Animaletti Naturali in Franconia

Fledermaus, Blend di Bianchi, 2naturkinder.

Si definiscono “2naturkinder”, due bimbi naturali, e si chiamano esattamente Melanie Drese e Michael Völker, sono una coppia. Storia di giovani che lasciano la terra natìa per occupazioni importanti in giro per il mondo e poi tornano a casa (in questo caso in Franconia, Gemania). Certo ci vuole coraggio a coltivare uva in quelle terre nordiche. Ma i risultati a quanto pare non mancano. Un’ampia gamma di vini e di etichette tra i quali abbiamo scelto questo blend di Müller-Thurgau, Sylvaner e Riesling che si chiama “Fledermaus”, pipistrello in tedesco. E ad onta di qualsiasi problema di ribrezzo il pipistrello appare in tutta la sua grandezza nell’illustrazione del packaging. Appeso e silente (ma con gli occhietti aperti). Certo, il pipistrello è un animaletto che, ad esempio, mangia le zanzare e quindi fa un grosso favore agli umani. E in generale vive dove l’ambiente è naturale e dove il ciclo della vita è fiorente ed equilibrato. La sua immagine però è legata anche a qualcosa di tenebroso. Non si può dire simpatico, insomma. Almeno non per tutti. Detto questo l’etichetta risulta molto particolare, degna di attenzione, anche per le scelte cromatiche e stilistiche. Da notare anche il logo aziendale: in un angolo della grafica si nota un maggiolino (con il nome “2naturkinder”), altro simbolo di natura vera e sincera. Logicamente l’azienda agisce e produce in totale assenza di trattamenti e di forzature chimico-fisiche.

Green to the Extreme (Come Dicono Loro)

Purato, Catarratto e Pinot Grigio, Santa Tresa.

È nato “Purato”, il vino più “green” dell’universo. Il concetto viene rafforzato fino alla nausea in etichetta. Vediamo cosa si legge nel packaging oltre al già citato nome del vino. In ordine dall’alto: “Pura Sicilia”, poi vediamo una coccinella sul nome “Purato”, quindi i vitigni che compongono il vino, poi in basso “Made with organic grapes”, poi ancora “vegan friendly”. Sulla destra una scritta in verticale in corsivo recita “80% recycled glass. Paper from responsible sources. 100% recycled cardboard”. Insomma le ha tutte. Nei siti specializzati in ecommerce viene ulteriormente aggiunto: “lightweight bottle, vegetable ink on label, carbon neutral certified” e si potrebbe continuare ancora. Certo che l’argomento “green” è stato affrontato con tutte le armi a disposizione. Divulgato con puntuale solerzia. Si tratta di un mercato di nicchia, anche in America (dove è principalmente destinato questo vino), ma chi lo commercializza avrà fatto bene i conti... contando comunque di venderne qualche pallet. Nota a margine: la bottiglia è dotata di screw-cap, il tappo a vite, che molto green non è. Ma i costi di produzione hanno la loro importanza. E il pubblico anglosassone non protesta se non trova il classico sughero, anzi, agli svitamenti “pratici al consumo” sono abituati. L’etichetta in questione vanta una illustrazione molto originale, molto colorata, che ritrae il mondo vegetale e animale, la natura insomma, certo con uno stile minimale che non porta troppa allegria. Qualcuno, comunque, continua a preferire un fiasco di rosso di quelli rustici ma veraci. P.S.: il nome del produttore, Santa Tresa, non è un errore, si chiama proprio così, traendo origine dalla Contrada Santa Teresa (Ragusa) dove ha sede.

Fuga dalla Realtà in Terre Siciliane

Fuitina, Catarratto, Az. Agr. Bertolino.

Una produzione che si può dire davvero famigliare ha generato questo vino, Terre Siciliane Igp, con il coltivo di solo mezzo ettaro di vigna e il risultato (per ora) di sole 1000 bottiglie/anno. L’azienda è davvero piccola, ma l’etichetta è di quelle che si fanno notare. Saranno i colori, certo, molto accesi. Sarà il soggetto femminile che sempre intriga (uomini e donne). Sarà la gentilezza di quell’espressione e di quel fiore rosso. Sarà il copricapo ondeggiando così estroso. Sarà il nome del vino? Di solito è l’insieme degli elementi, meglio pochi ed evidenti oltre a ben amalgamati, che fa il successo di una etichetta. Qui abbiamo in sostanza una illustrazione che attira l’attenzione con gentilezza e un nome molto particolare. Cosa si intende per “Fuitina”? Davvero esaustiva la definizione che ne viene data su Wikipedia: “La fuitina, regionalismo estratto dal siciliano con il significato di "fuga repentina": identifica l'allontanamento di una coppia di giovani aspiranti coniugi dai rispettivi nuclei familiari di appartenenza, allo scopo di rendere esplicita (o far presumere come tale) l'avvenuta “consumazione”, in modo da porre le famiglie di fronte al "fatto compiuto" inducendole a concedere il consenso per le nozze dei fuggitivi. Tale fuga prematrimoniale, in uso nelle regioni del sud Italia, aveva spesso l'obiettivo di evitare il matrimonio combinato o l’endogamia, ma veniva anche compiuta in accordo con una o entrambe le famiglie dei transfughi, per ragioni economiche. Infatti, in tale frangente, vi era giustificazione alla celebrazione di immediate nozze riparatrici prive dei rituali e dei costosi ricevimenti di un matrimonio in piena regola. In quest'ultimo caso era spesso la stessa madre della ragazza che favoriva la fuga e preparava la tradizionale “truscia”, ovvero il fagotto contenente l'occorrente per il periodo di lontananza dei fuggitivi che, generalmente, durava 6-8 giorni”. Quanti concetti pregnanti e parole nuove dietro a questo nome, azzardato ma in fin dei conti simpatico!

Gnomi Furtivi in Valpolicella

Barabao, Garganega, Cà dei Maghi.

“Barabao” ha tutta l’aria di essere il nome dello gnomo accigliato che appare in etichetta, oltre ad essere il nome del vino, naturalmente. Certo che quella presenza un po’ ostile (forse ha paura che gli venga rubato il vino che tiene nella sua cantina) non è confortevole. Sia pure nella misura in cui, subito dopo un velo di preoccupazione subentra la simpatia di questo packaging. Tratti puliti, fiabeschi, grazie a uno stile illustrativo da narrazione, accompagnati da una scritta in corsivo: “Una casa sulla collina di Fumane, le scintille che escono dal comignolo e la polenta scompare dalla griglia. “Ci sono i Maghi”, si diceva in paese”. Insomma, il nano-mago ha pure molta fame e si diverte a fare gli scherzi, e quindi il ladruncolo è lui. La storiella coinvolge, genera allegria, a partire proprio dal nome, onomatopeico, ove “Barabao” diventa una specie di formula magica, foneticamente simpatica e ridondante. Proporre gnomi e folletti in etichetta non è certo originale, se ne vedono tanti, ma la modalità, anche grafica, di questo racconto rende il tutto plausibile. 

Latte e Vino per uno Storytelling Coinvolgente

Navigabile, Nerello Mascalese 
e Cappuccio, Ayunta.

Il nome di questa azienda vinicola siciliana con sede a Randazzo, nel lato settentrionale del Parco dell’Etna, è “Ayunta” e si riferisce a una curiosa (e vera) novella: il titolare e vignaiolo, Filippo Mangione, racconta che da piccolo la nonna al mattino gli faceva bere mezzo litro di latte (forse per questo poi è passato al vino), cioè due tazze più... ancora un pochino, una aggiunta, “a iunta” in siciliano. Da qui il nome dell’azienda che in questa etichetta appare proprio sopra al nome del vino, tra due parentesi. Design molto particolare, si vede una firma stilografata, due nomi (azienda e vino), la definizione della Doc (Etna Rosso) e nulla più (a dire il vero quasi non si vedono anche dei numeri scritti al contrario nello sfondo bianco dell’etichetta). Semplicità che incuriosisce. Passiamo quindi al nome del vino, “Navigabile”, che viene così spiegato dal produttore, nel proprio sito internet: “Il nome "Navigabile" sarebbe a dire, tecnicamente, “in grado di viaggiare sul mare, a vela", era storicamente il modo in cui i commercianti di vino locali, sin dal XVIII° secolo, chiamavano i loro vini di pregio. “Navigabile”, a quei tempi, doveva essere un vino capace di viaggiare attraverso il mare, dall'altra parte del mondo, mantenendo tutta la qualità e la fragranza. Un valore inestimabile per quei tempi, quando le spedizioni si facevano a vela. Dopo anni di ricerca, ci siamo resi conto che questa caratteristica era legata ad alcuni dettagli molto particolari utilizzati nella selezione delle uve e nel processo di vinificazione. A quel tempo solo la qualità e l'esperienza umana potevano fornire un grande vino. Siamo lieti di presentare la nostra moderna interpretazione di quei vecchi criteri, in grado oggi di trasmettere la nostra stessa idea di gusto e carattere nei vini rossi dell'Etna. Chiediamo a questo vino di navigare in tutto il mondo come ambasciatore del nostro lavoro sull'Etna”. Una bella storia, ben raccontata.

Omaggio a Warhol in Touraine

So What!, Terret, Domaine Le Briesau.

Questa piccola e diciamo pure giovane cantina francese (nata nel 2009) ha preso in prestito, per questo vino, un famoso refrain caro ad Andy Warhol: “So What!”. Un nome originale per un vino. Che potrebbe far pensare a molte cose insieme. Più di un nome, molto più di due parole: si tratta di uno stile di vita, di una filosofia tutt’altro che spicciola, di una apparente superficialità che scava invece in profondità. Di certo non per tutti, così come non erano per tutti le bravate artistiche del Warhol dei tempi migliori. Il punto esclamativo rosso afferma, sottolinea, sancisce, rafforza. Traducibile in italiano con un intercalare tipo “E allora?”, può essere ulteriormente dispiegato in “Chi se ne importa!”, del parere degli altri, del destino, dei fatti della vita, del semaforo rosso (ma anche di quello verde), del bello e del brutto, delle miserie ma anche delle nobiltà del mondo. Un forma di autodifesa psicologica che l’instabile Andy aveva progettato per sé e consigliato agli altri. Sull’etichetta di questo “petillant” vediamo il disegno di una coppia, lui e lei, in confidente atteggiamento, forse lui corteggiante, lei con il calice in mano a sancire il ruolo del vino come frangente introspettivo più che elemento oggettivo. Un invito a sorbire (non a subire) quello che il Grande Sceneggiatore ci propone (e quel che ci propina) senza fare un plissè, con olimpica compiacenza e suadente complicità. Ovunque e comunque. Un “chissenefrega” cosmico elevato a principio e fine di ogni esistenza libera e felice, accompagnata da una sana inconsapevolezza del vivere.

La Follia Coraggiosa è Contagiosa

Ma Petite République, Merlot e CabFranc, Paul Carille.

Se non sono matti non li vogliamo. O meglio: il vino buono lo producono i folli. Accezione portata in auge dalla Apple di Steve Jobs in un celebre spot televisivo. Ed eccone uno di quelli, francese, che esercita le sue pazzie vinicole nella zona di Bordeaux e precisamente a Saint Michel de Fronsac. Ma l’estro creativo si vede anche nel packaging anzi, si vede prima proprio nell’etichetta. Innanzitutto questo vignaiolo (piccola produzione, solo 0,4 ha di vigna per questo vino) ha chiamato la propria azienda (e il vino, 50% Merlot e 50% Cabernet Franc) “Ma petite république”, proclamando la sua piccola e personale repubblica proprio lì, in quella vigna. Il nome è grandioso, altro che piccolo. Si percepiscono, in ordine sparso, appartenenza, orgoglio, padronanza della materia, storia, tradizione, competenza e al tempo stesso quella umiltà contadina di chi sa di fare le cose per bene. E il visual dell’etichetta? Originale, sorprendente, trasgressivo ma elegante: i colori della bandiera francese, riuniti in cerchio nella modalità tipica delle insegne dell’aeronautica, sconfinano dal rosso, il colore esterno, con delle sagome che rappresentano il lavoro e il territorio: un cavallo, un calice, una chiesa, delle croci (la piccola vigna è in paese, proprio tra la chiesa e il suo cimitero e la scuola pubblica e il municipio). Genial Monsieur Carille! P.S.: ci scusiamo per la qualità non eccelsa della foto, ma questo vino è davvero una rarità e non si trovano molte documentazioni fotografiche in merito.

La Quadratura dell’Ovale

Picchio Rosso, Vino Novello, 
Cantina Valtidone.

La maggior parte delle etichette di vini sono rettangolari o quadrate. Raramente se ne vedono di ovali o rotonde. Incide forse una maggiore difficoltà di centratura sul vetro della bottiglia (ma oggi le macchine appositamente progettate possono fare un ottimo e preciso lavoro). Forse è perché le etichette rotonde offrono meno spazio utilizzabile. Però anche questo fatto non è plausibile. Ma veniamo al nostro “Picchio Rosso” e alla sua etichetta (ovale) raffigurata qui a sinistra. Sono invece frequenti le etichette che mostrano animali, soprattutto illustrati, come in questo caso. Il picchio è volatile in generale simpatico. Dedito ad affilarsi il becco sul legname o ad estrarre pinoli dalle pigne, in questa specifica scena boschiva. Il vino è di quello “novello”, l’etichetta gradevole, senza infamia e senza lode. Alla base scorgiamo un bollo rotondo (continua lo stile “curvativo” di questo packaging) dove troviamo una iscrizione a spirale: “Vinum Merum Placentinum Laetificat...” cioè “il vino (schietto) piacentino rende lieti...”. Un motto che la cantina Valtidone ha fatto proprio e che nessuno si sentirebbe di smentire. E quindi tutto quadra.

Il Guizzo di un Nome Particolare

Giochessa, Vermentino, Le Vigne di Silvia.

Il vino che in questo post proponiamo in analisi estetica viene prodotto dall’azienda “Le Vigne di Silvia”. In realtà le vigne sono anche di Stefania. Due sorelle che stanno continuando l’attività del padre e del nonno, prima di loro viticoltori nella zona di Bolgheri. Il Vermentino che vediamo qui a sinistra ha fatto seguito alla produzione iniziale di rossi, tipicamente “bordolesi”, della zona. Siamo sulla Costa Toscana, dove il mare fa il proprio gioco con brezze saline e temperature miti anche nelle stagioni fredde. Il vino in esame si chiama “Giochessa”. Nome che non può evitare di attirare l’attenzione. Si tratta di una parola poco usata fuori dai confini della Toscana. E anche lì deve essere spiegata. Ed ecco che ci giunge in aiuto il testo pubblicato dall’azienda nel proprio sito internet: “Giochessa è un termine utilizzato per descrivere una beffa o uno scherzo ma in Toscana viene usato anche per identificare un dribbling o una finta particolarmente estrosa che permette di eludere gli avversari sui campi da calcio. Silvia calciatrice italiana di livello internazionale con la passione per la campagna non poteva scegliere nome migliore per descrivere un vino di tale personalità”. C’è tutto: un accenno di regionalità (una parlata, più che un dialetto, in questo caso), un fatto concreto relativo alla vita della titolare (il gioco del calcio), la particolarità di una espressione inconsueta. Peccato che graficamente l’etichetta non presenti il medesimo graffio percettivo: per quanto è intrigante il nome del vino, tanto è poco espressivo il packaging. Vediamo in alto un accenno ad un pesce stilizzato (consiglio di abbinamento), molto esile e dotato di scarsa incisività. Per il resto si tratta di una etichetta classica, ordinata, senza guizzi (se non quello del pesce già descritto). Alla base dell’etichetta, poco visibile ma aggraziato, il logo aziendale.

Fiori e Colori Gentili sulle Colline Piemontesi

Dahlia, Barbera e Nebbiolo, L’Annunziata.

La Dalia (o Dahlia) è un fiore. Che annovera diverse specie e colori. Esprime delicatezza, armonia, gioia ed è il nome di questo blend di Barbera e Nebbiolo che nasce sulle colline di Costigliole d’Asti, il comune più vitato d’Italia per estensione, a 400mt di altitudine. L’azienda, che si chiama “L’Annunziata”, dal nome della frazione dove si trova la cantina, agisce in regime Biologico e Biodinamico. Ma torniamo a questo vino e alla sua etichetta. Leggiamo il nome, in carattere graziato-stilografico, tratto sottile, forse troppo, ma in linea con la “gentilezza” dell’insieme.  Una donna, ballerina, madama, contessa e perché no, contadina, di spalle, indossa una gonna che esprime tutta la dolcezza di un fiore, la fragranza del suo profumo, la leggiadria di stoffe preziose, ma assistiamo anche alla naturalità di una posa spontanea, sognante. In basso, alla base dell’etichetta, il nome dell’azienda. Da notare il tipo particolare di carta: potremmo definirla “martellata”, tecnicamente si dice goffrata, che fa risaltare un certo spessore, una consistenza volumetrica in rilievo, una porosità che esprime materia, concentrazione, qualità. Ne deriva, alla vista, la voglia di toccarla, di apprezzare con i polpastrelli la sua densità. Di percepire la fine e al tempo stesso genuina tessitura. Il vino contiene la “rude” Barbera e il nobile Nebbiolo. Il tutto rastremato e ingentilito da questi toni femminili ed estatici. Apprezzabile quindi il mood comunicativo del packaging.

Caos Creativo negli States

Beauty in Chaos, Blend di Rossi e Pinot Grigio, Ste. Michelle Wines Estates.

Insolite etichette, soprattutto per noi europei, abituati a design classici e laddove moderni sempre con una sorta di rispetto per il gusto e la tradizione. In America invece sono, come dicono loro, “disruptive” E trattano il vino quasi da prodotto come tutti gli altri. Non si fanno problemi quindi nel progettare etichette che varcano i confini dell’immaginabile. E comunque, in alcuni casi, questa scelta porta attenzione e buona comunicazione. Queste due etichette, disegnate dallo studio Lavin Design, ci portano in territori percettivi da cinematografia (gli americani vivono tutto ciò che li circonda come un grande e interminabile film). Vediamo innanzitutto cosa dice il designer commentando queste etichette: “I designed the label with geometric lines over a stormy background. The line work and logo are in holographic foil to add a contemporary vibe”. Il nostro commento è che il nome “Beauty in Chaos” e lo “scenario” sono sicuramente di impatto. Nonostante il nome composto, il concetto incuriosisce. E viene ben giocato, sovrapponendolo a questi cieli tumultuosi. Discutibile la modalità di scrittura con le lettere vuote, scavate, ma questo è tutto sommato un elemento soggettivo. Molto particolari le linee geometriche che invadono l’etichetta. Non siamo di fronte a un capolavoro, ma sicuramente a qualcosa di originale in grado di attirare attenzione, commenti e riflessioni varie.

Fugge l’Ora, ma il Packaging Richiede Tempo

Ruit Hora, Barbera e Nebbiolo, Ghiomo.

Ci sono etichette che confondono. O meglio che non comunicano in modo chiaro. Forse volutamente, per mantenere un’aura di mistero. Sembra proprio questo il caso rappresentato qui a sinistra. Si tratta del packaging di un blend Barbera-Nebbiolo che nasce a pochi chilometri da Alba ad opera di un piccolo viticoltore, Giuseppino Anfossi. Il nome che il produttore ha deciso per la propria azienda (partiamo da quello) è “Ghiomo”. Parola davvero strana, anche come fonetica. È praticamente sconosciuta. Si tratta di un attrezzo che serve per produrre le botti in legno, recita il sito dell’azienda. In realtà cercando su Treccani risulta che ghiomo è “...gomitolo, derivato dal latino glomus glomĕris (allotropo quindi di ghiomo), forma parallela a globus, di cui ha lo stesso significato. Palla di filo continuo ravvolto ordinatamente in modo da potersi agevolmente svolgere a mano a mano che si adopera“. Fatto sta che la parola “suona strana”. Ma andiamo oltre. Il nome del vino è “Ruit Hora” che, sempre da Treccani, significa, dal latino, “precipita l’ora”. Si allude alla fuga veloce del tempo e soprattutto all’imminenza della morte; si legge ancora talvolta sulle meridiane (è anche il titolo di una delle Odi barbare di G. Carducci)”. Nella raffigurazione al centro dell’etichetta si vede in effetti una vecchia meridiana da muro. Il tutto è volutamente consumato, poco chiaro, poco leggibile, possiamo dire “anticato”. Discutibile la scelta, apprezzabile il riferimento agli antichi usi, costumi e consumi (visto che sempre di vino stiamo parlando). Etichetta probabilmente migliorabile dal punto di vista estetico. Ma anche da quello puramente comunicativo del naming.

Il Polpo, il Passito e un Bambino Ardito

L’intraprendente, Liguria Levante Passito, Càduferrà.

Abbiamo qui un’etichetta e in generale una bottiglia che colpisce: il produttore si chiama Cà du Ferrà (che i titolari dell’azienda scrivono senza spazi tra le lettere e senza maiuscole intermedie). Si tratta di un passito da Bosco, Albarola e Vermentino, i grandi classici autoctoni della Liguria di Levante. Iniziamo subito col dire che “Cà du Ferrà” significa “casa del fabbro” in quanto in quelle zone si usava portare i cavalli a ferrare presso abili maniscalchi. Per restare in area naming è impossibile non notare il particolare nome del vino: “L’intraprendente”. Incuriosisce, viene subito collegato alla figura centrale, un ragazzino sugli scogli che sta pescando (in testa il classico “cappello da muratore” fatto con fogli di giornale). In particolare Il ragazzino sembrerebbe proprio maneggiare una semplice “attrezzatura” di quelle che serve per pescare i polpi: un legnetto, uno spago e una finta esca (basta che risulti appariscente e il polpo si avvinghia). I cromatismi sono originali e azzeccati: verde fluo e tratto nero. Non abbiamo trovato in rete un rational che possa fare riferimento alla scelta di questa “sceneggiatura” marinaresca, immaginiamo che possa essere un ricordo di bambino da parte di uno dei titolari. Anche perché non c’é corrispondenza d’uso tra un passito e il polpo (o altro pesce). Resta il fatto che la bottiglia si fa notare. Con una certa poesia dell’attimo. Alla base dell’etichetta il logo (non proprio chiarissimo nella sua manifestazione di sintesi) e il nome del produttore per intero.

Il Vino dagli Occhi Blu

Occhi Blu, Sauvignon, Cantine Angelinetta.

Questa etichetta raffigura un disegno dell’artista Felice Beltramelli, opera ritrovata in un album-raccolta dopo la sua scomparsa. Da sempre il mondo del vino è legato a quello dell’arte. Con il chiaro monito che fare arte non è da tutti. Quindi non basta un sghiribizzo mentale o da lapis improvvisato per creare qualcosa di valido, che possa rappresentare e comunicare un vino. Questo disegno, a nostro parere ci riesce. Ricorda un po’ quel gran genio di Picasso, ma conserva una propria identità. Un tratto sottile, qualche macchia di colore, ed ecco nascere una figura pseudo-umana dagli occhi blu. Una luna e una stella completano il panorama stilografico. Poesia in arte moderna. Il nome del vino non poteva essere che “Occhi Blu”, un omaggio a una persona speciale, una condizione fisico-cromatica che affascina sempre, visto che di occhi di quel colore ce ne sono pochi in giro. Anche il vino ha la sua particolarità: si tratta di un Sauvignon coltivato e prodotto sulle colline del lago di Como, a Domaso, sponda occidentale, quella ben esposta al sole. Un vino bianco che si avvale di passaggio in barrique non tostate. Un vezzo, se vogliamo, poche bottiglie prodotte, costo elevato. Ma anche la manifestazione di una passione di un produttore che ha lasciato la professione di ingegnere edile per dedicarsi alle vigna. Ultima nota: sotto al nome, in etichetta, troviamo la scritta in corsivo “Una sera al chiaro di luna sulla riva del lago in compagnia di due occhi blu”. Tutto il resto è fantasia.