Quanto sono Fichi i Trulli?

Ficheto, Blend di Bianchi, 
Masseria Borgo dei Trulli.

Il fico è buono, insomma è fico, si sa. Lo sa molto bene anche l’intraprendente fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, che a Bologna ha aperto un grande outlet del gusto chiamandolo F.I.C.O. (che sta per Fabbrica Italiana COntadina). Il “Ficheto” invece, nome di questo vino, in alcuni dizionari non viene contemplato. Ma noi sappiamo, o meglio immaginiamo, che possa fare riferimento a quella porzione di podere destinato ad accogliere delle piante di fico. In effetti il nome corretto di una piantagione di fichi sarebbe “ficaia” (pseudodialettale toscano). Mentre volendo cercare etimo e origini si arriva al latino ficaria, ovvero ficheto, ma anche ficetum e fichereto. Volendo citare la nobile Accademia della Crusca: “Nei freddi luoghi non si possono allevar ficheti”. E infatti questo vino che inneggia al dolce frutto di fine agosto, viene prodotto in Puglia, una delle regioni più calde d’Italia, con uve di Fiano, Malvasia e Sauvignon, nei pressi di Sava in provincia di Taranto. L’azienda che produce questo vino bianco è circondata dalle tipiche costruzioni coniche bianche, i trulli, che caratterizzano il paesaggio di quelle zone. Per quanto riguarda la grafica dell’etichetta e i suoi elementi costitutivi vediamo che il nome viene confermato da una texture di frutti e foglie di fico e si caratterizza per essere composta da quattro strisce di carta separate, a comporre l’insieme, gradevolmente verde e oro.

Il Miglior Amico del Vignaiolo è la Lucertola

Cuvée 1487, Blend di Rossi, Zantho.

Innanzitutto parliamo di quella lucertola, forse imparentata con un geco, che appare dorata, in grande evidenza, sull’etichetta: si tratta della Zoodoca Vivipara Pannonica che vive nell’ambiente naturale dove l’azienda coltiva le proprie vigne (nel Burgerland, in Austria, vicino al confine ungherese). Il piccolo anfibio ama i terreni caldi e sassosi, e difende i grappoli e il vegetativo dagli insetti molesti (in quanto se li mangia). Passiamo quindi al nome del vino, “Cuvée 1487”, un nome descrittivo, ci dice che il prodotto è costituito da uve diverse (Cabernet, Zweigelt, Merlot) e che il 1487 è una data importante (si tratta dell’anno in cui per la prima volta il nome del paese sede dell’azienda, Andau, viene menzionato anche come “Zantho”). E qui passiamo direttamente al nome del produttore che in lingua magiara significa “terreno agricolo”. E il cerchio si chiude su una storia molto antica fatta anche di nomi topografici oltre a vitigni autoctoni e metodi di lavorazione. Le etichette di questo produttore austriaco sono tutte caratterizzate da questa grande lucertola, con colori di fondo diversi, sfumature che variano secondo le tipologia dei vini in gamma. In generale è stato trovato un simbolo, molto efficace nel rappresentare l’azienda, con un significato che pervade anche le questioni agronomiche (la coltivazione è biologica). Simbologia, memorabilità, originalità, all’interno di un disegno globale che racconta qualcosa di coerente con i vini prodotti e proposti al pubblico. 

Missiano e i suoi Cento Nomi Storici

Missianer, Schiava (Vernatsch), St. Pauls.

Questo vino viene prodotto con un vitigno storicamente molto popolare in Alto Adige, la Schiava. Localmente chiamato Vernatsch (che nulla ha in comune con l’italica Vernaccia). Il suo nome, che su questa bottiglia campeggia ben visibile in rosso su fondo bianco, ci riconduce a una località che si trova nei pressi della sede della “kellerei”. Cioè vicino a St.Pauls, su un costone che si affaccia direttamente su Bolzano. Ci viene in aiuto Wikipedia che recita: “L'insediamento di Messan viene citato per la prima volta in una documentazione del 1186, poi nel 1210 come Missan e Mixan, nel 1272 come Misan e nel 1379 come Myssan; solo dal 1450 è attestata per la prima volta la forma odierna di Missian. Si tratta di una zona colonizzata soprattutto dai Conti d’Appiano nel XII e XIII secolo, che erano proprietari dei masi e della giurisdizione, prima che questa passasse ai Conti del Tirolo. Nel 1490 sono i signori di Niedertor, di Bolzano a elencare ricchi possedimenti dislocati a Missian e al suo sottoborgo Unterrain”. Insomma per gli altoatesini le località sono particolarmente valorizzanti, vedasi lo speculare esempio del celebre vino Terlaner che prende il nome dalla nota località Terlano (Terlan). L’etichetta di questo vino è ben realizzata. il nome in alto, verso il basso una serie di profili di montagne realizzati in parte con la cartotecnica e in parte con una grafica che si avvale di inchiostri speciali, anche in leggero rilievo. Ne risulta una certa eleganza che colloca giustamente il prodotto in un ambito di montagna e automaticamente di genuinità.

La Regolatezza in Etichetta, l’Eleganza nel Vino

Sylvaner, Kuen Hof.

Cosa si può dire del carattere degli altoatesini? Essenziali, rigorosi, geometrici. E delle loro etichette? Si direbbero le medesime cose. Prendiamo come esempio virtuoso (nel senso che è in grado di confermare le nostre elucubrazioni) l’etichetta di questo Sylvaner della piccola ma prestigiosa cantina Kuen Hof: nulla viene lasciato al disordine creativo. Su un tassello grigio, in verticale, leggiamo il nome dell’azienda. Disassato sulla destra. In alto a sinistra alberga un rombo dorato in prossimità dell’annata di vendemmia. Alla base le scritte di legge con la Doc (in tedesco) e le altre consuete diciture. Tutto molto lineare, inquadrato, graficamente pulito. E l’eleganza? Probabilmente risiede tutta nel vino, e questo va molto bene per il concetto di qualità che da quelle parti è molto elevato. Si tratta quindi di un packaging che appaga le aspettative di chiarezza e serietà, ma che sullo scaffale stenta a farsi notare. I colori tenui non colpiscono, se non le parti in oro. La composizione e disposizione delle forme non colpisce, anzi disturba un po’ quella voglia di non centrare gli elementi per vezzo realizzativo ma senza un vero strappo creativo. Arte moderna? Possibile. Visioni futuribili? Probabile. Ma è come se si percepisse la mancanza di qualcosa. Un elemento non certo riempitivo, laddove la semplicità paga sempre. Bensì la mancanza di un’idea, di un sostegno comunicativo, di un fulmine a ciel sereno. Ah, già, siamo in quella parte d’Italia che non fa troppo parte dello stivale, inteso come fucina di genio e sregolatezza.

L’Edizione Limitata Aggiunge Pepe all’Estate

Pfefferer Sun, Blend di bianchi, Colterenzio.

Questa nota cantina altoatesina ha lanciato nel 1979 il primo “Pfefferer”, quello con l’etichetta verde. Un vino da uve Moscato Giallo perfetto per gli aperitivi. Sulla medesima lunghezza d’onda dopo qualche anno è arrivato il “Pfefferer Pink”, etichetta rosa, vitigni vari, estivo e disimpegnato. Da pochi mesi ecco il lancio del terzo vino che compone questa gamma, il “Pfefferer Sun” composto da uve Chardonnay, Pinot Bianco e Sauvignon. Consiglio d’uso sempre molto “leggero” ma questa volta sfizioso (il vino è moderatamente aromatico) come antipasti speziati e pesce. Il nome del vino (e della linea, a questo punto) significa “pepato” in tedesco (da pfeffer, pepe). L’etichetta, piacevole, scorrevole, moderna, si arricchisce, in basso a destra, di un bollino che sottolinea la “limited edition”, artificio commerciale che ormai sempre più spesso le aziende vinicole adottano per generare maggiore interesse (e probabilmente per avere la scusa per aumentare un po’ il prezzo). Il riferimento all’edizione limitata “sporca” la linearità dell’etichetta ma aggiunge una sorta di glamour consumistico. In generale si tratta di una famiglia di etichette ben riuscita, che riesce a distinguersi molto bene a scaffale. Con personalità ed eleganza.

Prominente e Provocatoria. In una Parola: Prosperosa

Prosperosa, Nebbiolo Rosato, 
Azienda Agricola dei Cavallini.

Una piccola azienda vinicola dell’Alto Piemonte con vigne attorno a Fara Novarese produce vini autoctoni tipici della zona. Con questo rosato esce un po’ dal seminato proponendo un vino fresco, ottenuto tramite salasso da uve di Nebbiolo. Anche l’etichetta è ardita e insolita: il nome del vino è “Prosperosa” e l’immagine ci mostra una figura di donna, con una chioma floreale e un generoso… davanzale. Il nome infatti non lascia dubbi: secondo Treccani “donna prosperosa” è sinonimo di “donnone, giunone, matrona”. La donna rappresentata in etichetta in realtà ha una silhouette gentile e affinata, sul petto, come un vestito, vediamo un cuore rosa. Certo il fatto che nel nome la seconda parte sia “rosa” si lega alla tipologia di vino. Ma di certo c’è l’intenzione di mettere in atto un provocazione per generare curiosità e interesse. Forse non potrebbe piacere a chi manifesta la parità di genere anche nella comunicazione commerciale, ma di fatto l’etichetta di questa bottiglia risulta originale e memorabile con un guizzo di simpatia. A chi non piace rimane certo la scelta di non acquistarla, ma siamo sicuri che portata in tavola procurerà empatia e convivialità.

Grappoli d’Oro per un Matrimonio in Rosso

S’Affidu, Cannonau e Merlot, 
Cantina Sorres.

Si tratta di una cantina che ha sede in Sardegna, a Sennori, nel nord dell’isola. Oggi l’azienda è gestita da due sorelle, Laura e Delia Fiori (“Sorres” in dialetto sardo significa sorelle), nipoti del fondatore che nel 1943 inizia a produrre vino sfuso. La gamma è passata logicamente al vino in bottiglia e negli anni sta diventando sempre più qualificata. Ne è un valido esempio l’ultimo nato, prodotto solo in 400 bottiglie, un “felice matrimonio tra due vitigni coltivati sotto il sole della Romangia, davanti al Golfo dell’Asinara”. I due vitigni che partecipano a questo vino al 50% sono il Cannonau e il Merlot. Si tratta quindi di un matrimonio “misto”, tra un autoctono e un internazionale. Il nome del vino conferma la logica della felice unione perché si chiama “S’Affidu” che in dialetto sardo significa appunto matrimonio. L’etichetta è molto bella: in una modalità che ricorda i ricami tipici degli ornamenti sardi, vediamo un grappolo centrale che gronda una goccia di nettare, realizzato con uno stile prezioso e stampato con un inchiostro dorato. Ai lati, tra flutti marini e onde collinari, altri grappoli d’oro che attendono di esser colti, completano la parte illustrata del packaging. Il risultato, grazie anche al fondo nero, restituisce sensazioni di cura e preziosità, di passione e attenzione. Una trama moderna sia pure incastonata in una storia antica.

Mi più Mi uguale Allegria

Mimi, Rosato, Cossetti.

A Castelnuovo Belbo, in provincia di Asti, la famiglia Cossetti coltiva e vinifica dal 1891. Questa storica e quindi considerevole attività viene evidenziata non solo nello storytelling ma anche nel logo, nella parte alta dell’etichetta. Oggi è Clementina Cossetti, quarta generazione, a guidare un’azienda che può offrire un’ampia gamma di vini, dalla Barbera al Barolo, dal Moscato all’Arneis. Qui abbiamo deciso di mostrare un rosato prodotto con uve Barbera al 70% e Freisa al 30%. Quello che attira subito, oltre al suadente colore del vino (ma questo succede più o meno per tutti i rosati), è il colore dell’etichetta. O meglio degli elementi che la compongono, a partire dal nome del vino, Mimi, proprio al centro del packaging, realizzato con una puntinatura di colori molto vivaci. Il nome è proprio così, senza accento sulla seconda “i”, per cui non fa pensare ad un vezzeggiativo. Piuttosto a una composizione tra “mi” e “mi” o al plurale di “mimo” (danza senza espressione verbale, con soli gesti e mimica). Non abbiamo trovato un rational nel sito del produttore, ma il nome risulta comunque simpatico e la modalità con la quale viene scritto in etichetta è molto giocosa, allegorica, allegra, divertente. Il prodotto si rispecchia in essa: il vino rosato va vissuto come “arlecchino” dei vini, richiama l’estate, la danza, la festa e il buon vivere. Salute!

Una Bella Donna è Bella anche in Uruguay

Bella Donna, Tannat, Antigua Bodega Stagnari.

L’azienda vinicola in questione, con sede in Uruguay e già recensita in questo blog per una altro dei loro vini rossi, “il Nero”, tradisce origini italiche. La proprietaria si chiama Virginia Stagnari e con i figli Mariana e Carlo gestisce una bella realtà nei pressi di Santos Lugares. Veniamo all’etichetta di questo Tannat in purezza che si chiama “Bella Donna”. Il concetto di bella donna è molto ampio, o se vogliamo cinicamente soggettivo. Certo si tratta di un complimento che ad ogni latitudine fa piacere (e parlare). In questo caso il nome del vino è accompagnato da una illustrazione molto pittorica e molto da arte contemporanea che rappresenta un viso di donna. L’elaborato è molto particolare: manifesta un certo stile e un certo estro da parte dell’autore. Naso, bocca e occhi (a dire il vero uno solo) emergono con relativa semplicità da uno sfondo bianco. In alto, al posto della capigliatura, vediamo un cromatico groviglio di fiori che sicuramente incuriosisce attribuendo caratteristiche di memorabilità al packaging. E’ bella la donna in etichetta? Si potrebbe dire di sì. E’ strana ma affascinante, con un pizzico di mistero. Nel complesso si tratta di una bottiglia che attira l’attenzione con una originalità tutta sua (sia pure con un nome molto generico). Tutto sommato il giudizio è positivo.

Un Mare di Vigneti nella Valle della Loira

La Sirène, Chardonnay, Domaine de la Fessardière.

La piccola azienda che produce questo vino si trova nei pressi di Nantes, a meno di un’ora dalle coste francesi sull’Oceano Atlantico. Guardando l’immagine in etichetta, subito dopo aver notato una elegante e suadente sirena, viene il sospetto che quelle colline vitate, ondulate, possano essere volutamente confuse con i flutti del mare. Il colore aiuta questa interpretazione. Un verde-acqua poco utilizzato nel packaging dei vini. Ma torniamo al design di questo Chardonnay (in matrimonio con il Melon de Bourgogne, vitigno tipico di quella zona): il nome del vino è “La Sirène”, inequivocabile, l’immagine lo conferma mostrandoci, di spalle, una affascinante sirena, dalle sembianze mediterranee. L’illustrazione presenta uno stile che a tratti sembra pittorico, vedasi l’ombra lasciata sulla roccia dal corpo della sirena. La “mano” di chi l’ha realizzato ha voluto trasmettere con una modalità creativa, non banale, il concetto di salinità, caratteristica che a detta dei produttori si può facilmente ritrovare nel calice. Ne risulta un packaging fresco, invitante, concettualmente pregnante, con una modernità che nella Valle della Loira fatica tutt’oggi a farsi largo.

L’Amore Universale per i Vitigni Autoctoni

Lovamor, Albillo, Alfredo Maestro. 

Se vogliamo parlare di nomi di vitigni, giusto per entrare in argomento, c’è l’Albana, l’Albarola e, in Spagna, anche l’Albillo. Vitigni che generano uve a bacca bianca molto diversi tra loro ma molto somiglianti nel nome. In questo caso parliamo di un vino prodotto nella Tierra de Castilla y Leon, in pratica nei pressi di Valladolid, nel nord-ovest del paese. Evocativo il cognome del produttore “Maestro”, nomen omen, può essere utile in comunicazione: un tassello in più. Ma naturalmente è il nome del vino e la sua etichetta che ha attirato la nostra attenzione e che ha stimolato la pubblicazione di questo post. Ed ecco “Lovamor”, un neologismo anglo-ispanico che l’illustrazione rende inequivocabile: vediamo un Cappuccetto Rosso molto elegante (con tacchi) che tenendo per le zampe il lupo cattivo lo bacia innocentemente. Più amore di così! Ed è proprio questo il senso che il produttore vuole dare a questa bottiglia. Con giocosa creatività e anche con un pizzico di provocazione. “Vibrante e pieno d’amore!”, scrive Alfredo nel proprio sito internet. E noi lo applaudiamo per il coraggio e l’ironia che ha saputo mettere nell’etichetta.

Una Chiara Alba Notturna, a Caluso

Chiaralba, Erbaluce di Caluso, 
Cooperativa Produttori.

Cosa si nasconde dietro alla dicitura “Aziende Agricole Associate” (che troviamo alla base di questa etichetta con caratteri in oro)? Semplice ma non chiarissimo: si tratta della Cooperativa Produttori Erbaluce di Caluso (lunga definizione che si legge invece nel retro-etichetta). Mentre il relativo sito internet (dominio) si chiama “produttorierbaluce.it”. Nel logo stilizzato (nel sito web) troviamo invece scritto “Cantina Produttori Erbaluce di Caluso. Insomma, ben 4 definizioni per la medesima azienda. L’etichetta invece è bella e ben eseguita. Si tratta di un Erbaluce di Caluso Docg a tutti gli effetti che si chiama “Chiaralba”. Come la celebre canzone di Vasco Rossi, “Albachiara”, ma al contrario. L’etichetta è divisa in due parti, un sopra e un sotto. Sotto troviamo tutte le scritte, sopra una bella illustrazione in stile moderno con il profilo di un paesello e di alcune montagne. Il cielo è blu-notte, una grande luna si staglia sopra alle viti e alle vite umane. Si tratta di un packaging molto semplice ma in grado di far sognare, i colori e le scelte grafiche sono equilibrati. E’ una bottiglia che si porta volentieri in tavola. Tutto il resto lo faranno la convivialità e il buon umore.

Il Vento Caldo dell’Inverno (e Fresco d’Estate)

Fallwind, Pinot Nero Rosato, St. Michael Eppan.

La nuova linea di vini di questa nota azienda altoatesina si chiama “Fallwind” che in tedesco significa “venti di caduta” inteso ad esempio il Foehn (Favonio, in italiano) che da nord discende dalle montagne con una dinamica riscaldante, per cui tutt’altro che gelido. In generale, freddo o caldo che sia, il vento fa bene alla vigna, perché mantiene i tralci e i grappoli asciutti, quindi riduce il rischio di muffe e malattie per le viti. In questa etichetta (e in quelle di tutta la gamma che si compone di diverse tipologie) il vento viene davvero celebrato: da notare anche la scritta in latino sopra al nome, “ventus ferat, ventus creat” che significa “il vento soffia, il vento crea”, con l’intenzione di comunicare che si tratta di un elemento “che rende perfetto il microclima che caratterizza tutta la zona di coltivazione”. Tra queste parole vediamo una iconografia del sole e della luna, affiancati, a completare il discorso climatico in modo, se vogliamo, molto orientale: lo Yin e lo Yang, il bianco e il nero, il giorno e la notte, insomma le contrapposizioni. La grafica dell’etichetta è stata ben studiata: in basso la tipologia si esprime con un arancione vivo che si fa notare. Al centro troviamo un disegno al tratto della parete alpina che si trova alle spalle dei vigneti e che conduce al Passo della Mendola, una specie di protezione naturale per la vite e per chi vive e lavora in questo luogo ameno (siamo sull’altopiano del lago di Caldaro). 

Sassi Ovunque, sulla Costa Toscana

Sassi Sparsi, Cabernet e Merlot, 
Rocca delle Macie.

Ed ecco che questa azienda toscana di proprietà della Famiglia Zingarelli con sede in Castellina in Chianti, in un certo senso “fa il verso” al celeberrimo Sassicaia, chiamando questo rosso di ispirazione bordolese “Sassi Sparsi”. In sostanza i sassi più o meno grandi che caratterizzano la geologia dei vigneti (presso Castagneto Carducci), non sono così ammassati bensì sparsi un po’ in giro. Tanto che l’immagine in etichetta lo conferma sia pure in modo non propriamente efficace. Cosa ci comunica il packaging? Vediamo innanzitutto il nome del vino, molto grande e leggibile, notiamo che le due “s” iniziali si intrecciano in un ipotetico abbraccio. Quindi vediamo delle forme irregolari di color giallastro che effettivamente potrebbero essere dei sassi ma anche delle briciole di pane su una tovaglia bianca. Sotto al nome del vino appare il nome della Doc, Bolgheri, evidenziata in rosso: elemento molto importante in quanto posiziona il prodotto in una zona che, grazie al noto concorrente, ha acquisito negli ultimi decenni una enorme importanza, strategica e commerciale. Al netto della volontà di collocarsi in una dimensione concettualmente “sassosa” come possiamo giudicare questo nome? Definisce il tipo di terreno, si aggancia al costrutto valoriale dei vini della Costa Toscana (la nostra piccola Bordeaux) ma non spicca per originalità e intensità emotiva. E anche dal punto di vista grafico, probabilmente si poteva immaginare di meglio.

Suona Bene o Male? La Fonetica Come Elemento Apicale

Nebbiolo d’Alba, Monpissan.

Una piccola cantina piemontese a conduzione famigliare ha scelto di chiamarsi “Monpissan”. Non conosciamo le reali origini di questo nome, si può pensare a qualcosa di topografico: nomi originari di zone, colline, bricchi, sono molto utilizzati in questi paraggi (siamo a Canale in provincia di Cuneo). Certo non suona favoloso: nelle inflessioni italiche la “pissa” non è riconducibile solo alla “pizza”. E anche se fosse non andrebbe bene lo stesso. Uno degli aspetti che governa la creazione di nomi è la fonetica, che probabilmente viene ancora prima della semantica. Insomma se un nome “suona male” non fa bene il proprio lavoro. Soprassedendo possiamo aggiungere che l’etichetta in questione, graficamente è ben impostata, certo la struttura a rombo è un po’ desueta e lo sono anche i caratteri di scrittura che vengono utilizzati in questo packaging. L’illustrazione in oro, invece, è ben realizzata e costituisce elemento che valorizza. Anche il logo che appare in un cerchio sotto al nome del produttore è ben fatto e aggiunge valore (si tratta di un bel galletto), peccato che risulti molto piccolo nel complesso del design che troviamo sul fronte della bottiglia. Infine l’utilizzo del fondo nero ha sempre una marcia in più in termini di eleganza.

La Casualità della Creatività (del Packaging)

Lagrein, Kurtatsch.

Molto semplice e al tempo stesso molto bella questa etichetta della Cantina Cooperativa di Cortaccia sulla Strada del Vino (Kurtatsch, in lingua asburgica, siamo infatti nella provincia di Bozen, Bolzano). Sala degustazione panoramica, recentemente rinnovata, vigneti in quota (tra i 220 e i 900m s.l.m.), idee chiare e vini di qualità. Questo Lagrein non ha un nome proprio, il packaging si esprime quasi unicamente con immagini. E cosa vediamo distintivamente nell’etichetta? Tre cipressi. Si potrebbe pensare alla Toscana, ma qui siamo in Alto Adige. E secondo la proprietà i tre cipressi esprimono tre valori: la consapevolezza del terroir, la dedizione nel lavoro, la dinamicità del team. Sempre con i piedi per terra (scrivono nel sito aziendale). I cipressi in questione si stagliano su un fondale di montagne (alte, non colline), illustrazione minimalista, toni tenui, rivelati. Nella parte sinistra del design vediamo una striscia rossastra che attraversa il nome del vitigno e della doc dall’alto in basso e che ci sta proprio bene… peccato che non si tratta di una scelta di packaging, ma di una goccia di vino che, uscita del collo della bottiglia durante un versamento, ha impregnato la carta dell’etichetta. Una specie di branding casuale, di quelli che fanno dire “però, niente male”. A questo punto crediamo fortemente in un restyling che possa comprendere la strisciata di vino. Chissà se verremo ascoltati?

Un Nuovo Vino tra le Stelle del Firmamento Amarone

Cercastelle, Merlot e Oselèta, Elèva.

I due titolari di questa azienda vitivinicola che conta 6 ettari terrazzati nella Conca d’Oro dell’Amarone, dedicano molta attenzione ai nomi. Cosa rara in Italia. Un altro che può vantare questa peculiarità personale è un tale Angelo Gaja che per i suoi vini ha cerato nomi discutibili (spesso in dialetto), ma certamente originali. Ma torniamo all’azienda “Elèva” di Raffaella Veroli (enologa) e Davide Gaeta (professore) e alla spiegazione che troviamo nel sito web: “Perché “Elèva”? Perché fin da subito si è voluto dare un’idea di questa realtà: Eleva è un’azienda che si trova in una posizione “alta”, in collina, a quasi 300 m/slm. Inoltre, “elevare” è un termine che in enologia significa affinare, in particolare in legno; una pratica che viene applicata in genere ai vini di maggior pregio, quali appunto sono per l’azienda l’Amarone della Valpolicella e il Valpolicella Ripasso”. Il concept non fa una grinza. Passando al vino, in questo breve articolo parleremo dell’ultimo nato, abbiamo un mix tra il morbidone Merlot e l’ispida Oselèta, a creare un equilibrio perfetto in bevibilità. Il vino è stato chiamato “Cercastelle”. Neologismo purissimo ma in grado di evocare sensazioni romantiche da inizio estate. Questo nome trova un rational nella volontà di inserire in gamma, nel “firmamento” dei vini dell’azienda, una stella nuova, forse la più lontana rispetto alle denominazioni tipiche della zona (Amarone, Recioto, Valpolicella Ripasso). Nome certamente originale, etichetta elegante, con particolari in oro, raffigurante un universo ignoto quanto sognante.

Le Monache Raccolgono Ortaggi ma Bevono Vino

Orto delle Monache, Morellino di Scansano, Argentaia.

Questa azienda toscana che ha sede in maremma (in Strada Colle del Lupo, località Banditaccia, Magliano), si distingue per una serie di etichette molto semplici dove il nome del vino è centralizzante. Ma partiamo dal nome del produttore, “Argentaia”. Viene così commentato nel sito web: “Il nome di Argentaia è un omaggio al promontorio e al mare dell’Argentario che si staglia di fronte alla tenuta offrendo una vista senza pari”. Il logo, che domina l’etichetta dall’alto, è un cerchio bronzeo con all’interno l’immagine di una fortezza sul mare. Per quanto riguarda il packaging qui rappresentato, relativo a un Morellino di Scansano Riserva (vitigno Sangiovese), possiamo vedere nella parte bassa la stilizzazione di tre monache nell’atto di raccogliere degli ortaggi, mood confermato dal nome del vino in modo inequivocabile: “Orto delle Monache”. Ed ecco la spiegazione che il produttore ci offre nella pagina internet di questo vino: “Argentaia ospita un antico vigneto, dal tempo in cui un convento dominava la collina. Le monache prima e le generazioni di agricoltori poi se ne sono occupate, rendendolo una testimonianza della storia e un tesoro dei sapori della tenuta. Dalle sue uve nasce Orto delle Monache: Morellino di Scansano Riserva, vino introspettivo, austero nel profumo e dal sapore intenso, capace di trasmettere la spiritualità di Argentaia”. L’etichetta si presenta in modo forse fin troppo lineare e diretto. La grafica infatti non spicca per originalità o creatività interpretativa. Contiamo sul fatto che all’assaggio il prodotto possa lasciare un ottimo ricordo di sé e dell’azienda.

Grazie dei Fiori (e del Nebbiolo)

Al posto dei fiori, Nebbiolo Rosato, Le Pianelle.

Questa piccola realtà vitivinivcola che opera nell’Alto Piemonte prende il proprio nome dalla località “La Pianella”, nel territorio del comune di Roasio, tra Gattinara e Biella. Dal singolare al plurale, visto che le parcelle di vigna sono diverse e molto frastagliate. Ma è il nome del vino che ci ha incuriosito di più. Si tratta di un nebbiolo vinificato in rosa che si chiama “Al posto dei fiori”. E’ un nome lungo, composto da ben 4 parole e da un totale di 15 lettere, per cui non propriamente un esempio di sintesi. Insomma non si può nemmeno considerare un nome: è più simile a una frase. E grazie proprio alla sua complessità riesce a comunicare emozioni articolate. L’interpretazione può essere multipla: potrebbe infatti essere inteso come “il posto dei fiori” (ad esempio, dove si trova la vigna) oppure così come si legge, evocando un gradito omaggio, la bottiglia, proposto in alternativa a un mazzo di fiori. Atto comunque romantico, visto che il vino è un rosato, tipologia apprezzata in generale, ma riconducibile in particolare a occasioni di coppia (oppure conviviali ed estive). A noi piace immaginare che il significato ultimo sia proprio quello di un gesto d’amore. Laddove regalare un vino è sempre un atto di gentilezza, di attenzione, di affetto. Insomma una gran buona abitudine, anche al di fuori delle occasione speciali. L’etichetta è graficamente molto pulita, essenziale, lineare. Vediamo pochi elementi che spiccano e si fanno ricordare. Non resta che brindare in nome del buon vino e della passione che anima chi lo produce e chi lo sa apprezzare.

Cappuccetto Rosso ha Domato il Lupo

Little Red Riding Wolf, Pinot Noir e Merlot, 
Staffelter Hof.

La fantasia non manca a questa azienda vinicola tedesca che opera nella Mosella e veste le proprie etichette con illustrazioni da fiaba (con uno stile adulto, però). In particolare questo vino rosso si presenta con una allegoria della nota favola di Cappuccetto Rosso. E’ necessario spiegare che in inglese il titolo del celebre racconto è “Little Red Riding Hood” che significa “mantellina rossa”, qui da noi tradotto in “cappuccetto”. Si tratta per la precisione di un tipo di mantellina che si indossa per fare equitazione. Orbene, il Cappuccetto Rosso raffigurato nell’etichetta sta cavalcando… il lupo! E lo fa con gran piglio e carattere come se lo avesse, effettivamente, domato. Questa originale Cappuccetto Rosso, molto sexy, per giunta, brandisce un legno sul quale è appeso un grappolo d’uva che le serve per ingolosire il lupo. Volano veloci nel cielo. Insomma la favola viene stravolta, adattata, edulcorata, creando un nuovo mito che come minimo incuriosisce, attira l’attenzione, rende memorabile il prodotto. Sullo sfondo si vedono chiaramente le colline che il fiume Mosella ha tracciato nel tempo attorno alle proprie curve sinuose. Non c’è che dire, si tratta di un packaging bizzarro e coraggioso. Che strappa un sorriso e probabilmente anche un calice in più.



Anfore Ricche di Storia nel Mediterraneo Brindisino

Philonianum, Susumaniello, Tenute Lu Spada.

A volte i nomi dei vini sono il frutto di ricerche storiche. E’ questo il caso del vino rosso 100% Susumaniello (detto anche Somarello Nero) qui rappresentato e prodotto dall’azienda “lu Spada” di Brindisi. Il nome del vino, “Philonianum”, che l’etichetta potrebbe indurre a credere si riferisca a una specie arborea o a un fiore (che ci sembra di scorgere al centro del packaging evidenziato con un elegante inchiostro bronzeo in rilievo), si riferisce invece a un ritrovamento archeologico in Medio Oriente, così raccontato nel sito aziendale: “A questo vino Tenute lu Spada ha scelto di dare il nome di Philonianum. L’azienda ha creato un’etichetta che richiama un’antica anfora vinaria come testimonianza della storia del vino di Brindisi. Con l’aiuto del prof. Antonio Caputo, Carmine Dipietrangelo, amministratore di Tenute lu Spada, ha ricostruito il percorso di un vino prodotto a Brindisi nel 19 a.C. e spedito a Masada, in Giudea. In questa località durante gli scavi archeologici fatti tra il 1980 e il 1986 emerse un’anfora vinaria su cui era inciso il nome di un vino prodotto a Brindisi dalla famiglia Laenius e dal nome Philonianum. Tenute lu Spada ha deciso così di dare il nome di Philonianum al vino di Susumaniello…”. L’etichetta è elegante e distintiva, il nome del vino non facile da pronunciare ma portandosi dietro una storia e più facile da far “accettare”. Resta qualche dubbio sull’immagine: forse la sagoma di un’anfora, ma d’impatto potrebbe essere qualcosa di diverso. 

Copernico, Bowie e Einstein, Tutti in un Vino Rosso

Rivoluzione Cabernicana, 
Cabernet Sauvignon, Fra i Monti.

A Terelle, sperduto e ameno paesello che si colloca a metà strada tra Isernia e Frosinone, la piccola e giovane azienda vitivinicola “Fra i Monti” coltiva uve autoctone come lo sconosciuto Maturano (bianco), ma anche internazionali come il Merlot. Le etichette dei vini in gamma sono davvero eccentriche. Abbiamo deciso di mostrare quella del Cabernet Sauvignon, davvero originale. Il vino si chiama “Rivoluzione Cabernicana” e il riferimento è chiaramente alla Rivoluzione Copernicana messa in atto nel 1543 da Nicolò Copernico, ribaltando la concezione Geocentrica (la Terra al centro dell’universo) in favore di quella Eliocentrica (il Sole al centro di tutto il sistema orbitale). Oggi, nel comune dialogare, si fa riferimento alla Rivoluzione Copernicana come a qualcosa che ribalta concetti precedenti e superati. In questo caso la rivoluzione viene compiuta nella vinificazione, in quando viene scelto di lavorare in modo più fresco e bevibile, un vitigno, il Cabernet, che di solito risulta piuttosto arcigno nel calice. Nella figura in etichetta il concetto “rivoluzionario” viene sottolineato da un Copernico con la faccia truccata alla David Bowie (somiglia anche al trucco adottato dai Kiss, storico gruppo rock) e con la lingua di fuori, in modalità Einstein. Insomma un mix di culture e personaggi che attribuisce a questo packaging-design una spiccata attenzionalità. Forse le stranezze sono anche ridondanti, ma quello che si ottiene è una efficace memorabilità.

Satanassi con un Bel Nome

Lucibello, Verdicchio, Benforte,

Italo Calvino è stato un genio della scrittura, della narrazione, della fantasia. Sorprende che la favola da lui scritta con protagonisti Quattordici e Lucibello non sia tra le meglio riuscite. Il nome di questo Verdicchio dei Castelli di Jesi (Riserva) si ispira infatti al racconto del noto italico scrittore e poeta. Il nome è molto bello: “Lucibello” suona bene, evoca la luce e la bellezza, ma… nel racconto di Italo Calvino è il nome del “capo dei diavoli” che Quattordici, il ragazzino protagonista, trova all’inferno. In breve, un giovane contadino, nel peregrinare nelle sue avventure, si ritrova a combattere con i diavoli armato di una tenaglia, con la quale mozzica la lingua ai luciferi. Ecco spiegata anche l’illustrazione al centro dell’etichetta: una tenaglia da lavoro, circondata da “gironi” argentati. A parte la necessità di descrivere tutto questo, il packaging è ben realizzato, con ordine e gusto, e con l’utilizzo di inchiostri speciali come il nero in rilievo che veste il nome del vino e l’argento dei particolari dell’illustrazione. Bello anche il nome dell’azienda: “Benforte”. Legato anch’esso a una favola, come viene spiegato nel sito web del produttore: “Proprio nella nostra area di produzione lo scrittore Italo Calvino raccolse una fiaba popolare dal titolo “Giuanni Benforte”. La storia racconta l’eterno tema della vittoria dell’astuzia contro la forza bruta: la vittoria del piccolo contro il gradasso. Abbiamo scelto Benforte come brand aziendale per celebrare lo stesso ingegno e la stessa tenacia di chi, anno dopo anno, si impegna per produrre buon vino”.

Le Bollicine Ballano Nude

Bollabiòt, Chardonnay Spumante, Cantina Primavena.

A questo produttore piace giocare con le parole. E quindi ci è risultato subito simpatico. Si chiama Stefano Parpaiola e vive e lavora sulle colline della provincia di Pavia, a Montù Beccaria. Prendiamo, tra le altre etichette dell’azienda, quella del Brut Metodo Classico da Chardonnay dove vediamo subito un giullare intento nelle sue evoluzioni. In realtà, guardando bene, con un taglio di luce favorevole, i giullari sono tre: uno al centro, coloratissimo, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra, realizzati con un inchiostro nero lucido. I due giullari sui lati appaiono come per magia solo muovendo la bottiglia in favore di luce. Un gioco nel gioco che porta attenzione e originalità. Il nome del vino è un gioco di parole: “Bollabiòtt”. Bisogna sapere che “balabiòtt”, secondo Wikipedia, “…è un termine mutuato dalla lingua lombarda, traducibile in "danza nudo", per definire un guitto oppure una persona facile a mostrare entusiasmo e sicurezza, ma di scarsa capacità realizzativa e dubbia integrità morale”. In questo caso, sostituendo la “a” iniziale con una “o” si ottiene un “balabiòtt con le bolle”. Secondo alcune versioni storiche sull’origine di questo nome, l’epiteto si riferisce a un “matto” (nei tarocchi la figura del Matto è di fatto un Giullare) in quanto anticamente nei manicomi venivano lasciate le persone nude, per evitare che in qualche modo potessero farsi del male (con indumenti annodati o incendiati). Un altro gioco di parole lo troviamo nel sito del produttore dove, sotto al nome dell’azienda “Cantina Primavena”, leggiamo “faccio tutto a modo bio”. Lo stesso nome dell’azienda è una variazione di parole (in questo caso non positivo, perchè può essere letto male) che ricorda la Primavera (ma con la “n” al posto della “r”). Tirando le somme a noi questo Bollabiòt piace, quanto meno nella sua bizzarra vestizione.

Un Dolcetto che si Chiama come un Nebbiolo

Nivö, Nibiö (Dolcetto dal Peduncolo Rosso), Rugrà.

Proprio dove il Piemonte cede il passo alla Liguria e le brezze marine asciugano le nebbie dell’entroterra, nasce e cresce un vitigno autoctono del quale si stanno perdendo le tracce. Luigia Zucchi, la produttrice titolare dell’azienda Rugrà, ha deciso di salvare questo clone di Dolcetto (dal Peduncolo Rosso, così viene definito dagli annali di viticoltura) e di produrre in quantità limitate (solo 2 ettari di vigne) il Nivö. ll nome di questo vino sarebbe la forma dialettale di Nibiö che anche se somiglia e potrebbe ricordare il celebre Nebbiolo non lo è. Il bisticcio di parole può generare confusione, certo. Ma in questo caso vince l’espressione antica che domina ancora in quella zona: i nomi dei vitigni (soprattutto quelli autoctoni) bisogna tenerli così come i contadini e i loro avi li chiamavano e continuano a chiamarli. L’etichetta è molto semplice: in alto, in buona grandezza, il nome del produttore. Al centro una quercia stilizzata. In basso il nome del vino con un carattere di scrittura che simula l’amanuense (e che crea qualche perplessità tra a”v” e la “n”, e viceversa). Per tutto il resto vigono le tradizioni e la voglia di brindare con vini veraci (e bio).