Ufologie in Campo

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Tombé du Ciel, Braucol e Prunelard, 
L’Enclos des Braves.

Questo vino si chiama “Caduto dal Cielo” (tradotto in italiano). Possiamo intendere anche e più probabilmente “donato dal cielo”. L’aspetto curioso sta nell’illustrazione. Sembra proprio un Ufo, una navicella spaziale, nell’atto di atterrare sul nostro pianeta. O più facilmente nell’atto di gettare qualcosa di benefico sulla terra. Il senso, il legame concettuale, sembra essere nel tipo di coltivazione (e di filosofia). Si legge infatti in internet che la spiegazione di questa etichetta è da ricercare “nel rapporto tra uomo, terra e cosmo, i principi della biodinamica applicati dal viticoltore”. Siamo quindi nel campo dell’imponderabile, del cosmico, dell’ultraterreno, dove la terra, l’acqua, le radici, il frutto, diventano elemento trasformativo, segno materiale. Tutto sommato il vino si beve e genera qualcosa di biochimico nel nostro corpo, forse anche nell’anima. Tornando al design, molto originale, dell’etichetta: si tratta di una illustrazione molto lineare, essenziale, riconoscibile. Tratti di nero e di rosso su sfondo bianco: massima leggibilità. Il nome del vino, in alto, è scritto in grande. Si legge velocemente nonostante sia scritto in corsivo. Una scrittura semplice, quasi infantile. Insomma: come fulmine a ciel sereno, come miracolo mistico, come regalo dell’infinito, nasce il vino. Questo, in particolare, un blend di rossi locali. Tanta salute con un pizzico di follia.

Export di Langa con Cane Simpatico

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Trifula, Piemonte Doc Bianco, Brand Italia.

Si tratta probabilmente di una operazione di export italico d’arrembaggio. Però è simpatico. Il mood, il modo insomma, il linguaggio parlato da questa etichetta. E’ un fumetto, dal tratto trotterellante come un vero cane da tartufi. Infatti il vino si chiama “Trifula” che in piemontese è il tartufo e in questo caso anche il nome del simpatico cane che occhieggia in etichetta. Vediamo la spiegazione dell’azienda che commercializza il prodotto: “Young, alternative, ironic. Trifula is a new range of wines from Piemonte DOC, to be discovered. Protagonist and testimonials: Trifula dog of the same name, shown on all labels and packaging. Trifula is a nice hybrid, derided by the “colleagues” because of race unable to find the precious Tuber magnatum pico Langhe. His courage and his great heart did not give up: Trifula fact will discover the largest and most prestigious white truffle ever found. Auctioned for 1 million dollars, make the favorite four-legged fun of the Langhe”. Insomma hanno costruito tutta una storia attorno a questo improbabile cane da trifola. Sull’etichetta si legge anche la scritta “The million dollar dog” a conferma del racconto sopra descritto. Quello che colpisce è questa commistione tra il dialetto e le tradizioni langarole e l’inglese cinematografico. Il risultato è certamente simpatico, parametrato al mercato al quale il prodotto si rivolge. Il disegno del fumetto ben realizzato, l’etichetta nel suo insieme risulta originale. 

Etichette che Non Fanno Sbadigliare

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Roero Arneis, Bajaj.

Alcune note curiose che riguardano le etichette di questo piccolo produttore “famigliare”, situato nella zona del Roero (provincia di Cuneo). Vediamo subito nella grafica un approccio moderno, che si ritrova anche in una gestione del profilo Instagram molto dinamica e “giovane”. Protagonista delle immagini in generale, e delle etichette in particolare, è Adriano Moretti, il figlio del titolare. Nel packaging del Roero Arneis vediamo il ragazzo in tenuta da jogging, seduto su alcune botti. Singolare la modalità di comunicazione: molto spigliata, libera da vincoli classici (che nella zona di origine sono ancora molto radicati), spontanea, vivace. Possiamo dire anche coraggiosa: forse non completamente aderente al “prodotto vino”, ma sicuramente originale.
L’attenzione va anche al nome dell’azienda, derivato da una “menzione dialettale”, qualche che fosse una MGA del cognome. Ecco la spiegazione della famiglia reperita nel loro sito web: “Il termine “Bajaj” deriva dal dialetto “bajé” che significa “sbadigliare”, “sonnecchiare”. L’utilizzo del nome “Bajaj” nasce dalla tradizione diffusa in queste zone, di dare dei soprannomi alle famiglie per distinguerle. Questi nomi erano solitamente legati a una caratteristica fisica o caratteriale di un membro della famiglia, o al mestiere svolto. In questo caso, gli anziani del paese raccontano che la famiglia Lenoris (famiglia materna di Giovanni Moretti) venne così chiamata perché costituita da persone tranquille, che lavoravano duramente, ma cantando e facendo festa all’occorrenza!”. Le nuove generazioni prendono il comando. Almeno per quanto riguarda la comunicazione. Sul vino e l’enologia, probabilmente, vale ancora molto l’esperienza.

Oriente a Bibbona

Drago, Cuordileone, Colpodifulmine, La Mercareccia.

Sono particolari i nomi di questi tre vini. Così come le illustrazioni in etichetta. Lo stile del design riporta a qualcosa di orientale. A tecniche di disegno realizzate con un pennello a traccia larga. Certo che non è facile ritrovare un “Drago” (Ciliegiolo), un “Cuordileone” (Sangiovese e Syrah) e un “Colpodifulmine” (Syrah) nei tratti colorati di questi packaging.
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 Abbiamo una sola certezza: il cerchio rosso in basso a destra, sopra ai nomi dei vini, viene giustificato così dal produttore (Fabrizio Zanfi): “La mia piccola produzione di vino e di olio è realizzata nel rispetto delle caratteristiche del luogo con apporto tecnologico quanto basta e quella che io chiamo ‘scienza dell’annata’, il saper cioè adattare il proprio lavoro e quindi il risultato all’andamento della stagione con il suo alternare piogge e calure siccitose. Il tutto ben rappresentato dal cerchio del marchio: io ci metto il Lavoro, il resto lo fa il Tempo“. Per quanto riguarda gli altri elementi che compongono l’etichetta dobbiamo lavorare di immaginazione. I tratti puliti di questa etichetta, aiutano comunque a trasmettere qualcosa di essenziale. Inoltre si fanno notare da lontano, grazie ai colori vividi. Una certa originalità è garantita. Non ci convince fino in fondo il nome dell’azienda: La Mercareccia, piuttosto cacofonico. Ma per il resto c’è inventiva, passione, coraggio, creatività. P.S.: c’è anche un altro vino in gamma, che si chiama “Stravento” (Sangiovese). Bel nome, stralunato e originale.

Toscani Gran Bevitori

Packagingdesign namingdesign winedesignBaccheri, Rosso Toscana Igt, Nardi Viticoltori.

Quando un’etichetta è particolare, in genere riesce a farsi notare da lontano. Succede proprio questo con il packaging di questo vino toscano rosso a base Sangiovese. Siamo infatti nei dintorni di Siena dove impera il Chianti o i suoi “surrogati”. In quelle zone regna anche incontrastata la “parlata” toscana che spesso si avvale di termini che nel resto d’Italia nemmeno si conoscono. Nel caso di questo vino, che si chiama “Baccheri”, abbiamo un soprannome di persona, in particolare quello di un avo, come scritto nel sito aziendale: “Questo vino prende il nome da un avo della famiglia vissuto nel milleottocento, grande vignaiolo e bevitore di vino. Anche l’etichetta si sviluppa su una vecchia foto di Baccheri appunto, che è stata stilizzata e rivisitata in chiave moderna cercando di mantenere intatto il legame fra passato e presente”. Viene sottolineato con allegoria che il bisnonno in questione era un grande bevitore di vino. Insomma, se l’è goduta la sua vigna. Ma il concetto pregnante, reso bene dal tipo di illustrazione, è il legame tra passano e presente: il vino di oggi deve avere un significativo “ieri”. L’Italia del vino esprime in questo modo le proprie qualità innate. Qui il design è schietto, amabile, sornione, in una parola: interessante. Coinvolge la posa di quest’uomo vestito di nero. Ha un proprio stile, così come la grafica dell’etichetta, con quel taglio trasversale che simula uno strappo ed evoca una striscia di terra. Se vogliamo, l’unico elemento un po’ scontato è il logo dell’azienda con quel pàmpino arricciato che sovrasta il cognome della famiglia titolare.

A Prosa di Packaging

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Frasi, Orcia Doc, Capitoni.

Marco Capitoni gestisce la propria azienda sui colli di Pienza, nella Toscana più caratteristica. Sangiovese, certo, e altre varietà tipiche locali. Passione e cultura connotano le etichette di questo produttore, sicuramente definibili come “molto classiche” per il design adottato. Vediamo nel dettaglio che il logo è iscritto in una illustrazione di una facciata di un antico palazzo. Stile arcaico. Ma la caratteristica specifica delle etichette di questo vino che si chiama “Frasi”, sono delle citazioni, create del titolare medesimo, che di anno in anno cambiano. E’ necessario dire che questo vino non viene prodotto in tutte le annate: solo quando “l’andamento stagionale” lo consente. La dicitura in etichetta “un millesimo, una frase” dichiara subito le intenzioni del packaging. Leggiamo infatti, sul millesimo 2012 qui riportato, “Giovane il fiore. Vecchi: la vite, l’ulivo e la quercia?... Fantasia”. La punteggiatura è anch’essa creativa, ma il senso si coglie. Così come l’originalità della proposta. Per completare l’opera citiamo alcune altre “Frasi” di annate precedenti. Annata 2009: "Poche parole e una stretta di mano... galantuomini”. Annata 2008: "Nei gesti, il sapere... manualità". Annata 2005: "Una lepre a correre sfidai, la raggiunsi... mai! Sfide". E così via. Le etichette risultano quindi molto “compilative”, più testo che immagini, cioè le emozioni vengono delegate alla lettura del testo, di quelle prose che di fatto parlano con amore del lavoro e della filosofia aziendale.

Nel Nome del Dragone

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Riesling, Lechthaler.

Non c’è dubbio che questa etichetta possa rivendicare una propria originalità. Non ci sono materiali particolari o soluzioni tecnologiche avanzate come in certe etichette che oggi alcuni designer propongono come oro colato. Ma c’è un’idea. Ed è quello che conta. Le soluzioni tecniche di questa etichetta infatti si limitano al fatto che una parte, in alto a destra, è tagliata con un effetto bruciato (indotto solo dalle sfumature di colore) e che il dragone protagonista della “scena” è stampato con un inchiostro con effetto smaltato, in lieve rilievo. Niente più. Nel senso che non è nemmeno costata molto. Poco di più di una etichetta normale. L’idea sta nel proporre un basilisco fiammeggiante che brucia la stessa etichetta dove è raffigurato. Un drago che è figlio di una leggenda che sarebbe troppo lungo raccontare, ma che è possibile leggere in questo link.
Ci limitiamo qui a riportare le parole del produttore (prelevate dal sito aziendale): “To commemorate our origins, we decided to use the image of the dragon on the Lechthaler labels, a symbol of Trentino Alto Adige’s enological tradition”. Insomma si tratta di un racconto che prende vita sull’etichetta. E rivela una vivacità di intenti e di design in grado di attirare l’attenzione in modo “conveniente”: poca spesa, tanta resa. Questo “in soldoni”, il nostro commento di sintesi. Per quanto riguarda il resto dell’etichetta (tutto ciò che sta attorno al drago incendiario), poteva essere reso anche in altro modo, con altre soluzioni, diverse da una cornice molto classica, ad esempio. Il carattere di scrittura del marchio in alto (nome del produttore e, in pratica, nome del vino) avrebbe potuto godere di uno stile meno obsoleto, ma tutto sommato l’etichetta spicca il volo e accende l’attenzione, proprio come il suo fiabesco protagonista.

Le Vibrazioni di un Negroamaro Medicinale

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Dica 33, Negroamaro, Marulli.

Nell’arco fantastico delle nominazioni dei vini in etichetta (le denominazioni invece sono quelle riferite alle “regole” del vino in quanto prodotto specifico) scopriamo, in Puglia, questo insolito “Dica 33”. Non è difficile comprendere che il primo pensiero va al dottore. Quello di famiglia, sì, il medico “della mutua”, o medico curante o ancora medico condotto che dir si voglia. Proprio lui che, ormai pratica antica (ma qualcuno ancora lo fa), poneva lo stetoscopio sulla schiena e sul torace pronunciando il fatidico “dica 33” e ponendosi attentamente in ascolto (per la precisione “auscultava”). Questa procedura è dovuta al fatto che verbalizzando il numero 33 (che a questo punto, citato così tante volte in questo articolo, andrebbe giocato al lotto) le vibrazioni prodotte tra laringe e bronchi, facilitano la diagnosi, da parte del medico, di eventuali problemi polmonari o respiratori. La curiosità puramente fonetica (diciamo pure pop-culturale) consiste nello scoprire quali parole utilizzano i medici di altri paesi nelle rispettive lingue: “blue ballons” o anche “toys for tots” e ancora “ninety nine” nei paesi anglosassoni, giusto per fare un esempio. Ma torniamo al nostro “Dica 33” che è un vino, un Negroamaro del Salento, per l’esattezza. Questa etichetta, complice anche una certa sterilità del packaging, data da uno sfondo bianco e da un rigore calligrafico da ambulatorio, riporta subito a sensazioni legate a visite, se non a stati di malessere, che conducono inequivocabilmente all’immagine di un consulto con i camici bianchi.
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A latere, ma non troppo, dobbiamo aggiungere che questo vino è ottenuto con il metodo Freman, cioè è stato sottoposto a ripetute vibrazioni musico-armoniche (principalmente musiche di Mozart), durante la sua fase di affinamento. Metodo messo a punto dal Maestro Beppe Vessicchio che, dopo i successi orchestrali si è dato al vino (in coda al nome del vino vi è infatti un riferimento grafico ad una nota vibrazionale, che potrebbe però sembrare anche il tracciato di un elettrocardiogramma). Che il numero 33 sia riferito ai vinili, recentemente tornati di moda, i cosiddetti 33 giri? Ultima notazione: un altro vino della Cantina Marulli, sempre un Negroamaro da viti di oltre 70 anni, si chiama “Menone”. Meriterebbe un articolo a parte. Next time.

Volpello, il Vino Novello

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Volpello, Novello, Colle Sereno.

L’etichetta si presenta subito bene con una interessante stilizzazione di una volpe. I toni cromatici sono “cremosi”, la grafica è essenziale e pulita, la disposizione degli elementi rivela ordine ed eleganza. Scopriamo anche qualche vezzo creativo come quella “P” che si eleva sulle altre lettere del nome, e come quel marchio rotondo che recita: “Prodotto esclusivamente da uve molisane”, giusto per ribadire che il Molise esiste, coltiva uva (oltre che un mare di olive) e genera anche buon vino, in barba alle regioni vinicole più blasonate.
Anche la rima è una “trovata”: “Volpello” infatti è dichiaratamente un Novello. Furbata fonetica che suona bene, si fa ricordare. Certo che questo genere di prodotto (insomma, vino beverino da tavola, di poco costo) di solito non viene affiancato da etichette di valore. Invece in questo caso la cura del packaging è encomiabile. Si tratta di una operazione intelligente, di valorizzazione di un prodotto “base” che vuole apparire in modo ragguardevole. Che vuole quindi conquistare un mercato “alla mano” con atteggiamenti di spessore. L’azienda si chiama Colle Sereno. Rassicurante: un colle dove splende sempre il sole e che trasmette in ogni caso tranquillità. Si tratta di marketing da grandi numeri, ma ameno è ben congegnato.

Grappoli Moderni in Terre Antiche


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Les Graves, 
Cabernet Franc,  Domaine Fabrice Gasnier.

Questa azienda vinicola ha deciso di caratterizzare tutte le proprie etichette (della linea base e di quella mediana) con un grappolo d’uva molto “contemporaneo”. Si potrebbe dire anche “geometrico”. Sicuramente moderno, stilizzato-azzardato per dei vini classici in terra d’oltralpe. Mentre la linea alta vede un’altrettanto insolita elaborazione cromatica di un tralcio di vite (qui a destra). Lo stile di queste illustrazioni è molto sterile, lineare, pragmatico, rastremato. Insomma tutt’altro che tradizionale e storico. Aleggia la volontà di rompere col passato. Di proporre una veste nuova per questi vini. Nonostante essi si collochino in una denominazione storica come Chinon. Che effetto fa? Un senso di modernità accelerata, di estremismo grafico, di sospensione cosmica. I disegni, sia pure molto “computerizzati”, sono di ottima realizzazione. Per cui il dubbio non è sulla qualità dell’elaborato, bensì sul suo effetto complessivo nelle dinamiche di comunicazione che ogni tipologia di etichetta si porta dietro. Si ha la sensazione che quel grappolo, quel tralcio, possano essere fatti di sostanze non organiche, che siano quindi un po’ artificiali, sintentici, plastici. Mentre il prodotto-vino, dentro la bottiglia, ha la necessità di presentarsi nel modo più naturale possibile, più genuino, più spontaneo, sia pure ottenuto con modalità tecnologiche all’avanguardia sia in vigna che in cantina. Un premio al coraggio, quindi, di queste originali etichette e un monito per quanto riguarda la possibile percezione di “lontananza” da parte dei clienti.

L’Uccisione della Tradizione

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Lady Killer, Malvasia Nera, Castel di Salve.

Secondo il Cambridge Dictionary “Lady Killer” significa: “a sexually actractive man who has sexual relationship with many women”. Una delle vittime sembrerebbe essere la donna dal profilo romanico che appare in etichetta. Ma qualcosa non torna. Al centro dell’attenzione abbiamo un nome del vino che, al di là dei possibili significati, si esprime in inglese. L’illustrazione invece ci parla di storia, di antichità italica, forse Roma, forse Etruria (non abbiamo trovato chiari riferimenti o spiegazioni in rete). Il nome soprattutto stona: siamo in Puglia, vino rosso, tradizione, regionalità (il vitigno), classicità. Il tutto rappresentato da un nome in inglese, per di più forte, aggressivo, non solo per il significato della parole ma anche per quella “k” spigolosa che ferisce già in lettura. Il design, invece, è valido: pochi elementi, chiarezza, pulizia grafica, utilizzo di inchiostri luminescenti. L’etichetta crea attenzione. Ma lascia attòniti per quel nome. Non “appartiene” al tutto. Non si integra con il discorso. Diciamo che incide ma non convince.

Suprematismi Artistici in Rosa

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Suprematism, Bombino Nero (Rosato), Mirvita (Tor de’ Falchi).

Il caso di questa etichetta e, di rimando, dell’azienda che l’ha creata, è concettualmente complesso (anche il nome dell’azienda stessa, che varia da “Tor de Falchi” a “Mirvita” secondo le circostanze). Il tutto va spiegato per passaggi. Diciamo subito che la nostra curiosità viene attirata dal nome particolarmente “esoso” di questo vino: “Suprematism”. In realtà non si tratta di vanagloria, si sta facendo riferimento a un movimento artistico fondato nel 1913 da Kazimir Malevich. Il senso è che l’arte viene concepita in quanto finalizzata unicamente alla percezione pura, collegandola quindi alle emozioni e, in origine, alla libera espressione creativa degli artisti. Il titolare dell’azienda, Donato DiGaetano, si è ispirato al suprematismo nel concepire la propria cantina, tecnologica e di design, così come per l’approccio alla comunicazione, packaging innanzitutto, con etichette che vogliono esprimere un valore distintivo assoluto. Cioè vogliono essere totalmente fuori dagli schemi.
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In effetti, questa etichetta attira l’attenzione. Per la sua stranezza. Arte moderna che spiegata dal produttore risulta essere una interpretazione degli elementi che compongono la cantina. Cioè, tradotto, i tasselli colorati dell’illustrazione sono le botti, le cisterne, la pressa e quant’altro si trova come struttura e/o attrezzatura in cantina. Bizzarro come minimo. Originale come pochi. Tornando a qualcosa di specifico possiamo aggiungere che il Castel del Monte è stato il primo rosato italiano a ricevere la Docg e che il colore di questo vino è bellissimo.

Silenzio, Parlano i Vitigni

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Logorroico, Vino Rosso, Il Torchio.

Questo vino viene prodotto da due giovani (fratello e sorella) che hanno rilevato la cantina e i vigneti dal nonno. Bella storia anche solo per il fatto che delle nuove generazioni si rimboccano le maniche e decidono di irridere le mode e le comodità della città per tornare a vivere e a lavorare in campagna. Siamo in Liguria, al confine con la Toscana, dove regna incontrastato il Vermentino (quello bianco). Questo vino invece è un rosso, prodotto con “tutti i vitigni a bacca rossa disponibili nei vigneti di proprietà”. Sarebbe a dire: Vermentino Nero, Sangiovese, Merlot, Syrah e Cabernet. Insomma un gran “mescolatum”. Ma vediamo come commentare l’originale packaging che i due giovani viticoltori hanno deciso di proporre sulle loro bottiglie: ci colpisce una illustrazione in stile cartoon che attira l’occhio per i colori e le raffigurazioni in essa contenute. Una faccia gaudente, un sole, un calice, forme stilizzate, molto colorate. Ma soprattutto molte “bocche parlanti” che invadono almeno la metà dello spazio disponibile in etichetta. Una bocca per ogni vitigno contenuto in questo vino. Quindi sono proprio i vitigni che vogliono esprimersi? In questo caso forse parlano anche troppo visto che il vino si chiama “Logorroico”. Come concludere? Che l’etichetta è simpatica, anacronistica, involuta, davvero originale, “disrupting” direbbero gli americani.  In sintesi questa etichetta fa parlare di sé. Ed è probabilmente quello che desiderava l’azienda, visto che ha fatto parlare (tutto sommato, bene) anche noi.

Mulini a Vento a Ponente

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Sancio, Rossese, Cantina Sancio Riccardo.

Il nome di questo vino ricorda subito Sancho Panza, personaggio del celebre romanzo “Don Chisciotte della Mancia” scritto da Miguel de Cervantes. Sancho, in quel caso, era l’attendente del personaggio principale, che veniva coinvolto in mille rocambolesche avventure. Invece nel caso dell’etichetta che mostriamo qui a sinistra, si tratta del cognome del titolare dell’azienda vinicola. Assistiamo quindi a un rimando rischioso ai fini della percezione e della comunicazione finale. Molto semplice il design: due parole, “Sancio” con funzione di vero e proprio nome, e “Rossese”, tipologia del vino. Nota negativa: la parola Rossese spezzata in due non facilita la lettura e quindi la memorizzazione.
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Il tutto però prende un piglio impattante, sicuramente per il fondo chiaro che evidenzia le due parole in questione, scritte con un corpo molto grande e anche per l’uso di inchiostri luminescenti e in rilievo che donano spunto creativo e qualitativo. Questa pulizia grafica sul fronte, costringe a delegare al retro-etichetta tutte le altre informazioni, raggruppate con ordine giornalistico. Il testo del racconto del vino è ben scritto, con cenni interessanti, parole nuove, coinvolgimenti semantici. Nel complesso si rivelano scelte originali destinate ad influire positivamente nella percezione degli astanti.

I Celti, i Romani, i Nomi Malsani

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Campi Raudii. Vino da Tavola (Rosso), Antonio Vallana.

A parte il solito bisticcio relativo al nome aziendale (non si riesce a capire se l’azienda qui citata è Vallana Wines, oppure Antonio Vallana e Figlio oppure Vallana e basta), siamo di fronte a una etichetta davvero particolare. E’ tutta da vedere: sembra un ciclostilato. Oppure, se vogliamo, una fotocopia in bianco e nero venuta male. Simula una certa “antichità”, d’accordo. Ma rimane il fatto che risulta piuttosto approssimativa. Poco incisiva. Per niente valorizzante. Insomma sull’etichetta c’è poco da aggiungere. Molto da raccontare invece per quanto riguarda il nome di questo vino da tavola (presumibilmente un mix dei vini rossi della casa, non meglio specificati): “Campi Raudii”. Ebbene i “raudi” in questione non sono i petardi a mano che si lanciano a capodanno, bensì il nome di una celebre battaglia campale tra gli Antichi Romani e i Celti, che risale al 30 luglio 101 a.C., dicono le cronache. Ma andiamo con ordine: il termine “raudii”, molto diffuso nella Gallia Cisalpina, indicava zone minerarie alla confluenza di grandi fiumi e quindi ricche di metalli. La parola “raudius” è infatti una antica accezione tecnica relativa al settore della metallurgia. La discussione principale verte però sul luogo della battaglia: i campi di cui parlano le fonti antiche potrebbero essere situati sulla sinistra del Po, a nord di Ferrara. La tesi principale rimane comunque quella che colloca il luogo storico in prossimità della sponda sinistra del fiume Sesia, vicino a Vercelli. Altra ipotesi è la localizzazione della battaglia presso Gattinara (ipotesi presa per buona dal produttore di questo vino) dove ancora oggi c’è il Santuario di Rado, con le vestigia di una chiesa romanica. Infine qualcuno dice che “raudii” sta per Roddi, paese delle Langhe. Insomma, questo evento storico “ha viaggiato” in mezza Italia: poco importa, visto che il nome in questione, e qui concludiamo, non è una grande idea. Soprattutto per la mancanza di un preciso significato e collocazione. 

L’Acca(h)demia Fonetica di un Vitigno Sconosciuto

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Briccolina, Nascetta, Aldo Marenco.

Molto colore e tratti arlecchineschi nelle etichette dell’azienda che fa capo ad Aldo Marenco (cosa rappresentano quelle onde cromatiche? Le colline, probabilmente). Siamo in Piemonte e i nomi dei vini di questo produttore lo dichiarano apertamente: Parlapà, Surì e Bric (Dolcetto), Balìn e SansSulfì (Barbera), Dujan (il rosato). Espressioni dialettali che mantengono il focus nella regione di appartenenza. Positivo? Forse. Ma anche no. Occupiamoci comunque di questa “Briccolina”, non copiatamente dialettale, ma diciamo pure “gergale simpatico”. Ci ha incuriositi la scritta in etichetta (camuffata nei tratti illustrati) che dice (in inglese, altro che piemontese): “pronounced nas-ch-etta!”. Si sa infatti che il problema della Nascetta, antico vitigno bianco di quelle zone (siamo a Dogliani, come collocazione geografica), è la sua pronuncia. Fuori dallo Stato Sabaudo si usa la “sc” classica: “scivolata”. Ma i piemontesi Doc dicono invece “nas-cètta”. E il pubblico anglosassone (al quale sembra dedicato l’inciso linguistico)? Forse pronuncerebbe questo nome in modo ancora diverso, utilizzano impropriamente la “h” che l’etichetta ha voluto giocarsi per impartire la giusta intonazione. Qualche dubbio fonetico permane. Il problema di lettura anche. E non è poco per una tipologia di vino che vorrebbe farsi conoscere di più e nel modo giusto.