Il Mito di Xanadu è Arrivato Fino in Australia

Xanadu, Chardonnay, Xanadu Wines.

Un nome che è subito magia. Nome del vino e della cantina, in questo caso. Un nome che evoca tanti ricordi e sensazioni, a partire dalla nota canzone degli anni ‘80 eseguita da Olivia Newton-John, dall’omonimo album per l’ugualmente omonimo film. Ma le origini di questo nome sono tutt’altro che commerciali: si tratta di una antica città mongola, capitale estiva dell’Impero Cinese attorno al 1300 (in cinese: Shangdu). Di questa letteralmente favolosa città (ma esistita davvero) parla anche Marco Polo nel Milione. Fatta edificare da Kublai Khan dopo essere diventato imperatore della Cina unificata nel 1271, si narra fosse una specie di Samarcanda, una di quelle città che per qualche secolo diventa crocevia di culture e di popoli. Simbolo di una civiltà, della sua ricchezza e del suo progredire. Certo questo nome è stato evocato e utilizzato in tutto il mondo per la sua capacità, esotica, di farsi ricordare e di poter raccontare qualcosa di “prezioso”. Questo produttore della Margaret River (Australia) l’ha adottato a pieno titolo. L’etichetta di questo Chardonnay in purezza lo riporta in modo molto chiaro, seguito dal varietale e dalla zona di produzione. Sullo sfondo vediamo un tessitura di foglie di vite e grappoli come una decorazione da antico arazzo. Un’etichetta elegante ma con garbo, senza sfarzo ma capace di farsi notare e ricordare.

Melissa, Luogo del Miele e delle Api (e del Vino Buono)

Asylia, Greco Bianco, Librandi.

Prima di parlare del nome di questo vino, è necessario rivolgere l’attenzione al nome della Doc, Melissa (che riguarda un disciplinare che ha esordito nel 1979). Ebbene, si tratta del paese dove originano le vigne di questo produttore, in provincia di Crotone, ma anche del nome di una pianta perenne aromatica che si usa per la preparazione di infusi dissetanti e calmanti. E soprattutto il nome Melissa deriva dal greco  e significa “paese delle api e del miele” (mèlissa, con l’accento sulla “e”, in greco antico, è proprio il ronzante e produttivo insetto). Tutta la zona di appartenenza di questo noto produttore calabrese, che ha sede sulla costa ionica, si rivolge verso l’arcipelago greco, e quindi è sempre stata soggetta alla cultura ellenica: ancora oggi se ne ritrovano le tracce, nel dialetto e nelle usanze. Anche il nome di questo vino bianco, da vitigno 100% Greco Bianco, deve essere ricondotto alla cultura e alla mitologia greca. “Asylia” infatti è il privilegio che veniva concesso a persone o luoghi specifici, laddove vigeva una protezione assoluta. Oggi traslato nel “diritto di asilo”. E anche l’asilo dei bimbi. Un luogo benedetto e protetto, quindi, un po’ come la zona, alle spalle di Cirò Marina, dove le viti che originano questo vino trovano una condizione pedoclimatica ideale per riuscire a ottenere, in equilibrio, forza e finezza. La bottiglia si distingue da lontano per questo tono azzurro cielo sul quale trionfa il nome del vino in inchiostro dorato. A dire il vero con un carattere di scrittura poco leggibile. L’etichetta manifesta comunque una certa originalità ed eleganza, ed è buon segno.

Il Banditone Buono della Val d’Orcia

Banditone di Campotondo, blend di rossi, Cantina Campotondo.

Il nome di questo vino parla di sé, “veste” il vino che rappresenta e racconta qualcosa del produttore. Fa molte cose, come dovrebbe sempre essere preteso da un nome. “Banditone di Campotondo” è un bel nome perché attira l’attenzione, provoca: chi lo sente per la prima volta si chiede ci sarà mai questo banditone, che storia può raccontare, sarà un bandito buono o cattivo? La ragione risiede nella tipologia di vino: austero, forte, generoso, pretenzioso (in termini di abbinamento col cibo), anche un po’ violento, come si addice a un rude bandito. Ma alla fine dal cuore buono. Questo vino, per dichiarazione del produttore stesso, è l’icona di una piccola azienda toscana nata solo nel 2000, e posizionata tra il Monte Amiata e la Val d’Orcia, tra colline arcaiche e poetiche. Le produzioni sono piccole, e la passione grande. Ma veniamo all’etichetta: il nome del vino, in basso, precede la menzione della Doc Orcia. Caratteri di scrittura chiari e leggibili. Al centro, protagonista del packaging, un grande sole-meridiana che ritroviamo anche come texture sullo sfondo. La grafica è di stile classico, l’impatto comunque c’è anche se questi stilemi mancano in parte di originalità. E’ un tipico caso in cui il nome la fa da padrone. Anzi, da banditone.

Viticoltori e Artisti sulla Costa Pacifica degli Usa

The Orcas Project, vini bianchi.

Orcas Island fa parte di un arcipelago che si trova piuttosto a nord. Ed esattamente tra Seattle e Vancouver; negli Stati Uniti, quindi, al confine con il Canada. Eppure lassù c’è una storia di imprenditori e di vignaioli da raccontare.  Certo, coltivare la vite sfidando le temperature più fredde può essere un azzardo. Ma in questi decenni dicono che il clima stia cambiando, per cui la sfida forse è meno… sfidante. Il fondatore di questo progetto, sostanzialmente commerciale, ha deciso di raccogliere il meglio della produzione statunitense e di veicolarlo alla vendita e alla mescita con un’idea particolare: ogni vignaiolo ha la sua produzione (allo stato attuale sono 10, tutti attivi sulla costa americana del Pacifico) e una propria etichetta, realizzata da artisti del luogo. In particolare, per la sezione vini bianchi, le immagini che troviamo sulle etichette riguardano la fauna marina, con un polpo, un gambero e un granchio (evidentemente rappresentativi di quello che si pesca e che si cucina in quella parte del Nord-Ovest). I soggetti illustrati sono molto colorati, richiamano quindi subito l’attenzione con una certa originalità. Nella parte alta del packaging troviamo due semplici scritte: nome del produttore (del progetto, in sostanza) e subito sotto l’annata del vino e la tipologia. Etichette molto “asciutte”, essenziali, ma dietro al progetto c’è un racconto, appassionante ed efficace.

Un Vino Dentro la Storia e Viceversa

Piligrin, Piculit Neri e Merlot, Terre di Plovia (Albino Armani).

Il progetto Terre di Plovia (nome e marchio del produttore) si sviluppa nella zona pedemontana dell’Alto Friuli, ed esattamente nei dintorni di Valeriano, comune di Pinzano al Tagliamento (Pordenone). Alle spalle di questo nuovo marchio c’è un noto produttore veneto, Albino Armani e la sua famiglia. In questo caso stiamo parlando del vino rosso chiamato “Piligrin” che vanta un’etichetta molto interessante, anche dal punto di vista storico. Partiamo dal nome del vino: Piligrin, in omaggio ai pellegrini che, in direzione della Terra Santa, percorrevano il Cammino del Tagliamento. Nella bella iconografia al centro, vediamo una mezzaluna “montante”, cioè con le estremità in su. Emblema che veniva utilizzato come buon auspicio negli stemmi degli antichi casati. Inoltre, nel periodo delle crociate, veniva associata all’Oriente e raffigurata nei sigilli e nelle monete. Al centro della mezzaluna dorata vediamo il Bastone del Pellegrino che simboleggia il passaggio di uomini colti in perenne ricerca (di qualcosa e sostanzialmente di sé stessi). Gli elementi grafici di questa etichetta sono realizzati con grande cura dei dettagli. Ad esempio, in basso, sempre in oro, sopra al nome del produttore, vediamo la riproduzione di una antica moneta che riporta la scritta “S.Ermanno da Pinzano”. Particolare anche il vino, con uve autoctone delle Grave Friulane, il Piculit Neri (si chiama proprio così, con la “i” finale). Originalità nell’idea produttiva e anche nella proposta di comunicazione e di marketing. Molto bene. 

Pecorino Come il Formaggio ma Arancione

Peco, Pecorino, Cantina Tollo.

La diffusione di questo vitigno si deve certamente al suo nome, “Pecorino”, che lo assimila a un noto prodotto toscano o sardo, sia pure in tutt’altra merceologia, quella dei formaggi. Questo Pecorino, quindi, diventa vino e la Cantina Tollo, grande realtà abruzzese, lo presenta con una insolita cromìa arancione scuro, in grado di attirare lo sguardo sullo scaffale. La particolarità dell’etichetta si esprime anche attraverso un lettering ricercato che isola le prime 4 lettere del nome del vitigno, “Peco”, facendole diventare il nome del vino. Quanto meno funziona a livello di decoro, visto che l’inchiostro utilizzato è bronzeo. Vi è la necessità (si è sentita, evidentemente) di esplicitare (in bianco) il nome del vitigno vero è proprio. L’effetto non guasta. L’etichetta risulta molto moderna, accattivante, funzionale, lineare, sia pure con una certa originalità. Non comprendiamo fino in fondo la necessità di ripetere (in sostanza per la terza volta) la parola “Pecorino” in sede di definizione della Doc Terre di Chieti. Certo, la legge lo richiede, ma la presenza della scritta più grande, appena sopra, poteva ritenersi esaustiva. Marchio minimale alla base, con il nome della cantina. Nel complesso una bella operazione di comunicazione, e anche di marketing, che spinge questo vitigno obiettivamente non eccelso, a livelli di percezione valoriali e con un ottimo price positioning.

Un Rosato “Mediterraneo” Molto Navigato

Méditerranée, Rosato, Rivarose.

Tra gli innumerevoli (e molto somiglianti tra loro) nomi di vini rosati oggi proviamo a commentare questo, “Rivarose”, che di fatto inganna al primo sguardo. Sembra infatti essere il nome del vino, grazie alla dimensione dei caratteri e all’inchiostro dorato e in rilievo. Insomma troneggia al centro dell’etichetta come se fosse il nome del vino. Di fatto il nome di questo rosato francese lo troviamo scritto più in basso, in modo discreto: “Méditerranée”. A dire il vero anche questo nome genera qualche incertezza giacché l’Indicazione Geografica Protetta fa riferimento alla menzione “Mediterraneo”. Insomma, decidiamo infine di chiamarlo “Rivarose”. Una ulteriore scritta in basso aggiunge preziosità: “Brut Prestige”. I francesi, si sa, sono maestri nel valorizzare il loro vini (e anche nel realizzarli, bisogna ammetterlo). Per il resto questa etichetta è ben progettata. Ci sono tutti gli elementi classici di un rosato “prestigioso” di quelli che pur non costando molto, possono portare in tavola un “allure” che aggiunge quella sensazione di ricchezza, tipica delle occasioni sfarzose, per chi partecipa alla libagione. La forma ovale del packging ben si colloca sulla forma arrotondata della bottiglia. Il grigio chiaro di alcuni elementi si sposa bene al rosa ambrato del prodotto e al rosa romantico delle decorazioni grafiche. Un bel progetto. Industriale ma ben fatto.

La Formica Ubriaca della Garfagnana

Drankante, Blend di Rossi, Maestà della Formica.

Colpisce innanzitutto il nome dell’azienda vinicola, Maestà della Formica: ne abbiamo già parlato in un altro post. Si tratta del nome di un passo appenninico che dalla Garfagnana, porta al mare (costa Toscana, provincia di Lucca). Ed è infatti una questione di brezze marine, la qualità di questi vini. Il mare infatti si trova a 20 km in linea d’aria dalle vigne. Attraggono anche altri particolari di questa fantasiosa etichetta, oltre al nome del produttore: sulla destra vediamo una formica che beve voluttuosamente da una bottiglia, colorandosi il corpo con il rosso del nettare (le uve che compongono questo vino rosso sono: Sangiovese, Moscato d’Amburgo, Ciliegiolo, Bonarda e anche due uve bianche, Trebbiano e Malvasia). Il nome del vino, “Drankante”, vede alcune lettere storpiate, come se la formica, ebbra, avesse delle visioni distorte. Il tutto con ironia fumettosa e goliardica. Sulla sinistra troviamo qualcosa di “tecnico” e molto intelligente: un QR code ci riporta all’etichetta ambientale. In sostanza agendo sul codice si accede alle informazioni di smaltimento di bottiglia, tappo e capsula. Il vantaggio in termini ecologici è facilmente comprensibile, il vantaggio in termini di packaging porta a un risparmio di spazio grafico (per una migliore pulizia dell’elaborato) e, sempre ecologicamente, di inchiostro. In sostanza si tratta di una etichetta simpatica ed efficace per quanto riguarda le potenzialità comunicative. Bravi.

Carnevale di Colori nei Cunicoli di Reims

Cuvée Louise, Champagne, Pommery.

Questa edizione speciale, top di gamma, del produttore Pommery di Reims, si colloca tra gli Champagne che amano, ogni tanto, uscire dallo schema classico e proporre qualcosa di “frizzante”. Stiamo parlando di forme e colori, spesso abbinati anche alla scatola che contiene la bottiglia. Ma andiamo con ordine: il nome di questo Champagne, Cuvée Louise, è un omaggio a Jeanne Alexandrine Louise Mélin, che sposò il fondatore Alexandre Pommery nel 1839 e successivamente, alla sua morte nel 1860, prese in mano la gestione dell’azienda vinicola con decisioni tecniche e manageriali che hanno fatto la storia di questa tipologia di vini e della celebre regione dove vengono prodotti. Ad esempio Madame Louise decise di acquistare 120 pozzi scavati nel calcare per creare un labirinto di gallerie dove far affinare il vino ad una temperatura costante di 10 gradi. Inoltre, seguendo i gusti del mercato, fu la prima a produrre uno Champagne Brut, cioè secco, mentre a quel tempo si vendeva ancora con un residuo zuccherino ben presente. Ma torniamo alla grafica dell’etichetta: molto colore, segni e forme sinuose, una modalità più da aperitivo che da Champagne classico. Edizione speciale. Che viene prodotta solo nelle annate migliori. Che merita quindi una livrea particolare, molto colorata, come dicevamo, e dove le tinte sono molto ben abbinate sia pure dando spazio ad un’allegria un po’ carnevalesca. Tutto sommato un prodotto piacevole che conquista l’occhio e il palato.

Un Rosato Forte e Chiaro

Rosato, Gutgallé.

Questo produttore tedesco decide di attribuire un nome in italiano ad alcuni vini della propria gamma. Tra questi troviamo il “Rosato”. Nome semplicissimo, definizione di prodotto, più che nome vero e proprio. Richiama direttamente la tipologia e soprattutto all’estero richiama italianità. I vitigni che lo compongono non vengono dichiarati nel sito internet del produttore, probabilmente si tratta di un blend. Interessante la grafica che, sia pure collocando le lettere del nome in verticale (ne consegue una difficoltà di lettura), utilizza la “O” finale come simbolo/gioco/logos. L’effetto è molto impattante, quindi genera molta attenzione verso l’etichetta. Quel cerchio grande attira l’occhio sul nome. L’espediente può funzionare. Il packaging è molto semplice. Nome color rosa su fondo bianco. Sulla sinistra però leggiamo delle parole così traducibili: “un rosé come un giorno d’estate… selvatico, stimolante e speziato, proprio come piace a me…”. Il tutto seguito dalla firma autografa del vignaiolo. Si tratta di un’etichetta che possiamo definire moderna. Fuori da certi schemi che tutt’oggi vengono utilizzati nelle regioni vinicole tedesche. Tutt’altro che classica, quindi, e di conseguenza la possiamo definire coraggiosa. Si rivolge evidentemente a un target giovane, alle nuove generazioni del vino.

Una Goccia di Nettare Laziale, Rosato e Dorato

Rosato, Gotto d’oro.

Che dire? L’allegorico carretto che è stato eletto a simbolo di questa grande cantina cooperativa è ormai nell’immaginario collettivo. La maggior parte del popolo italiano si è abituato a vedere questa etichetta sugli scaffali della grande distribuzione. Molto colorato il soggetto illustrato, molto colorato in generale il packaging, capace di attrarre l’attenzione grazie alla prevalenza del giallo, un “codice colore” poco utilizzato in Italia (tipico, ad esempio, per i vini alsaziani). Il nome dell’azienda e di conseguenza di questa linea di vini è “Gotto d’oro”: il richiamo è alla tradizione, a una certa antichità, con la parola “gotto”, dal latino “guttus”, cioè recipiente di vetro utilizzato per bere, bicchiere, boccale, tazza o vaso. Ma troviamo anche un’origine in “gutta”, cioè goccia, stilla. Insomma, è una parola “vecchia” ma bella, e per di più è breve e suona bene. E poi c’è l’oro, che nobilita, aggiunge valore, immancabilmente. Per il resto l’etichetta tradisce caratteri di scrittura graziati e arcaici, con buon ordine grafico e delle proporzioni, nonchè possiamo notare una cornice antica che contiene e raggruppa gli altri elementi. Il risultato è gradevole, il prodotto non perde di valore, nonostante il posizionamento di prezzo e di marketing. Per quanto riguarda l’invito all’assaggio, lasciamo fare agli affezionati e fedelissimi clienti di questo marchio.

Un Futuro un po’ Troppo Futuro

Alba, Blend di Rossi, Luigi Drocco.

Diciamo subito che di vini che si chiamano “Alba” ce ne sono molti, forse troppi. Tra il riferimento al sorgere del sole e quello alla cittadina, capitale italiana del Nebbiolo. In questo caso quella piccola ma molto visibile variazione, la “a” finale rovesciata specularmente, consente di ottenere una furtiva attenzione, permettendo alla bottiglia di distinguersi meglio (tra tutti gli altri vini che si chiamano “Alba”). L’etichetta è tutta molto particolare, si potrebbe dire anche strana. Le sagome di una bimba e di un bimbo giocano a palla. La sfera dorata che vola sopra le loro teste potrebbe essere anche il sole. Sullo sfondo ombre plumbee e onde collinari. Il tutto in una situazione modernista che non convince. Saranno i toni scuri, l’ambientazione fantascientifica, lo stile molto asciutto, fatto sta che la grafica non conquista. Sembra di essere in un mondo post-atomico dove gli esseri umani somigliano molto a degli automi. E dove la natura ha dovuto cedere il passo a qualcosa di tecnocratico. In basso, inciso dentro a un mezzo globo tutto nero, leggiamo il nome/marchio del produttore. In generale si è forse cercato di ottenere una spiccata originalità forzando la mano verso mondi percettivi che non appartengono al settore del vino. La tenerezza di due bimbi, i nipoti del fondatore, futuro dell’azienda, come spiegato nel sito del produttore, diventa una posa plastica, un po’ artificiosa e senza quell’emozione che ci si auspicava.

Un’Alta Langa che Vuole Fare la “Modella”

Limited Edition, Brut Alta Langa, Fontanafredda.

Questo spumante Metodo Classico piemontese è una limited edition senza esserlo. Potrebbe sembrare un gioco di parole ma è la realtà. Il vino si chiama effettivamente “Limited Edition” ma la sua produzione non è limitata e non rientra in quella tipologia di vini che viene prodotta “una tantum”. Ma il nome rende l’idea, cioè sposta la percezione su qualcosa di prezioso e di unico. Un nome scaltro, che sfrutta il significato che ormai è stato sdoganato internazionalmente dall’inglese: viene accolto come un prodotto speciale, da portare in tavola nelle grandi occasioni. Forse è proprio questo il suo unico limite. Per quanto riguarda il packaging nel complesso si presenta molto elegante, ordinato, con scelte legate al carattere di scrittura molto studiate. Il nome del produttore, alla base, è in grande evidenza, forse più del nome del vino. Una scelta di marketing. Grafica moderna ma con stilemi che richiamano la tradizione. Unica sporcatura, la scritta in alto a destra dove si legge “ottenuto con uve Pinot Nero e Chardonnay”, si tratta di una giusta precisazione, valorizzante, ma che nell’equilibrio ottico della grafica in etichetta, sbilancia un po’ la vista complessiva. In generale etichetta ben studiata e ben riuscita.

Una Bella Storia Italiana in Brasile

Vinho Bettù, Cabernet Franc.

La storia di questo produttore brasiliano trova le sue radici in Italia, come rivelano i cognomi coinvolti nella saga famigliare. Una gran bella storia. Vediamola in sintesi: sbarcato in Brasile nel 1886, l'immigrato italiano Pietro Bettú, nato nel 1842, a Scandolara, in provincia di Cremona, si stabilì con la sua famiglia nel comune di Garibaldi, nel Rio Grande do Sul (proprio così, il nome della località, ancora oggi è “Garibaldi”, e siamo nel Sud del Brasile). La famiglia piantò nel 1889 le prime vigne: la varietà coltivata a quel tempo era di uva Isabel, ceppo originario degli Stati Uniti. Il figlio del fondatore, Dionigi Ferdinando Bettú sposò Joana Soldi ed ereditò la proprietà. Ferdinando fu uno dei soci fondatori della Cooperativa Vinícola Garibaldi. Morì all'età di 64 anni, lasciando la moglie e dodici figli, che iniziarono a gestire la proprietà. Nel 1999, Vilmar Bettú, pronipote del fondatore iniziò il progetto che gli avrebbe cambiato la vita: nasce così il marchio Bettú, oggi portato avanti anche dalle figlie Larissa e Catenca. Un marchio che è anche etichetta, con una sintesi ed una efficacia comunicativa da encomio: una foglia di vite, sagomata, cioè realizzata con una fustella che percorre il suo profilo, con solamente due parole “Vinho Bettù”. Unico vezzo l’inchiostro dorato per le scritte e i profili grafici della foglia. Splendore e semplicità di una storia e di un packaging esemplari.

Da Secoli l’Argento di Strasburgo è il Vino Bianco

Argentoratum, Blend di Bianchi, Charles Muller.

Il nome di questo vino attira subito l’attenzione. Sarà per come viene scritto (in modo criticabile, in verticale, poco leggibile nell’immediatezza), o per il suo significato che riporta all’argento. Ma la storia è più complessa di quanto si possa immaginare in prima battuta. “Argentoratum” nasce in Alsazia, nei dintorni di Strasburgo, da uve Riesling e con il contributo di altre uve bianche della zona. Viene prodotto da 11 aziende vinicole con la medesima etichetta (cambia solo il nome del produttore in alto a destra). Ogni produttore decide come comporre il blend, sempre a maggioranza di Riesling. Veniamo nello specifico al nome: Strasburgo, che in alsaziano si dice Strossburi e in latino Strateburgus (città delle strade), in antichità si chiamava Argentoratae e successivamente Argentoratum ed era un castrum romano. Il nome risale dal gallico “ratiu”, recinto fortificato, e da argento per bianco, rilucente. Sullo sfondo dell’etichetta si intravede una trama grafica goticheggiante, forse riferita alla maestosa cattedrale di Strasburgo. Nel complesso si tratta di una storia raccontabile e che “pesca” nell’antichità: il legame col vino ci può stare, laddove la coltivazione della vite, anche in quelle zone poco temperate, vanta una tradizione millenaria.

Il Polpo non è Guercio e il Guercio ci Vede Benissimo

Tinto, Alicante Bouschet, 
Tenuta di Carleone.

Ecco l’ultima (la più recente) invenzione del Guercio. Sarebbe a dire Sean O’Callaghan, impiantato nel bel mezzo del Chianti Classico, in quel paradiso di ulivi e vigne che si chiama Radda. A sorpresa si tratta di un vino “frizzante”, o anche “mosso”, come direbbero in Oltrepò dove quella tipologia di vini è tradizione. Certo il vitigno non è di quelli classici (e si ricollega al nome del vino, “Tinto”): l’Alicante Bouschet è un incrocio tra Petit Bouschet e Grenache che da vita a un’uva “tintoria”, come di dice in Spagna, cioè molto scura, come un inchiostro. Un esperimento l’incrocio (diffuso soprattutto in Spagna, Portogallo e Cile), un esperimento questo vino pet-nat che il Guercio e il suo socio austriaco Egger, decidono di tappare con la chiusura metallica a corona. Veniamo al packaging. Il nome del vino, come già detto, è “Tinto”. Dallo spagnolo. Insomma, vino rosso. Discutibile per il mercato italiano, ma trova il suo rational nel colore del vino e nelle origini del vitigno che lo compone. Questione risolta. E cosa dire della piovra che campeggia in primissimo piano sull’etichetta? Bella l’illustrazione, ispira simpatia al primo sguardo. Il mollusco cefalopode regge con un tentacolo lo stemma aziendale, per il resto ammicca attonito forse in attesa di essere messo in pentola. Che il polpo sia un consiglio di consumo? O più probabilmente il riferimento a quella particolare caratteristica di questa specie che consente loro di emettere una sostanza nera come l’inchiostro per autodifesa. 


Idee Chiare nell’Oscurità

Fear No Dark, Cabernet e Oseleta, Pasqua.

L’etichetta è “oscura” ma le intenzioni sono chiare. Si tratta di un progetto che nasce con un concetto coraggioso ma lucido, soprattutto alla luce dei cambiamenti climatici in atto. Parte tutto da una sezione di vigneto, di circa 5 ettari, esposto a nord-est, cioè, praticamente quasi in ombra. Parcella viticola decisamente fresca ed esposta ai venti provenienti dai Monti Lessini, come precisato dal produttore. Due grandi “balze” alternano le zone d’ombra sul vigneto generando tempi diversi di maturazione. Il tutto viene gestito agronomicamente e tecnologicamente in modo da ottenere in ogni caso un vino “maturo”. Siamo comunque all’interno del progetto “Mai Dire Mai” per cui si rischia di confondere il nome del vino, che effettivamente è “Fear No Dark”, insomma una metaforica sfida al buio. Una sfida esperienziale e qualitativa. Veniamo ad una analisi più particolareggiata di questa strana etichetta: in alto alla base del collo leggiamo il nome del vigneto, Monte Vegro, e della località, Iliasi. Siamo nell’area dell’Amarone e anche per questo, un Cabernet rappresenta una sfida anche alla tradizione. Nella parte ampia dell’etichetta, tutta molto scura, leggiamo quello che potrebbe essere definito come un nome di linea, “Mai Dire Mai”, anch’esso, concettualmente sfidante. Subito sotto, con un “andamento collinare”, il nome “Fear No Dark”. Poi l’iconografia della sede e il nome del produttore alla base. Certamente sarà difficile un “colpo d’occhio” sullo scaffale con questi toni notturni, ma l’originalità c’è, soprattutto per quanto riguarda lo storytelling.

Acini che Sorridono nella Piana Rotaliana

Majerla, Chardonnay, Dorigati.

Questo vino nasce in località Ischia, ma non siamo nella soleggiata isola di fronte a Napoli. Siamo nella piana Rotaliana, patria del Teroldego, che in questo caso ci dona un vino prodotto col un vitigno ormai figlio del mondo intero, lo Chardonnay. L’etichetta è spartana, ma sa distinguersi ad un’occhiata generale e anche nel particolare. Caso raro tra le aziende vinicole italiane, troviamo una dettagliata spiegazione del packaging nel sito internet del produttore: “…è la riproduzione di una xilografia eseguita da Remo Wolf, noto artista trentino. Sulla sinistra il suggestivo castello di Mezzocorona, sulla destra, l'emblema della natura maestosa di queste montagne, il Sassolungo della Val Gardena. Al centro spicca uno stupendo grappolo d'uva, di cui ogni acino è un piccolo sole. Sole che è un momento di unione fra la Val Gardena e la Piana Rotaliana ed elemento di vivificazione del frutto da cui si ottiene questo ottimo vino bianco”. E troviamo anche una spiegazione del nome del vino, “Majerla”: “…deriva dal nome del corso d'acqua che scorre adiacente al vigneto, il Ri del Maerla” (accezione dialettale). Bella l’idea dell’artista di umanizzare (o se vogliamo di “solarizzare”) gli acini d’uva con un sorriso. Peccato, nostro parere, che il soggetto artistico sia in bianco e nero, forse a colori avrebbe reso più vivace e attenzionale il concetto e l’etichetta stessa.

La Pioggia Batte sul Ciglio del Vigneto

Rain, Riesling, Alois Lageder.

Siamo in Alto Adige, ma di poco. Magré sulla Strada del Vino è il primo paese della provincia di Bolzano, arrivando da sud, quindi dalla provincia di Trento. Qui si trovano la sede e la produzione di Alois Lageder, noto e stimato viticoltore altoatesino. Di conseguenza la lingua comunemente parlata è il tedesco. Il nome di questo vino, un Riesling, è un caso linguistico. Ebbene, “Rain” in tedesco significa ciglio, bordo, confine. Probabilmente si fa riferimento a un confine agronomico, forse geologico, probabilmente geografico. Ma per i più “Rain” riporta all’inglese che sta per “pioggia”. Non solo all’estero ma anche in Italia dove, ad esempio, la celebre canzone di Prince, Purple Rain, ha reso molto noto il termine. E’ necessario aggiungere che la pioggia non è propriamente un fattore positivo per la vigna, tranne quando ci si trova in periodi di siccità, logico. In generale però la pioggia porta umidità, che per la salubrità del grappolo non va molto bene. La scelta quindi di chiamare il vino “Rain”, diventa discutibile di fronte al prevalente significato tratto dall’inglese. Di certo questo vino non vorrà limitarsi al mercato dell’Alto Adige, davvero piccolo in termini commericiali. Per il resto l’etichetta è spartana ma elegante, molto lineare e di sintesi, con una bella rappresentazione grafica, in basso, dei profili delle montagne, o forse dell’andamento dei vigneti ai piedi di esse. 

Un Vino Sugli Scudi e Sugli Scogli

Scoglio Nero, Ansonica, 
Tenuta Isola nel Giglio.

Non si tratta di un errore di trascrizione, l’azienda in oggetto si chiama proprio “Tenuta Isola NEL Giglio”. Certo che se si cercano notizie su questa bellissima isola tirrenica Google ti dice subito che forse stai cercando qualcosa riguardo l’Isola DEL Giglio. E’ quindi un vezzo linguistico rischioso. Ma passiamo oltre e vediamo di commentare l’etichetta di questo nuovo vino, un bianco da vitigno Ansonica, tipico di quella terra, frutto della coltivazione di solo un ettaro di vigna. Da considerare che in totale, la superficie vitata dell’isola è di soli 20 ettari per 10 produttori. Tutte vigne ad alberello, per adeguarsi agronomicamente alle frequenti giornate di vento. Questo vino si chiama “Scoglio Nero”, e il riferimento è marittimo e geologico al tempo stesso. Terre scogliose, scoscese, rocciose, granitiche, dove i pendii diventano sabbia scura sfaldandosi sulle piccole spiagge. Il colore scelto per questo packaging è particolare: un grigio-azzurro che sa distinguersi. La trama grafica ci porta alla vista l’isola circondata da onde argentate, con inchiostro in rilievo. Curioso il sottolineare, in grande, la parola “nero” laddove si sta parlando di un vino bianco. Forse un altro vezzo creativo di chi ha progettato l’etichetta. In summa il packaging è pulito, gradevole, distintivo, originale nelle forme, nel croma e nel lettering. Il vino, per la cronaca, si colloca molto in alto a livello di prezzo. E quindi anche di aspettative!

Il Curioso Caso della Cuba Renana

Adriana, Pinot Bianco, 
Weinhaus Cuba am Rhein.

Non ci si aspetta di vedere, su una bottiglia di vino tedesca, produzione della Renania-Palatinato, un bella cubana con tanto di sigaro. E nemmeno ci si riesce a spiegare, di primo acchito, il nome di questo produttore: “Cuba am Rhein”. Cerchiamo di capire. La sede e i vigneti di questa azienda vinicola famigliare si trovano a Kaub, piccola cittadina sulle sponde del Reno. Ebbene, sembra che in precedenza questo paese veniva citato come “Cuba Villula”, cioè “piccola Cuba”. Il proprietario dell’azienda giustifica l’adozione del nome “Cuba sul Reno” dicendo che “Molte persone associano Cuba ai Caraibi, ai sigari, al rum, alla danza e alla musica! Uniamo il suono del nostro vino, che cresce su ripidi pendii di ardesia, con il "Suono di Cuba" che delizia le persone e entra nella loro anima come salsa, rumba, mambo e cha-cha-cha…”. Molto bello evocare i ritmi caraibici, allietano tutti, anche senza vino, ma in realtà l’origine di questa “Cuba germanica” viene così raccontata dal Wikizionario tedesco: “Kaub fu menzionato per la prima volta nel 983 come "Cuba villula", il piccolo villaggio "Cuba". Da questo si è sviluppato l'attuale nome Kaub. Il nome Cuba consente diverse interpretazioni etimologiche. I primi ritrovamenti di tombe celtiche nell'area parlano del celtico "cabi" (ingl.: piccola casa). Un'origine latina derivata dal verbo “cubare” (ingl.: to camp) è facilmente ipotizzabile a proposito di un possibile avamposto romano sul Reno. La spiegazione in forma di leggenda, propone una terza possibilità che fa derivare il nome dal sostantivo latino “cupa” (coppa o anche il tino e la botte). Dopo essere stato lapidato a Magonza, si dice che San Teonesto sia stato spinto lungo il Reno in una vasca bucata e salvato dai residenti locali vicino a Kaub”. Alla fine ci ritroviamo con una etichetta davvero bizzarra (lo è anche il titolare, Marcel Farcas, di origini Rumene, trapiantato in Germania), un vino che si chiama Adriana, e una bellissima frase che rappresenta la filosofia dell’azienda (che apre il sito internet): “Il lavoro è amore reso visibile. E se non puoi lavorare con amore, ma solo con riluttanza, allora è meglio lasciare il tuo lavoro e sederti alla porta del tempio per chiedere l'elemosina a coloro che lavorano con gioia”. (Khalil Gibran)


L’Uva Acerba non va Bene. E Neppure l’Arte.

Aurora, Nebbiolo e Barbera, 
Az. Agr. Fenocchio Renato.

Le etichette che riportano disegni infantili sono un fenomeno conosciuto. Capita abbastanza spesso di trovare, in uno scaffale di vendita o tra la gamma dei vini di un produttore, packaging che sono chiaramente attribuibili ai figli del produttore stesso. La “mano” artistica di solito tradisce età dai 3 ai 7 anni, cioè quel periodo dove l’estro artistico dei pargoli è ancora in fase di sviluppo, diciamo così. Alcuni disegni sono al limite del comprensibile. Altri, come l’esempio che qui riportiamo, un Langhe Rosso di Renato Fenocchio, sono più gradevoli, meglio compiuti. In questo caso abbiamo anche un bel nome, evocativo, “Aurora”, che probabilmente si riferisce a qualcuno della famiglia, oltre al magico momentum dell’alba. Perché i disegni di bambini non sono adatti a vestire una bottiglia di vino? Perché tutto sommato si tratta di una “comunicazione” famigliare, affettiva, che rientra e rimane nell’ambito della cerchia parentale. Dall’esterno si potrebbe percepire quella tenerezza che ai piccoli è dovuta e risulta sempre spontanea, ma ai fini della memorabilità del prodotto e della sua immagine nulla si costruisce. In questo caso, l’etichetta è piacevole, vediamo dei tulipani, così sembra, uno a forma di cuore. I colori sono brillanti, ripetiamo, il nome è bello ed evocativo, ma rimaniamo pur sempre nell’ambito di un’arte comunicativa acerba ed esacerbante.

Etichetta di Valore per una Croatina Biologica

Briccaia, Croatina, la Costaiola.

Ecco un esempio di packaging virtuoso. Per varie ragioni che andremo a scoprire. Innanzitutto l’azienda, che si chiama “la Costaiola” (anticamente Costa d’Altare) e si trova in un luogo storico dell’Oltrepò Pavese, Montebello della Battaglia (il 20 maggio 1859 a Montebello fu combattuta una celebre battaglia, preludio dell’unificazione d’Italia: la cavalleria sardo-piemontese e la fanteria francese costrinsero le forze austriache a ritirarsi oltre il Po). L’azienda può vantare molte vendemmie, essendo nata nel 1938 ad opera di Luigi Carbone, bisnonno degli attuali proprietari. Tra l’altro Montebello della Battaglia si trova al 45° parallelo, una linea geografica che stabilisce l’eguale distanza tra Polo Nord ed Equatore, latitudine ideale per coltivare la vite: mai troppo freddo, mai troppo caldo. Ma veniamo all’etichetta di questa Croatina in purezza. Si tratta di un vino da coltivazione biologica, il colore verde utilizzato nel design, sia pure scuro, elegante, lo fa presagire. Ma soprattutto lo conferma la dicitura “vino biologico” proprio sotto il nome del vino. “Briccaia” è un nome in un certo senso figlio della moda, di quel Sassicaia che ha fatto scuola in tutti i sensi. Possiamo immaginare che Briccaia possa derivare da bricco, dall’arabo “ibriq” cioè vaso di rame usato per servire il caffè (non c’entrerebbe col vino), ma anche da “bricca” o “briccola”, dirupo, luogo scosceso e selvaggio. Nome comunque originale, breve, coinvolgente. Alla base, sotto al nome del produttore, “la Costaiola”, troviamo la specifica “viticultori dal 1938” un giusto vanto da sottolineare. La cartotecnica dell’etichetta si fa notare per un bollo rotondo, che si stacca dalla parte rettangolare, dove con inchiostri dorati e in rilievo viene riprodotta una decorazione artistica valorizzante. Nel complesso si tratta di un packaging-design di spessore, sia pure per una bottiglia messa in commercio in zona mass-market.

Un Ventaglio di Vini per Anime Coraggiose

Maninalto, Nero d’Avola e Frappato, Joanna Dubrawska.

Diciamo subito che questo nome è bello, originale, coinvolgente: “Maninalto”. La storia però va spiegata. Si tratta di fatto di un nome di linea, cioè un nome per una gamma di vini. Anzi, per la precisione si tratta del nome di un progetto già molto ampio (in termini geografici, come numero di bottiglie, invece, molto piccolo). Ebbene, Joanna Dubrawska, già  facente parte del team del noto produttore COS, siciliano, dopo aver appreso il “mestiere” ha deciso di intraprendere una carriera da “solista”. E ha dato vita al Natural Wine Project, un’idea innovativa che prevede di vendemmiare ogni anno in un luogo diverso, con vigne diverse e uve sempre diverse. Il comune denominatore è la naturalità, agronomica e produttiva. Insomma se le vigne prese in considerazione le vanno a genio, Joanna le affitta per un anno e ci fa un vino. Il primo, del quale vedete l’etichetta, è stato prodotto nel 2015 in Sicilia (una prova, mai messo in vendita), il 2016 è saltato per valutazioni qualitative negative, il 2017 sempre in Sicilia a produrre un vero Cerasuolo di Vittoria Docg (prima annata in vendita), nel 2018 la scelta è andata su un Mauzac Rosé (Francia), nel 2019 è stato prodotto un bianco a base di un vitigno della Savoia che si chiama Jacauère e nel 2020 è toccato alla Loira con un vino 100% Grolleau. Chiaro che sono tutti esperimenti da 800/1000 bottiglie al massimo ma l’originalità della formula e della sua presentazione, a partire dal’etichetta, fanno pensare e ben sperare un una continuazione del progetto con sempre nuove sorprese.

Quanto sono Fichi i Trulli?

Ficheto, Blend di Bianchi, 
Masseria Borgo dei Trulli.

Il fico è buono, insomma è fico, si sa. Lo sa molto bene anche l’intraprendente fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, che a Bologna ha aperto un grande outlet del gusto chiamandolo F.I.C.O. (che sta per Fabbrica Italiana COntadina). Il “Ficheto” invece, nome di questo vino, in alcuni dizionari non viene contemplato. Ma noi sappiamo, o meglio immaginiamo, che possa fare riferimento a quella porzione di podere destinato ad accogliere delle piante di fico. In effetti il nome corretto di una piantagione di fichi sarebbe “ficaia” (pseudodialettale toscano). Mentre volendo cercare etimo e origini si arriva al latino ficaria, ovvero ficheto, ma anche ficetum e fichereto. Volendo citare la nobile Accademia della Crusca: “Nei freddi luoghi non si possono allevar ficheti”. E infatti questo vino che inneggia al dolce frutto di fine agosto, viene prodotto in Puglia, una delle regioni più calde d’Italia, con uve di Fiano, Malvasia e Sauvignon, nei pressi di Sava in provincia di Taranto. L’azienda che produce questo vino bianco è circondata dalle tipiche costruzioni coniche bianche, i trulli, che caratterizzano il paesaggio di quelle zone. Per quanto riguarda la grafica dell’etichetta e i suoi elementi costitutivi vediamo che il nome viene confermato da una texture di frutti e foglie di fico e si caratterizza per essere composta da quattro strisce di carta separate, a comporre l’insieme, gradevolmente verde e oro.