carattere forte ma nel contempo suadente, con note morbide e rotonde, quasi flessuose, bilanciate da una floreale freschezza e da una piccante acidità”. Anche se, come detto prima, l’etichetta non riesce a  fugare alcune perplessità sulla propria efficacia di comunicazione, raramente si assiste a una definizione così attenta e precisa degli elementi che sono stati scelti a rappresentare il vino, nel packaging design.

Ritorno alla Semplicità

A Vento e Sole, Chianti Docg, 
Podere Alberese.

Il vino è la poesia della terra, scriveva un noto e illuminato autore. E forse, opponendo il punto di vista, l’indole poetica aiuta a produrre buon vino. Nella filosofia produttiva e personale di questa giovane azienda che ha sede in Toscana, vicino a Siena, c’è molta poesia. Al punto di volerla proporre direttamente anche sulle etichette della propria gamma: questa in particolare sulla bottiglia del Chianti. Il vino si chiama “A Vento e Sole”, nome composito, fortemente evocativo. Semplice, se vogliamo, ma dotato di quel richiamo visivo che porta alla mente la campagna, la primavera, la purezza, la gioia della natura. E tutto questo funziona bene per richiamare l’attenzione sul vino (e l’attesa del calice). Nel sito del produttore troviamo altre poesie della medesima autrice, Adriana de Carvalho Masi, che in vario modo e in varie annate si sono avvicendate sulle etichette dell’azienda (che ha anche un agriturismo e una coltivazione di olive). Leggiamone una che si intitola proprio “al vento e al sole”: “Caleidoscopi di luce tra le foglie, verdi mani protese verso il cielo. Svettano i pampini in cerca di un sostegno sui verdi tralci. Piccoli fiori bianchi sul grappolo allungato, per ogni fiore un acino dorato, ogni pistillo un goccio di rubino, si preparano all’estate che li accresce. Il chicco della vigna sul grappolo compiuto si lascia rimirare. Bello e lucente, creato dalla terra, innalzato nell’aria al vento e al sole. Odoroso e sapiente di fragranza, di colore, di gusto e di profumo di terra di Toscana, eccomi a te. Io sono lo sposo onesto per il tuo bicchiere”. Quest’ultima frase merita attenzione e ripetizione: “io sono lo sposo onesto per il tuo bicchiere”. Vino che reclama di essere “semplicemente” onesto. Giusto. Vero. Sincero. E promette di non deludere una beva senza pretese, se non quella della gioiosa convivialità.

Il Vesuvio Parla Lingue Antiche

Vesevo, Greco di Tufo, Farnese Vini.

Interessante questa etichetta del Gruppo Farnese Vini: ci fornisce l’occasione di parlare delle origini del nome del Vesuvio, il noto vulcano vicino a Napoli che i partenopei chiamano rispettosamente “la Montagna”. Come si può immaginare il nome di questo Greco di Tufo, “Vesevo”, richiama le origini semantiche del vulcano. Ci viene in aiuto Wikipedia con una approfondita analisi etimologica: “Il nome Vesuvio (in latino classico Vesuvius, attestato anche come Vesevius, Vesvius, Vesbius, Vesuvinus, Vesaevus) è presumibilmente d'origine indoeuropea (da una base aues, "illuminare" o eus, "bruciare"). Secondo altri il nome deriverebbe da Vesbio capitano dei Pelasgi che dominò quel territorio. Esistono tuttavia alcune etimologie popolari: dato che nell'antichità si riteneva che il Vesuvio fosse consacrato all'eroe semidio Ercole e la città di Ercolano, alla sua base, prendeva da questi il nome, si credeva che anche il vulcano, seppur indirettamente traesse origine dal nome dell'eroe greco. Ercole infatti era il figlio che il dio Giove aveva avuto da Alcmena, regina di Tebe. Uno degli epiteti di Giove era Ὕης, Hýēs, cioè "colui che fa piovere". Così Ercole sarebbe diventato Ὑήσου υἱός, Hyḗsou hyiós, cioè il "figlio di Hýēs", da cui sarebbe derivato il latino Vesuvius”. Il nostro interesse  per questa etichetta non finisce qui, cioè non si conclude con l’analisi del naming. Ci riferiamo quindi alla cartotecnica particolare che, in assonanza con il nome, presenta una doppia “V” (quella piccola al centro “segnata” dal profilo del Vesuvio in arancione) che in termini tecnici si direbbe fustellata (la superficie della carta è “incisa”). Una dovizia del packaging che incuriosisce e impreziosisce.

Naming J-addicted

Naming packagingdesign branding vino
Cressjda, Barbera Rubicone Frizzante Igt, 
Cantina Mingazzini.

Questa cantina (che si trova a Medicina, si chiama proprio così quel paesello vicino a Bologna) manifesta una evidente passione per la lettera “j”. I nomi dei suoi vini, infatti, a partire da questa Barbera che si chiama “Cressjda”, hanno tutti almeno una “j” nella propria formulazione. Vediamoli in serie, prima i rossi, poi i bianchi: Alcjone, Tajgete, Caljpso, Aljmede, Sjrio, Calljsto, quindi Euporja, Arjel, Caljce, Djoniso, Gjano. Come si può immaginare sono tutti nomi derivati da costellazioni, stelle, sistemi stellari, satelliti, nonché mitologie greche variamente collegate. Tutti quanti con la variazione in “j” che consente, con tutta probabilità, di risolvere problemi di identità o anteriorità, quindi di possibile conflitto con nomi simili depositati negli uffici brevetti. Nel sito del produttore troviamo comunque un rational molto motivato sulla scelta di questi nomi: “La territorialità è un fattore molto importante per la nostra azienda sia per i vini che lavoriamo sia per il legame con le nostre radici. È da esso che siamo partiti in questa evoluzione del nostro progetto, omaggiando attraverso uno studiato “naming” dei nostri vini, uno degli osservatori astronomici più importanti a livello internazionale nello studio dell’universo: la Stazione Radioastronomica di Medicina. Il Radiotelescopio "Croce del Nord", è tra i più grandi radiotelescopi di transito del mondo. Si tratta di uno strumento che osserva gli oggetti celesti che culminano sul meridiano celeste del luogo. La stazione ospita due strumenti (radiotelescopi): la grande Croce del Nord (di proprietà dell'Università di Bologna) e una antenna parabolica da 32 metri di diametro”. Dobbiamo dire che alcuni di questi nomi non sono di facile lettura e fruizione: lo stesso Cressjda qui evidenziato, che può essere confuso con “clessidra”, oppure Tajgete, di difficile pronuncia. Per quanto riguarda le etichette di questa linea, sono tutte fortemente caratterizzate dalla presenza di una “supernova” in espansione, rossa per i rossi, gialla per i bianchi, sicuramente attenzionale e dotata di originalità nell’esecuzione del design.

Profumo Proibito nella Piccola Torino

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Proibito, Terre di Chieti Igt, 
Cantine Mucci.

Le Cantine Mucci sono a Torino. Ma non si tratta della città dei gianduiotti, stiamo parlando di Torino di Sangro, un piccolo paese di 3000 abitanti che si trova in provincia di Chieti (Abruzzo). La bottiglia di questa Falanghina, ottenuta con Vendemmia Tardiva, sembra proprio quella di un profumo. Sarà la forma del vetro, sarà il colore ambrato del nettare, sarà la coppia di amanti (Adamo ed Eva che colgono una rossa mela stilizzata). Anche la scatola esterna, tutta dorata, contribuisce alla sensazione di trovarsi davanti ad una essenza floreale. Il nome del vino è attinente all’immagine in etichetta: “Proibito”. Notiamo che anche la “O” finale è scritta in maiuscolo (vezzo tipografico o chissa?). Come se il frutto proibito, parafrasando, fosse l’uva. E ci potrebbe stare, visti gli effetti inebrianti dei suoi derivati. La grafica è ben realizzata: l’illustrazione, i caratteri di scrittura, la disposizione degli elementi, il logo alla base, tutto molto ordinato ed elegante. Spicca cromaticamente (in modo tutto sommato discreto) quel piccolo cerchio rosso che rappresenta il vero e proprio frutto del peccato. Delle due sagome umane al centro, quella dell’uomo è nera, per cui molto più evidente, protagonista. Dev’essere proprio lui il peccatore originario!

Bagliori a Sud di Brescia

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Nitor, Trebbiano di Lugana, Pratum Coller.

Il nome dell’azienda vinicola del noto calciatore Andrea Pirlo è “Pratum Coller”. L’origine latina di almeno una di queste due parole (la prima) è chiara: “pratum” sta per prato, non serve aver studiato. La seconda parola che compone il logo è scaturita da un incrocio tra basi latine e nomenclature toponomastiche, come risulta da alcune ricerche effettuate in rete: “Il piccolo borgo di Coler è di fatto una frazione del Comune di Flero. L’azienda vinicola Pratum Coller si trova proprio di fianco alla casa natale del papà di Andrea Pirlo, Luigi Pirlo, e deve al nome della frazione la seconda parte del proprio nome.
Siamo a pochi chilometri da Brescia, bensì immersi nella natura (“Pratum”) con riflessi storici che risalgono agli Antichi Romani. Nell’Enciclopedia Bresciana redatta da don Antonio Fappani è scritto che Coler (o Coller), frazione di Flero a 99 metri S.L.M., a sud del paese, potrebbe essere una voce dialettale per “corylus”, cioè nocciola in latino. Che suggerirebbe l’esistenza di un noccioleto. Secondo altri l’accezione deriverebbe dal latino “colere” cioè coltivare”. 
Vediamo il logo dell’azienda: una quercia “stellata” con radici. 4 stelle sopra la chioma dell’albero, stilizzato in oro. I vini dell’azienda si chiamano Nitor (Lugana), Arduo (blend di Sangiovese, Merlot e Syrah), Marzì (Marzemino), Monos (Petit Manseng e Pinot Bianco) e Eos (rosato da Sangiovese e Merlot). A noi è piaciuto il nome Nitor (“bagliore” in latino) per la sua “nitidezza” comunicativa: tradotto in italiano, “nitore” porta a lucentezza, eleganza.

Per Chi Suona la Campana?

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Burrone, Chianti Classico, Cà di Pesa.

Si tratta di un caso quanto meno curioso, quello che riguarda il nome di questo vino. Siamo nel Chianti Classico, tra Siena e Firenze, dove il Sangiovese regna sovrano da secoli. E dove il riflesso di notorietà, ormai mondiale, di questo bel pezzo d’Italia fa vendere il vino quasi col pilota automatico. Questo Chianti Docg si chiama “Burrone”. Esatto, proprio come un crepaccio di montagna. Oppure, se vogliamo metterla sul “tecnico-degustativo”, come un “grande burro” (sentori di vaniglia e affini, spesso presenti se il vino viene invecchiato in botti piccole). Il mistero si infittisce apprendendo che il titolare dell’azienda si chiama Marco Burroni (con la “i” finale). Certo, chiamare il vino “Burroni” invece di “Burrone” non avrebbe cambiato le carte in tavola: si tratterebbe sempre di una accezione negativa, quella che affiorerebbe in prima battuta. Per il resto, l’etichetta si muove su canoni classici, presentando un design incorniciato e glabro, con al centro dello spazio una antica campana in bronzo. Cimelio della zona, ipotizziamo, ma senza accenni storici particolari nel sito del produttore (si scorge la sagoma di un frate con un neonato).

Non Fiano ma Fieno, Non Campo ma Costa

Fieno di Ponza, Biancolella e Forastera, 
Antiche Cantine Migliaccio.

È probabile che anche nell’irta Isola di Ponza ci possa essere qualche piccolo campo coltivato a fieno, ma il nome di questo vino non si riferisce alla paglia secca. Si tratta di una geolocalizzazione, come spiega in dettaglio, nel proprio sito web, il produttore, aggiungendo notizie storiche: “Punta Fieno è una delle poche località ancora incontaminate dell’Isola di Ponza. Il difficile accesso via terra (40 minuti a piedi lungo una mulattiera in piena macchia mediterranea) un inesistente approdo via mare, che consiste nel saltare dalla barca sugli scogli, hanno preservato questo posto dal turismo di massa. I vecchi contadini ponzesi vi si recavano ogni mattina all’alba, per coltivare i vigneti, ma oggi sono rimasti veramente in pochi: Luigino, Giustino, zio Aniello e Liberato. A questo esiguo drappello si è aggiunto Emanuele Vittorio, odontoiatra napoletano, figlio di Civita Migliaccio, ma soprattutto nipote di Benedetto Migliaccio, uno dei capostipiti del Fieno. Quando nel 1734 Carlo di Borbone colonizzò l’isola assegnando in “enfiteusi perpetua” vari appezzamenti di terra ai coloni partenopei, assegnò a Pietro Migliaccio, proveniente da Ischia, la zona del Fieno, che, a differenza di altre che erano definite “a bosco” o “incolto”, risultava già “vitato”. Pietro Migliaccio portò da Ischia i vitigni tipici: Biancolella, Forastera, Guarnaccia, Aglianico e Piedirosso, e sono questi gli antichi vitigni a piede franco che Emanuele Vittorio, nipote di Benedetto Migliaccio, ha riportato a nuova vita, salvandoli dagli sterpi che avevano già invaso i filari”. Una storia semplice, che si veste di tradizione, fatica, ardimento, così come di sole e vento. Certo che il nome del vino potrebbe portare al significato classico di “fieno” o ancora, e più facilmente, all’ipotesi di un’errata corrige che riguarda il vitigno “Fiano”, viticoltura frequente al sud. Per quanto riguarda il design in etichetta, la mappa dell’isola “del tesoro”, in stile Pirati dei Caraibi risulta molto cartografica e poco enologica. Ma diciamo che la tipicità di quei luoghi e la particolarità di quelle vigne giustifica, in un certo modo, l’orgoglio campanilista di una indicazione così dettagliata.