Satiri, Eclissi, Travasi e Baccanti

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Smembar, Sangiovese Superiore, Maria Galassi.

Alcuni vini della gamma prodotta da Maria Galassi fanno riferimento al termine “smèmbar”. Parola difficile da intercettare, come dizione dialettale, per chi non è romagnolo. Ebbene gli “smèmbar” sono i poveracci, gli straccioni,  i popolani. Il tutto nasce da un lunario scaturito (prima edizione nel 1865!) dal tipico sentimento popolare romagnolo, anarchico, alle prese con la dura quotidianità. Il famoso “Lunèri di smémbar” (Lunario dei poveracci), che si compone di due parti: una dedicata alle vignette satiriche su qualche avvenimento politico, l’altra parte invece contiene una infinità di bazzecole tra le quali le indicazioni sulle feste religiose, le date delle processioni e delle messe, i santi romagnoli, le eclissi e le fasi lunari ad uso degli agricoltori, siano essi di vigna o di campo.
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La relazione con il vino va trovata nel fatto che da tempo immemore si presume una certa influenza della luna A carico delle fasi di varie attività rurali, come i travasi delle botti o le semine più importanti. Curioso il nome (e il suo “racconto popolare”), curiosa l’illustrazione in etichetta: un satiro in atteggiamento amoroso con una baccante. Un packaging quindi regionale, gigionesco, anacronistico, ma in grado di attirare l’attenzione con il “fattore curiosità”. Certo non si tratta di marketing strutturato che per certi vini non servirebbe nemmeno.

Mostri Fluviali in un Mare di Sangiovese

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Porcamiseria, Sangiovese, Terramante.

Chissà cosa ha spinto questa azienda umbra, di Todi, a chiamare il proprio sangiovese in purezza “Porcamiseria”? Si tratta di una affermazione che si può definire popolare. In uso sia per questioni positive, sia negative. Si dice “porca miseria” per imprecare contro le ingiustizie della sorte, ma anche quando, ad esempio, si assiste a qualcosa di superlativo, stupefacente. E crediamo sia proprio questo il caso in questione, o comunque lo speriamo, pensiero positivo, visto che nel sito del produttore di questo vino non abbiamo trovato spiegazioni ulteriori. Potrebbe esser un “porca miseria” di apprezzamento per un vino riuscito particolarmente bene. Il visual dell’etichetta sembra, per altro, non fornire informazioni utili alla soluzione del “rebus”: vediamo un pesce, un luccio dragonesco, emergere tra i flutti (del Tevere probabilmente, visto che la zona è attraversata da questo fiume). Il nome dell’azienda, Terramante, anch’esso composito, richiama ad un amore per la terra che si ritrova nella filosofia aziendale. Per il resto la grafica è ordinata, gli elementi semplici e diretti, le scritte leggibili. Nella elementarietà di questa etichetta, comunque, i due elementi di spicco forniscono punti di attenzione notevoli: il nome del vino e il pesce-mostro sono ampiamente sufficenti per la memorabilità del prodotto. Il calice farà il resto.

Suona il Blues Questo Rosé

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Pinkfluid, Montepulciano e Syrah, 
Fattoria Le Terrazze.

Non siamo a Londra e nemmeno a NY. Siamo nelle Marche, a Numana, provincia di Ancona, terra di molti buoni vitigni e vini. L’azienda “Le Terrazze” per il proprio rosato di nuova concezione si inventa una specie di omaggio allo storico gruppo rock dei Pink Floyd. E se vogliamo, senza urtare la suscettibilità dei fan, si inventa un gioco di parole che in ogni caso richiama certamente la band di origini inglesi. Il nome del vino “Pinkfluid” in effetti dice quello che deve dire: fluido (cioè liquido) rosa. Lo dice con un inglese corretto, “fluid”, mentre in verità Floyd è un cognome. Il gruppo dei Pink Floyd infatti per il proprio nome si ispirò a due celebri blues-man: Pink Anderson e Floyd Council che suonavano il “Piedmont Blues” (non si tratta del nostro Piemonte, bensì di un altopiano sulla costa orientale degli Stati Uniti). Ma torniamo all’etichetta: fondo bianco, un fiore artistico fucsia, toni accesi come sempre accade per le bottiglie di rosato. Certo colpisce il nome (e forse solo quello), scritto in alto, con un carattere moderno, attuale, scorrevole. Ci si potrebbe chiedere: e i nomi degli altri vini della Fattoria Le Terrazze? Musicali e ironici anche loro? E invece no, diciamo un misto di tutto: Chaos (Rosso Igt Marche), Le Cave (Chardonnay), Sassi Neri (Conero Riserva), Donna Giulia (Spumante Metodo Classico) e uno strano “Vision of J” (Montepulciano d’Abruzzo). La vita (e la vite) è tutto un varietà (e un varietale).

Le Sirene dei Boschi Danzano Nude

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Driade Felice, Merlot, Le Driadi Slow Farm.

Davvero una piccola azienda famigliare: solo 1 ettaro e mezzo di vigna in una zona sconosciuta a nord di Bergamo. Esattamente la cascina e i vigneti si trovano in località Capitaglio, comune di Palazzago. Non sono terre che hanno guadagnato prestigio, ma lì si coltiva la vite da decenni ed è proprio grazie a un vigneto recuperato che la famiglia Chenet ha iniziato a fare vino, non più tardi del 2015. Il nome dell’azienda e di uno dei vini rappresentativi della limitata produzione attuale, deriva dalle “driadi”: figure mitologiche greche, per l’esattezza “ninfe delle querce” (da “dryas”, quercia). Le driadi, secondo i racconti dei miti, vivevano nei boschi, più precisamente danzavano in onore del naturale vigore vegetativo. Venivano rappresentate come giovani donne, prevalentemente nude, con la parte inferiore del corpo terminante in un tronco d’albero. Delle piante-umane, insomma. La versione boschiva delle sirene. Ed è proprio una di queste figure che è stata collocata nell’etichetta del Merlot “solo acciaio” dell’azienda: una immagine che certamente incuriosisce e che rimane in mente. Il nome del vino “Driade Felice” conferma la scelta mitologica incentrata su queste affascinanti creature del bosco. Nel complesso si tratta di una etichetta che anche per i cromatismi utilizzati risulta elegante e valorizzante, non solo a livello concettuale ma anche estetico.

Qui e Ora, Precipita la Vita

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Ruit Hora, Bolgheri Rosso Doc, 
Caccia al Piano.

Il vino in esame è una composizione (un blend) e anche il suo nome può essere considerato una composizione: si riferisce a una delle Odi Barbare di Giosuè Carducci. La materia prima sono 4 vitigni rossi (Merlot, Cabernet, Petit Verdot, Syrah), la materia cerebrale si riferisce al già noto concetto: “Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia” (Lorenzo il Magnifico, in questo caso). Qui il Carducci con “Ruit Hora” (cioè “precipita l’ora”) vanta, o denigra, dipende dai punti di vista, le bellezze della vita. L’azienda che produce questo vino, infatti, si trova a metà strada tra Bolgheri e Castagneto Carducci. Va da sé che abbia deciso di inneggiare al Grande Poeta, nelle etichette dei vini e nei testi della comunicazione on e off-line. In particolare la poesia alla quale si riferisce il nome in questione, parla effettivamente di vino e amore, anzi, li colloca proprio al centro dell’attenzione. Eccone uno stralcio iniziale: “O desïata verde solitudine, lungi al rumor de gli uomini! Qui due con noi divini amici vengono, vino ed amore, o Lidia”. Spesso i grandi compositori hanno celebrato il vino come amico sincero, se non musa ispiratrice. Il vino se non alcolici ancora più inebrianti come i famosi cocktail di cui “faceva uso” Hemingway. L’etichetta è molto regolare, semplice, lineare, ma presenta alcuni particolari interessanti. A parte il poetico ed evocativo nome del vino (almeno per quanto riguarda la cultura del Vecchio Continente, non sappiamo cosa riuscirebbero ad evincere, ad esempio, gli americani o gli australiani), attira l’attenzione la trama in oro al centro che sembra proprio rappresentare un coltivo (ma sembra anche, da vicino, uno scritto in arabo). Di richiamo storico, nella grafica, il logo aziendale, giustamente “spiegato” con la scritta a lato “Caccia al Piano 1868”. Non siamo di fronte a un’etichetta eclatante, ma un onesto 6 e mezzo lo ottiene,

Croma su Croma, Roma per Toma

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Barolo, Mario Marengo.

Cosa può spingere un’azienda nel generare un’etichetta poco leggibile? La conservazione della tradizione? Lo status-quo dell’imprimatur generazionale? O anche: se l’etichetta in questione è pre-esistente (perché ad esempio i nonni la commissionarono al tipografo del paese di un secolo orsono e quindi le tecnologie non erano quelle attuali) perché non modificarla in modo da renderla più comunicativa, più empatica, semplicemente più fruibile? Non sappiamo. Possiamo solo mostrare questa etichetta, di un prestigioso vino, di una piccola ma stimata azienda famigliare, che evidenzia delle lacune in fatto di packaging che sarebbero facilmente correggibili, anche senza snaturare lo stereotipo. I vini in questione non hanno nome, ma questo è comprensibile per l’area del Barolo che fa gran nome da sé. I nomi dei cru sono i realtà i veri nomi dei vini (dove apponibili), come Bricco delle Viole o Brunate.
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Il fatto è che sono in molti i viticoltori che possono citare queste zone vocate in etichetta. Quindi la distinzione, oltre alla qualità del vino, la dovrebbe fare l’etichetta. Distinguersi e farsi leggere, farsi capire, facilitare il ricordo, imprimere un “timbro” mnemonico, costruire su un marchio (spesso in queste zone il cognome della famiglia, ma pur sempre un marchio). In questo caso il nome della famiglia produttrice è scritto molto in piccolo, in oro, su sfondi ocra o gialli. Quel poco colore che si intuisce nella scritta “Barolo” e nel nome dei Cru, è cromaticamente molto simile allo sfondo. E siamo da capo. Per il resto, cornici arcaiche, impaginazione elementare, particolari che si perdono. L’unica nota di personalità viene data dalla scritta in rilievo “Albeisa”, nella parte superiore del vetro della bottiglia, imposta dal Consorzio, anni fa, a tutti i produttori, in modo da potersi distinguere da altre realtà vinicole italiane. Ma anche i singoli dovrebbero fare qualcosa di evolutivo.

Miti e Serpenti della Liguria Toscana

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Gorgonia, Merlot, Giacomelli.

Diversi punti di osservazione per questo vino. Diciamo originalità. Innanzitutto si tratta di un rosato ottenuto da vitigno Merlot (non capita spesso). Aggiungiamo che il vino viene contraddistinto dalla Igt Liguria di Levante, ma di fatto, essendo azienda e vigneti a Castelnuovo Magra, siamo in quella strana terra di mezzo che amministrativamente è Liguria, ma per tutto il resto è Toscana. In terzo luogo il simbolo, diciamo lo spunto, che caratterizza l’etichetta di questo vino: è un corallo che fornise direttamente il nome a questo rosato che si chiama “Gorgonia”. Il legame concettuale è dovuto al colore del vino, molto bello e, appunto, corallino. Per la cronaca la Gorgonia (il corallo) prende a sua volta il proprio nome dalla figura mitologica greca Gòrgone (questa volta con l’accento sulla prima “o”). Si dibatte se la Gòrgone era un essere a tre teste, Medusa, Steno ed Eurìale. O se veniva impersonata solamente da Medusa, come cantò Omero. Il corallo in questione infatti somiglia alla chioma ricciuta e rossa (formata da ciocche di capelli e da serpentelli) della Gòrgone. L’ultima stranezza è dovuta alla modalità con la quale è scritto il nome sull’etichetta: con una della due “g” a testa in giù. La lettura, in questo caso, è solo lievemente pregiudicata: la variante grafica riesce a incuriosire e ad attirare l’attenzione. L’etichetta comunque ha un suo carattere, soprattutto cromatico, e riesce a farsi notare anche in mezzo al “mare” della concorrenza vinicola.

Contrasti della Cultura Siciliana

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Contrasto del Rosso, Nero d’Avola, Augustali.

Regna la semplicità in questa etichetta siciliana. Nello stile e nei tratti di design. Estrema sintesi che porta ad un contrasto tra nero e bianco, tracciato da una “sky-line” di campagna: si intuisce una luna e forse delle case, un campanile. Per il resto vediamo al centro il nome del vino, assonante con il packaging visto che si tratta di “Contrasto del Rosso”. All’apice il logo e il nome del produttore, che a dire il vero alterna, tra etichetta e sito web, varie denominazioni: dal semplice Augustali, a Bio Fattoria Augustali, fino ad Azienda Agricola Augustali. Insomma ci siamo capiti. Quello che non si capisce ancora bene in Italia e che un marchio deve essere unico e solo quello. Dappertutto nella comunicazione.
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Ma torniamo all’etichetta che ha una sorella gemella per il bianco: Contrasto del Bianco (Vermentino in prevalenza, con un 10% di Catarratto), speculare nello scambio di cromatismi tra nero e bianco. Interessante la spiegazione del nome che troviamo nelle schede tecniche pubblicate nel sito internet dell’azienda: “La Sicilia è da sempre luogo di contrasti: terra ricca e ‘scarsa’, luminosa e buia, fertile e arida, frenetica e pigra. Dall’interpretazione di un territorio unico nasce il vino Contrasto che porta il nome dello stile poetico di Cielo d’Alcamo e della sua celebre Rosa Fresca Aulentissima”. L’opera è stata scritta nella prima metà del XIII secolo in lingua popolare siciliana ed fu di fatto una forma di protesta contro un editto che in pratica salvaguardava gli eventuali stupratori di fanciulle dietro pagamento di una somma elevata e dietro dichiarazione di fedeltà all’imperatore. Ecco l’incipit della prosa: “Rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state, le donne ti disiano, pulzell’ e maritate: tràgemi d’este focora, se t’este a bolontate; per te non ajo abento notte e dia, penzando pur di voi, madonna mia”.

Rosso e Non Più Rosso

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Pink is not Red, Carignan e Syrah, 
La Cave Apicole.

Che un rosato non sia un rosso, in questo caso, viene dichiarato in modo molto evidente. Con una scritta preminente che è anche il nome del vino: “Pink is not Red”. In effetti non è così scontato che tutti lo sappiano. Discussioni, anche tra professionisti del settore, nascono continuamente di fronte a calici di vino che si presentano con varie sfumature di rosa. Ad esempio la Schiava dell’Alto Adige spesso si presenta con un rosso che non è rosso e un rosa che non è abbastanza rosa. Ma qui siamo in Francia, patria dei rosé, e la piccola cantina “naturale” nei pressi dei Pirenei di cui stiamo trattando, utilizza per questo vino i vitigni Carignan e Syrah. Il design dell’etichetta è composto, praticamente, per il 90% dalla grande scritta a mano che presenta il nome. Uno stile molto spartano che dichiara le intenzioni schiette e puriste dell’azienda, in modo anche un po’ sguaiato. Qui il marketing non entra e non c’entra (ma si è sentita la necessità di un nome in inglese, che fa già “global” di per sé): governa il prodotto e chi lo lavora e realizza. Nonostante questo (o proprio a causa di ciò) un po’ di personalità emerge ad opera di una scritta aggressiva come quelle che spesso si vedono sui muri delle città, che invade la percezione come in un grido. Una affermazione forte, un avvertimento spontaneo, un’allerta comunicativo che fa da spartiacque anche nei confronti del consumatore.

Un Tuffo Dove l’Acqua è Più Rosa

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Domaine Casanova, Ile de Beauté Igp (Sciacarellu e Cinsault), Les Vignerons d’Aghione.

I vini in lattina fanno fatica ad affermarsi, ma piano piano crescono. Saranno le nuove generazioni che sono cresciute con le “can” di Coca-Cola, sarà la praticità che l’estate giustamente evoca e richiede. Sarà forse che il vino sta diventando una bibita? Che si stia “birrificando”? Ugualmente la categoria dei rosé, con la bella stagione risorge. Questi due elementi hanno indotto, probabilmente, questo grosso produttore còrso a produrre una variante del loro rosato, anche in lattina. Con un packaging completamente (e giustamente) diverso rispetto all’etichetta del vino in bottiglia. La curiosità è dovuta anche, per inciso, ad uno dei due vitigni con i quali viene prodotto questo vino: lo Sciacarellu. 
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Tornando alle etichette: quella del vino in bottiglia tutto sommato è normale, elegante, ben impaginata, con codici classici di preziosità da vino romantico: un po’ di oro, un grappolo, qualche ghirigoro, caratteri graziati. Più divertente da analizzare il design della versione in lattina: una avvenente e provocante ragazza con occhiali da sole sta sospesa sul bordo di un trampolino, a sua volta ai bordi di una piscina. I capelli e il costume da bagno della ragazzo sono rosa come il vino, nota grafica e creativa che ben si sposa con l’azzurro del cielo (o dell’acqua) in un connubio cromatico comunque molto sfruttato e vincente. Il nome del vino, “Domaine Casanova” conferma l’ambiente sensual-romantico che in questi casi va per la maggiore: cena a due, bordo mare o piscina, lume di candela, vino rosè... il resto è facilmente immaginabile. Ed è questo il ruolo del marketing e della pubblicità, tutto sommato.

Un Aglianico Anarchico (e Romantico)

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Amami, Falanghina (o) Aglianico, Ersilia Petito.

Prima di parlare del naming e del packaging di questi vini è necessario fare una panoramica sull’idea in generale. Sul progetto. A quanto dichiarato da chi ha avuto questa “pensata”, si tratta di un concetto che punta a portare un vino bianco e/o un vino rosso in situazioni romantiche o, in alternativa, molto funzionali alla ristorazione. In questi termini: serata a due, organizzata anche con un “contorno” di allestimento (tovaglia, palloncini, calici personalizzati, etc.) oltre ai vini prescelti, oppure  un banchetto di intrattenimento pre-cena fuori dai ristoranti (stuzzichini e allestimento compresi) per ingannare l’attesa con qualche calice. Questa (in estrema sintesi) è la questione. Passando al naming: “Amami”, diciamo subito che nel mondo del vino è molto sfruttato, rimanendo indiscutibilmente “romantico”.
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Nel marketing tattico del lancio, il nome di questo vino viene supportato dal testimonial Nico Femiano, che non a caso esegue il brano “Amami” come cantante. Parliamo del logo: una grande “A” in stile “anarchia” ma incastonata in una “Omega”. Un segno grafico tra il tribale e il messianico. Certamente, grazie anche alle dimensioni di tale logo, riportato in etichetta, molto visibile e incisivo. Il dubbio è se tali codici grafici e in generale di comunicazione possano “fare bene” a un vino. Probabilmente la proprietà punta maggiormente ad un effetto scenico con le proposte descritte prima, per un romanticismo d’attacco, un consumo di spunta e un approccio culturale “periferico”. P.S.: confermiamo che anche il rosso, l’Aglianico, è in versione frizzante. Al consumatore piacendo.
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Tra i Francesi che s’Incazzano (cit. Paolo Conte)

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Hey French (You Could Have Made This But You Don’t), Garganega con Pinot Bianco e Sauvignon, Pasqua.

Si tratta sicuramente del record di lunghezza per un nome di un vino. Anche se l’azienda, per praticità lo chiama più semplicemente “Hey French”. È un nome decisamente sfidante quello di questo vino, così come è molto coraggiosa l’idea enologica che custodisce nei propri voluttuosi flutti. Vediamo prima il nome: teniamo innanzitutto conto che si tratta di un nome in inglese per un vino italiano. Un nome in  inglese che prende in giro i francesi. Sembra una barzelletta. Ma è tutto vero. La traduzione sarebbe: “Hey, francesi, avreste potuto farlo anche voi questo vino ma non lo avete ancora fatto”. Insomma un coraggioso proclama di superiorità, almeno per quanto riguarda la modalità produttiva. Passando quindi al vino vero e proprio, la novità è che i tre vitigni che lo compongono vengono mischiati anche con annate diverse, precedentemente conservate in cantina. Una sorta di “vintage-blend” come si fa con lo Champagne. La grafica dell’etichetta, molto avanguardista, da rottura netta degli schemi classici che comunque nella zona di Soave vanno ancora per la maggiore, è stata realizzata (ironia della “sorte”) da un artista di nazionalità francese, tale CB Hoyo. Le scritte, a mano, molto disordinate, si mescolano alla rinfusa con macchie di colore ed altri elementi visivi che risultano così improvvisati da far sembrare l’etichetta un bozzetto di qualcosa che verrà. Packaging anacronistico, artistico, provocatorio, dissacrante, sorprendente a suo modo.

Uva Pane e Vino Canterino

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Luscinia, Malvasia Puntinata (del Lazio), 
La Valle dell’Usignolo.

Il nome di questo vino figlio naturale dell’Italia centrale è facile da intercettare. Basta consultare un dizionario di latino per scoprire che “Luscinia” sarebbe a dire “usignolo”.   Inoltre, consultando il vocabolario di Treccani si scopre che è ammessa anche l’accezione poetica “lusignolo”, proprio così, senza apostrofo, come parola unica. L’assonanza con “Luscinia” c’è, ed il mistero è risolto. Non è quindi un caso che l’azienda, nel proprio nome, alluda anch’essa al volatile in questione: “La Valle dell’Usignolo”. Etichetta molto semplice, sfondo bianco, la sagoma di un borgo antico, forse di un castello, probabilmente riferito alla sede aziendale, a Sermoneta in provincia di Latina. Unica concessione alla creatività (a parte l’adozione concettuale dei pennuti canterini) viene dal carattere di scrittura del nome del vino: scritta fantasiosa, quasi fiabesca, color verde smeraldo. Non stona. Per concludere vale quindi raccontare la particolarità del vitigno: la Malvasia Puntinata del Lazio, una delle Malvasie più qualitative in termini di produzione di vino, sembra venisse nominata “uva pane”, dagli antichi romani, a causa della sua generosa produttività. Una vitalità che oggi viene “regolata” da potature e vendemmie verdi al fine di ridurre le rese ed ottenere quindi un nettare più concentrato.

Un Fiano che Parla di Genova, Salerno e Buenos Aires

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Cumalè, Fiano Cilento, Casebianche.

Il nome di questo vino, al nord (in Piemonte ma anche in altre regioni d’Italia) richiama un’espressione dialettale che corrisponde più o meno a “Come va?”. Ovvero il “Cumalè” sarebbe un “Come è?” in senso generale. Ma nel particolare, cioè per questo vino, il “Cumalè” è dialetto genovese. E per la precisione è una parola tratta dal testo di una canzone di Fabrizio De Andrè: Dolcenera, che molti conoscono. I produttori, Pasquale Mitrano e Betty Iuorio, e il loro vino, sono del Cilento, subregione della Campania, ma amano a tal punto l’opera musicale del cantautore genovese che hanno voluto omaggiarne la memoria chiamando questo Fiano con una parola delle note prose da lui composte. E gli “omaggi” no finiscono qui. Nel design dell’etichetta, molto pulito, chiaro, elementare nei tratti definiti e facilmente percepibili, hanno voluto inserire un riferimento al fumettista Hugo  Pratt, creatore del personaggio Corto Maltese. Infatti l’altra stranezza di questa etichetta è quella doppia luna gialla che si vede in alto a sinistra.  Si tratta di una citazione dedicata a quella Buenos Aires di “Tango”, storia speciale del disegnatore e del suo noto personaggio, dove, in un cielo scuro, l’astro d’argento “raddoppia” unendosi alla magia di altri misteri tenebrosi. Un’etichetta, quindi, che non ha nulla a che fare con il vino che contiene, se vogliamo, ma che riesce a farsi notare per eleganza grafica e, se raccontata, può evidenziare due storie interessanti. Certo, così facendo, si potrebbe proprio dire che “vale tutto”. Noi concludiamo dicendo che la personalità, la creatività, dei viticoltori si può esprimere, oltre che nelle qualità intrinseche del vino, anche in questi modi.

Trifola in Rosa per il Mercato Estero


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Curtis Nova “Trifola”, 
Rosato da Barbera e Nebbiolo, 
La Bollina (Export).

Alcuni vini non hanno nome (succede spesso, in etichetta viene riportato o il nome dell’azienda che diventa quindi nome del vino o solo il nome del vitigno che compone il vino). Di contro, alcuni vini sembrano avere troppi nomi. È forse il caso di questo rosato da esportazione della nota azienda piemontese La Bollina. L’etichetta molto pulita, semplice, lineare, possiamo dire anche elegante, sul fronte riporta tre poli attenzionali: in alto leggiamo “Curtis Nova” (identificato come nome di linea ma posizionato così potrebbe sembrare anche nome del vino), al centro quattro numeri “crociati” che sembrano una data, “1888”, molto evidenti anche come cromatismo (rosso e con inchiostro lucido) e infine in basso quello che dovrebbe essere il vero e proprio nome del vino: “Trìfola”. Cercando in rete si scopre che in effetti “Curtis Nova” è un nome di linea, in quanto contraddistingue anche altri vini della linea che La Bollina dedica all’export, soprattutto per il mercato tedesco e scandinavo. Il riferimento numerico dovrebbe essere la data storica del sito residenziale attualmente sede aziendale, riconducibile a tali Marchesi Figari di Genova. Il nome “Trìfola” non si spiega: si tratta di una accezione locale per dire “tartufo”, solitamente quello più pregiato, quello bianco, che si trova in buone quantità e qualità nell’alessandrino. Ma la parola “trifola” all’estero non è conosciuta ed è difficilmente traducibile in quanto semi-dialettale. Inoltre, ma questo è molto soggettivo, un vino rosato non si presta molto ad accompagnare i sapori pungenti, molto forti, del tartufo, sia esso bianco o nero. 

Giraffa Rock per Vino Spot

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African Rock, Cabernet Sauvignon e Pinotage, Aldi (De).

Cosa può fare una grafica accattivante e un inchiostro speciale? Molto, a livello di immagine. Anche nel settore low-price della Gdo (in questo caso tedesca, ma che recentemente ha esordito anche in Italia). Stiamo parlando di un vino sudafricano che in etichetta esprime bene le proprie origini. E la magia di quel continente. Spicca nettamente la sagoma di una giraffa. A dire il vero la giraffa in questione, graficamente, è costituita solo dalle sue “macchie”. La tipica marezzatura cromatica di questo simpatico artiodattilo dal collo lungo. Dietro alla giraffa si scorge un paesaggio da savana stampato in oro, con un inchiostro riflettente. Granata e oro stano molto bene insieme. Il resto, il design, è ordinato, elegante, molto intelleggibile, carattere di scrittura chiaro e immediato, carta goffrata di un certo pregio (almeno come sensazione). Ripetiamo, siamo nell’ambito di un vino che costa meno di 5 Euro, eppure l’etichetta è “spesa” bene. Pensata e realizzata con un certo gusto e con un concetto forte e premiante. Si fa notare e apprezzare. Un marchio, in basso, mette in evidenza un punteggio ottenuto da questo vino da parte di una rivista che si occupa di stile e gourmet: sono le solite cose, ma alla fine funzionano. Un nota su uno dei due vitigni con i quali è prodotto questo vino: il Pinotage è prerogativa quasi esclusiva del Sud Africa, infatti si tratta di un incrocio tra Pinot Nero e Cinsault creato dal Dott. Perold nel 1925 e particolarmente adatto alla celebre zona di produzione di Stellenbosch.