Uno Spiritello Furtivo e un Monaco Lascivo


Moenchberg, Riesling, Louis Maurer.

Le etichette di questo piccolo e generazionale produttore alsaziano sono delle vignette, dei fumetti. Tutte molto divertenti. Allegre, colorate, spensierate. Portiamo ad esempio di tutto ciò l’etichetta del Grand Cru Moenchberg, un Riesling tradizionale per quei luoghi. Nell’immagine centrale, caratterizzata da un cromatismo verde acceso, vediamo un albero, alla base del quale siede un monaco meditabondo, fors’anche bellamente addormentato, mentre alle sue spalle, un diavoletto, uno spiritello, giullare, satrapo, elfo, chissà, fa rotolare giù per la collina una botte. Forse l’ha sottratta in cantina. Forse è proprio lui, quella figura tutta nera sullo sfondo, il genio della vinificazione. In pratica assistiamo a una piccola storia che ci fa lavorare di immaginazione. L’intenzione di questo tipo di etichette è quella di rallegrare gli animi, e di fatto l’obiettivo è raggiunto. Il rischio è quello di sembrare poco seri, e di inficiare così la credibilità di produttore e prodotto stesso. Ma tutto sommato questa vèrve ci piace. E crediamo possa piacere anche agli avventori di questi vini di grande qualità e spessore storico-culturale.

Un Fenicottero Esotico in una Enclave Ligure


Nu Go Quae, Nasco e Moscato Bianco, U Tabarka.


Il nome di questo vino incrocia la propria genesi con la storia di almeno tre territori. Genova (per l’esattezza, il quartiere di Pegli), Tabarka, città della Tunisia al confine con l’Algeria, e la Sardegna dell’estremo Sud-Ovest. Andiamo innanzitutto al significato (secondo quanto scritto nel sito del produttore): “Il nome Nu Go Quae, in dialetto carlofortino “non ho voglia”, deriva dal nome del Quae (voglia), vino da uve stramature realizzato dalle medesime uve ma in chiave passito e decisamente dolce”. In sostanza “Da alcuni atti legali, è accertato che parecchi cittadini pegliesi emigrarono fondando piccole colonie in: Corsica, Sardegna, Sicilia, Alessandria d’Egitto, Provenza, Catalogna e un po’ ovunque per il Mediterraneo. Nel 1544 Carlo V concede alla famiglia Lomellini l’isola di Tabarka al largo della costa tunisina, per praticarvi la pesca del corallo e il commercio in generale. Dato il numero di ville e la loro ubicazione in Pegli probabilmente i Lomellini erano i più autorevoli nobili del paese. Dovendo colonizzare l’isola si rivolgono quindi alla popolazione pegliese, sempre aperta a nuovi sbocchi commerciali. A Tabarka i coloni vendono il corallo ai Lomellini. Le perdite economiche dovute ai saraceni, la diminuzione del banco corallifero, le incursioni corsare, l’eccesso di popolazione, fanno divenire meno attraente l’isola. Già nel 1736, quando Carlo Emanuele III° decide di valorizzare la Sardegna, un gruppo di tabarchini guarda con molto interesse l’isola di S.Pietro. In accordo con il Vicerè di Cagliari si pianifica l’arrivo di 300 coloni nella nuova terra. Nel 1737 si ipotizza l’arrivo di 700 nuovi tabarchini con la promessa di poter commerciare il corallo con lo stesso trattamento economico fatto dai Lomellini. Viene stabilito entro la primavera del 1738 l’arrivo dei tabarchini”. In pratica, si tratta di un dialetto ligure parlato ancora oggi in questa enclave sarda (Carloforte, Calasetta e Sant’Antioco). In etichetta, a parte l’originale nome, vediamo la sagoma stilizzata di un fenicottero (specie che popola l’Isola di San Pietro e dintorni).

Un Mix di Rossi su Carta Arancione


Mixtico, Blend di Rossi, Le Gatte.

Questo vino della Doc Capriano del Colle (Brescia) nasce su un altopiano di circa 10 km quadrati (il Montenetto) con terreno prevalentemente argilloso, che si eleva (si fa per dire) sulla Pianura Padana fino a 133mt di altitudine. Quanto basta per assicurare alla vigne quello scorrere via dell’acqua piovana e di conseguenza dell’umidità che spesso nuoce alle uve. Bella questa etichetta “ottica” che si presenta con un arancione molto protagonista e con un nome originale del vino: “Mixtico”. Parola inventata, certo, operazione creativa ormai necessaria in ogni settore per distinguersi dal nugolo di nominazioni già registrate o tutte uguali a sé stesse. Mixtico sta a significare che in questo vino c’è un mix di vitigni (e anche il riferimento fonetico a “mitico” emerge chiaramente), ed esattamente Merlot, Marzemino, Sangiovese e Barbera. Da vigne nuove coltivate in un comprensorio aziendale di 15 ettari, fiancheggiati da maestosi boschi. Il nome del vino, in inchiostro bianco in rilievo, si staglia su un non meglio comprensibile fondo che potrebbe sembrare un disegno tribale o una cartina geografica solo accennata. Sotto troviamo il nome/logo dell’azienda, Le Gatte (oro su arancione, criticabile). Ancora più giù, alla base del packaging vediamo la scritta “La vita è troppo breve per bere cattivo vino”. Frase un po’ inflazionata ma che fa sempre il suo effetto. La firma sottostante è della “Famiglia Cirillo”, proprietaria della tenuta.

Il Cantiniere al Centro del Mondo


Pinot Noir, Ottin.

Siamo in una delle regioni più “indipendentiste” d’Italia, insieme all’Alto Adige, naturalmente. La differenza è che in Valle d’Aosta non fanno clamori, al limite utilizzano la lingua francese, a tratti differente da quella originale, per definire le proprie attività. Ed è quello che succede in questa etichetta del Pinot orgogliosamente Noir di Ottin, piccolo ma ottimo produttore del luogo, dove sotto al nome (cognome) aziendale leggiamo “viticulteur” (viticoltore, questo è facile) ed “encaveur”, termine di non facile traduzione se non approfondendo la ricerca tra le pieghe delle forme dialettali. In quella zona infatti, da “encavage” (cioè la “messa in cantina di prodotti enogastronomici), risulta come nome di colui che se ne occupa, cioè, potremmo dire, il cantiniere. Quindi Ottin si definisce, in etichetta, come “viticoltore e cantiniere”, fornendo quindi una garanzia in più sul controllo diretto di tutto il processo produttivo dei suoi vini. A conferma di ciò, la gentile (fin troppo esile) illustrazione al centro del packaging vede un omino chino nell’atto di spostare una botte, probabilmente per sistemarla opportunamente in cantina. L’opera, appunto, del cantiniere che in questo caso è stato anche viticoltore ed enologo. Bella la semplicità di questa etichetta: pochi elementi, alcuni evidenziati dal croma rosso, su un fondo di carta goffrata, spessa al tatto, valorizzante. La piccola Valle d’Aosta si fa notare.

Il Leone Unghiato di un Sangiovese Soleggiato


Il Pometo, Sangiovese, Lungarotti.

Questa grande e nota cantina umbra presenta un giovane e spigliato Sangiovese con un’etichetta ugualmente dinamica e apparentemente insolita. Certo i colori e gli stilemi attirano l’attenzione in modo originale ma approfondendo la documentazione in merito scopriamo che “Il motivo in etichetta, stilizzato, si ispira alle formelle quadrilobate del XIV sec. che ornano la facciata del Duomo di Perugia: un equilibrio formale che interpreta storia, eleganza e modernità”. Quello che si nota, oltre al cromatismo rosso acceso, è anche la scritta “museo del vino”, facente riferimento a una esposizione privata presente nella sede dell’azienda. In alto a sinistra troviamo anche la scritta “ex-libris”. Bello comunque il leone mitologico, con gli occhi a cuore e la coda come un tralcio di vite. Un leone brindante nel sole, con le zampe unghiate e un messaggio d’amore che smorza il suo aspetto selvaggio. Un vezzo grafico: la “N” di Sangiovese in rosso come altri particolari dell’illustrazione. Il nome del vino, se vogliamo, è la parte meno sorprendente, “il Pometo”, che rincorre concettualmente e foneticamente un filone ormai noto dalla parti del centro Italia, e soprattutto in Toscana.

Pinocchio e una Fata, nel Sole, tra i Castelli


La CapoVolta, Verdicchio, la Marca di San Michele.

Il mantra filosofico e di marketing di questa piccola azienda biologica marchigiana è “Solo cru. Un vigneto, un vino”. Niente male. Un’affermazione forte, deliberata, che conduce la narrazione verso un aspetto qualitativo fondante, per la produzione di buon vino. Siamo in Contrada San Michele, a Cupramontana, grazioso paese in provincia di Ancona. 10 ettari di vigne e una serie di etichette sorprendenti, tra le quali questa che portiamo in visione. Il nome del vino è “La CapoVolta”, forse riferito a qualche dinamica di produzione (macerazione sulle bucce, sei mesi sui lieviti), forse a qualche struttura storica della cantina. Sta di fatto che il packaging di questo Verdicchio dei Csatelli di Jesi si fa notare: una leggiadra figura femminile vestita di rosso fugge via verso l’orizzonte. In primo piano un ricordo di Pinocchio col suo bel naso lungo. Eppure le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio. Certo la “V” maiuscola del nome “La CapoVolta” qualcosa dovrebbe significare. Mistero. Favola. Racconto (che manca, nel sito del produttore, speriamo in aggiornamento). E il vino? Costoso, ma (dicono) molto buono, soprattutto con certe ricette di pesce di grande consistenza materica e palatale.

Sotto al Vulcano, Sopra il Mare


Mareneve, Blend di Bianchi, Federico Graziani.

Dice Federico Graziani che “il vino non deve essere perfetto, deve essere vero”. Si può essere d’accordo con questa affermazione oppure no. Quello che rimane è la sensazione, ora et semper soggettiva, all’assaggio. Sicuramente questo blend di vitigni coltivati a 1200 mt. s.l.m. sulle pendici dell’Etna comunica tanta freschezza e un mare di qualità. Lui, il produttore, parla di freschezza di montagna (“a muntagna”, come viene chiamato il vulcano da quelle parti) e di salinità del mare. In etichetta spicca un nome originale, “Mareneve”, che esprime proprio questo stacco geofisico laddove i due elementi si accomunano e rendono il clima davvero unico. Spicca anche, nel packaging, il profondo azzurro cromatico dell’illustrazione in primo piano. Opera di arte contemporanea dove ognuno ci vede quello che vuole o che può. Noi ci vediamo delle stelle, ma tutto è relativo quando la natura suggerisce e l’uomo recepisce. In buona sostanza un piccola produzione animata dalla passione. Certo che l’esperimento in alta quota è venuto bene. E sono soddisfazioni.

I Vespri, il Convento e il Tramonto: c’è Tutto


Vesper, Rosso di Valtellina, Convento di San Lorenzo.

Il nome di questo vino è… tante cose. Tutte insieme, ma meritevoli di essere distinte. Innanzitutto riportiamo il rational del produttore, che si trova nel sito internet: “Vespero è un dio della mitologia greca, personificazione della luce della sera. I vigneti terrazzati, situati nell'area che circonda il Convento San Lorenzo, ad un'altitudine media di 500 metri e con esposizione a sud, sono inondati dai raggi del sole dall'alba al tramonto”. Ma noi, grazie a Wikipedia, sappiamo anche che Vesper o Vesper Martini è un cocktail composto da gin, vodka e Kina Lillet, un vino aromatizzato non più prodotto e sostituito dal similare Lillet Blanc attualmente disponibile. Il cocktail, un “pre-dinner”, è stato inventato nel 1953 da Ian Fleming nel romanzo Casino Royale. L'agente segreto James Bond ordina e nomina il cocktail in onore di Vesper Lynd, di cui era innamorato”. Vesper inoltre ricorda i vespri, di cattolica usanza e liturgia, e cioè “la penultima delle ore canoniche, tra nona e compieta, e la parte dell'Uffizio che in essa si recita o canta, sacra funzione pomeridiana”. E infine come non dire qualcosa riguardo i Vespri Siciliani: “furono una ribellione scoppiata a Palermo all'ora dei vespri di Lunedì dell’Angelo nel 1282. Bersaglio della rivolta furono i dominatori francesi dell'isola, gli Angioini, avvertiti come oppressori stranieri. Da Palermo i moti si sparsero presto all'intera Sicilia e ne espulsero la presenza francese”. In conclusione: un bel nome, evocativo e concettualmente valido, per un vino dall’aura trascendentale. Il resto dell’etichetta? Benissimo anche quella, a partire dalla stilizzazione della monaca, che diventa logo, nella parte alta. Bella carta, bel carattere di scrittura, pulizia grafica ed eleganza. Applausi.

Si Salvi chi Può (dalla Modernità delle Malelingue)


Salvanza, Chianti Colli Senesi, Piccini 1882.

Nella prima parte del libro di Vittorio Coletti (linguista e lessicografo, consigliere dell’Accademia della Crusca) che si intitola Eccessi di Parole (Cesati Editore), si trova una sezione che potremmo definire come un “Museo di parole perdute”, dedicato alle accezioni che la nostra lingua ha perso negli anni. Ad esempio, del verbo “salvare” abbiamo perso la “salvanza” (nome di questo vino), oggi diventata salvezza, da ”scappare”, la scappatura, così come è in uso ufficio e non più uffizio, giovane e non più giovine. Ed ecco che un noto produttore toscano (dove risiede la “culla” dell’italiano originario) chiama il proprio Chianti (delle Colline Senesi) con una parola che riporta ad antichi vernacoli. Onore al merito, fulgore alla percezione di storicità che il Chianti, di suo, porta sempre con sé, in ogni caso. Si tratta di un’etichetta che anche per lo stile di elaborazione e di collocazione dei vari elementi, parla di tradizione e cultura di quei luoghi. Al centro, uno stemma attorniato dalla dicitura “Una tradizione di famiglia dal 1882”, non fa altro che confermare le intenzioni di chi ha realizzato il packaging. In alto il nome del produttore “in chiaro”, in basso la firma in corsivo. Dettagli non casuali contenuti da un’etichetta che fa il proprio gioco in modo persuasivo e convincente.

Un Moscato Rosato Piuttosto Accentuato


Moskè, Moscato di Scanzo Rosato, la Cornasella.

Chiamare un Moscato “Moskè” potrebbe sembrare un’operazione semplice. E infatti lo è. Per “complicare” un po’ le cose è stata utilizzata una “k” che qui da noi fa automaticamente esotico. A Grumello del Monte però, dove viene prodotto questo vino, non c’è nulla di esotico. Forse qualche palma nei giardini. Per il resto si produce (fuori zona) il Moscato di Scanzo, che è uno dei rari passiti rossi d’Italia, nella Docg più piccola come estensione (un centinaio di ettari appena, in un territorio molto ristretto). Quindi questo rosato nulla ha da spartire con certi rosati francesi della Costa Azzurra. Se non, appunto, il nome un tantino esterofilo. Il rosa del nettare viene confermato in etichetta dalle venature fucsia di una foglia di vite, sagomata in alto, con un effetto abbastanza cosmetico. In basso, sotto al nome, scritto con un inchiostro nero in rilievo, troviamo il logo/nome del produttore: “La Cornasella” (piccola azienda con 3,5 ettari di vigneti). Si tratta di un packaging insolito per un vino, se non per la presenza della foglia di vite che fornisce una certa appartenenza. Il cromatismo acceso contribuisce a far notare la bottiglia. Soluzione sempre valida commercialmente, al di là del bene e del male.

Una Finestra sull’Alsazia Bella e Buona



Dragon, Riesling, Domaine de l’Oriel.

In questa etichetta di un piccolo e qualitativo produttore alsaziano, la protagonista è “l’’Oriel” un tipo di finestra antica che viene ben evidenziata in etichetta con una riproduzione in rilievo e con inchiostro ramato. L’Oriel in francese altro non è che la Bow Window in inglese. Ma quando andiamo a cercare la traduzione in italiano troviamo la curiosa forma “Bovindo” derivata chiaramente dall’ italianizzazione del termine i inglese citato prima. Letteralmente sarebbe “finestra sporgente” o meglio “finestra ad arco”. Sandrine e Claude Weinzorn producono  diverse tipologie di vino, ma il vitigno prediletto è il Riesling. Quello di questa bottiglia si chiama “Dragon” e proviene dal uno dei Grand Cru alsaziani, in questo caso si tratta del vigneto “Brand”. Meglio precisare che non abbiamo qui una parola in inglese (laddove “brand” significa marchio) ma un nome geolocalizzato di origine tedesca (in Alsazia infatti, tutt’ora, si parla una specie di dialetto tedesco e malvolentieri il francese). Il fondo nero di questo packaging fa risaltare il particolare architettonico che dà nome all’azienda e il nome dei produttori. Etichetta elegante ed essenziale. Proprio come un buon Riesling.

La Limpida Convivialità di un Sorriso


Marco Bottura Selezione, Barbera d’Alba.

Un volto in etichetta, quella del fondatore. Sorridente, con baffo birichino. Un packaging insolito, sicuramente moderno, fuori dagli schemi. Oggi l’azienda è guidata dai figli di Marco, Alessandro e Filippo. Orgogliosamente piemontese, ma con un tratto moderno, una visione giovanilistica, che ha sempre come tema portante la musica. In questo caso, un vino da GDO, il produttore ci mette la faccia, e il suo nome. e un bellissimo sorriso, che è la cosa più importante. I colori sono anch’essi insoliti, virati, modificati, artizzati. Su un fondo color vino, certamente. I caratteri di scrittura sono statuari, molto chiari, grandi, leggibili. Facile da trovare e molto probabilmente anche facile da bere questa Barbera di livello langarolo, accreditata alla zona di Alba. La parola “selezione”, subito sotto la nome del capitano, definisce un’area di preziosità, di privilegio, di scelta accurata, senza entrare nel dettaglio. L’acquirente riceve una chiare impressione di affidabilità e di qualità. Il resto lo farà il calice e anche la convivialità.

Giù il Cappello per Cappellano


Barolo Chinato, Cappellano.

C’è qualcosa di più “classico” del Barolo? Nel mondo del vino, no. Per spingersi oltre, forse, è necessario produrre un “derivato” del Barolo, cioè il “chinato” che non è una riverenza, bensì una aromatizzazione con spezie di vario genere (le ricette segrete, etc etc). Ed ecco quindi la versione del Barolo Chinato di una celebre famiglia delle Langhe, i Cappellano. Tra l’altro si dice che il fondatore fosse in origine un farmacista, per cui una perfetta anticipazione di quel biochimico chiamato oggi enologo. Tornando all’etichetta in questione, possiamo vedere chiaramente che qui di classico c’è davvero tutta la bottiglia, non solo storia, tradizioni e prodotto. Fondo blu, cornice oro, in alto una stilizzazione del paese di Serralunga, con il castello, la chiese, le case, tutto regolare. Sopra al disegno stilizzato il nome del produttore e l’orgogliosa (giustamente) dicitura “casa fondata nel 1870”. Lo stile, anche dei caratteri di scrittura, è quello di una volta. Guai a discostarsi anche di poco da quello che i canonici elementi di comunicazione hanno sempre rappresentato. Siamo in Piemonte, l’America è lontana. Per fortuna. La “ditta” è di quelle che vende benissimo il proprio nome, per cui problemi commerciali zero. Fatturato, invece, a mille.

T come Tramin e Come Trendy


T Cuvée, Blend di Bianchi, Cantina Tramin.

La nota cantina cooperativa altoatesina che ha sede a Termeno in provincia di Bolzano, propone sul mercato un Bianco “Vigneti delle Dolomiti” Igt che prevede l’utilizzo di uve Chardonnay, Pinot Bianco e Sauvignon.Una grande “T” campeggia al centro dell’etichetta. “T” come Termeno (o Tramin in lingua autoctona). La grande lettera è tracciato con due pennellate di color ocra e di fianco vediamo, a complemento, la scritta “Cuvée”. Si tratta di un vino “base”, un bianco per tutti i giorni, dal costo limitato. Il packaging però riesce bene a nobilitarlo, con una dinamica grafica moderna, giovane, spigliata e con l’aggiunta di quel “Cuvée” che spinge la percezione fino al limite della alta qualità di certi grandi vini (in una modalità letterale e fonetica, valorizzante, tipicamente francese). L’operazione è al tempo stesso semplice e coraggiosa. Dentro a questa bottiglia c’è un vino normale, per normali consumatori che però cercano qualche emozione in più e la garanzia del nome di una cantina nota soprattutto per le sue chicche enologiche. La carta bianca dello sfondo e impreziosita da una lavorazione percepibile al tatto e alla base ecco la firma e il logo della cantina a sancire la credibilità del prodotto e della sua provenienza. Tutto bene.

Un Rettile Primitivo in Abruzzo

(Geko), Primitivo, Cantina Tollo.

La Cantina Tollo è una grande azienda che produce e commercia una estesa gamma di vini. La sede è a Tollo in provincia di Chieti (Abruzzo). Tra gli altri vini sta puntando molto sul biologico e sul biodinamico. Anche per le linee “basse”. Ne è prova la bottiglia di questo Primitivo che in etichetta presenta un simpatico geko (chissà perché alla fine risultano più simpatici delle lucertole), eletto a simbolo di natura incontaminata (nonché per le sue preferenze alimentari che lo portano a “consumare” molti insetti). Ebbene, questo geko azzurro fa la sua bella figura e “marchia” il packaging con efficacia (grazie anche al fondo bianco sul quale risalta molto chiaramente). Anche la scritta “biologico” viene in azzurro, e in grande evidenza. Ma ci sono anche altre parole-chiave: “bevi responsabilmente” (socialmente utile) e “sostenibile” (molto di moda ultimamente). La carta di base dell’etichetta è di quelle ruvide e la sensazione è che volutamente si è riprodotto un muro, una parete, zona dove molto spesso i geki, una volta accettati “domesticamente”, albergano immobili come appesi. L’effetto finale e generale è di qualcosa di fresco (nonostante il Primitivo sia un vino rosso piuttosto corposo), di semplice, di simpatico, di lineare, di giovane. E diremmo proprio che può bastare.

Eremi Dorati e Onorati sul Lago di Garda

Eremus, Blend di Rossi, Agricola Casetto.

Bella etichetta e bel nome per questo vino che vuole emulare (nella sua composizione) il ben più noto Amarone. Si tratta infatti di un blend di rossi, tipicamente veronesi, come Corvina, Corvinone, Rondinella, Merlot e Marzemino. Lo storytelling narra che l’azienda ha in affitto 9 ettari che appartengono a un lotto territoriale di un vicino convento. Da qui il richiamo alle antiche attività enologiche dei monaci e all’eremo dove i religiosi ancora abitano. Quindi il nome del vino “Eremus”, evocativo di molte sensazioni tradizionali, storiche, culturali, narrative e quant’altro. Molto accattivanti i particolari in oro nella grafica in etichetta. Su sfondo nero vengono agli occhi i pastorale (bastone) di un santo (o di un Abate) e la chiesetta dell’eremo. Così come, alla base del packaging, il logo dell’azienda con il claim “Terre di Lago”. Siamo infatti sulle rive del Lago di Garda, nei pressi di Bardolino. Da notare, in un tassello sempre dorato, la dicitura “vendemmia tardiva” e la numerazione delle bottiglie prodotte, due particolari che aggiungono preziosità al prodotto. La definizione di legge “Rosso Veronese” ristabilisce un po’ gli equilibri “tirando” verso il basso. Ma così è la legge che regola il disciplinare di zona. Sicuramente il lavoro di valorizzazione della bottiglia con inchiostri e narrazioni originali, otterà buoni risultati di vendita.

L’Impronta Identifica. Anche un Vino Poco Tracciabile.

(Potremmo chiamarlo L’Impronta), 
Primitivo di Manduria, V.E.B. Spa.

In tempi recenti molte persone che hanno voluto o dovuto chiedere il rinnovo della Carta di Identità sono state sottoposte coattamente al rilevamento delle proprie impronte digitali (dove in questo caso non si tratta del “digitale” inteso come qualcosa di informatico). Le impronte delle nostre dita sono diverse per ognuno e quindi sono in grado di “firmare” in modo inequivocabile quello che tocchiamo. Ed è proprio questo il senso di questa etichetta che evidentemente vuole attribuire molta importanza all’impronta del vignaiolo (almeno, questo sarebbe il messaggio, anche se il vino è di quelli ad ampia produzione industriale). Nel supporto cartaceo di questo packaging (carta elegante, importante, goffrata) campeggia molto in grande una impronta digitale (si direbbe di un indice) caratterizzando nettamente la comunicazione, quanto meno quella di primo impatto. Il resto (poco spazio rimane) viene dedicato al nome del vitigno (e quindi alla sua Doc di riferimento), poi, alla base, l’annata e “Italia”, a sancire, la provenienza d’Enotria (probabilmente ad uso di mercati esteri). Non c’è un nome per il vino in questione, e nemmeno il nome del produttore (che troviamo, almeno come origine e provenienza, cioè imbottigliamento, nel retro etichetta). Forte impatto, quindi, dovuto alla grande impronta. Concetto trasmesso in modo molto diretto, quindi di grande efficacia, sicuramente per quanto riguarda l’effetto scenico.

Etichette di un Tempo che Funzionano Anche Oggi

Valtellina Superiore Riserva, Nino Negri.

Com’erano le etichetta di una volta? Molto diverse da quelle di oggi? Sembra di no, a voler osservare e commentare questa bottiglia del 1967 a cura del noto produttore valtellinese Nino Negri. L’etichetta, certo, accusa tutti i suoi anni, a livello di consunzione. Ci mancherebbe, si tratta di ben 57 anni! A parte il fatto che negli anni si è rovinata un po’, possiamo notare che la carta di base è preziosa, filigranata, con la parte superiore zigrinata (quindi dotata di una certa ricercatezza). Sul collo troviamo una piccola etichetta aggiuntiva con lo stemma della casa e l’annata. Tornando al fronte-etichetta principale notiamo che il nome dell’azienda ha la massima importanza: Nino Negri è scritto in nero e in grande. Sopra, in rosso, il termine “Riserva” e sotto “Valtellina Superiore”, scoprendo che a quei tempi questo vino non aveva ancora la DOCG, bensì solo la Denominzione di Origine Controllata. Nell’angolo in basso a destra viene ribadito in corsivo “Nino Negri Spa”. Il marketing era già presente e si manifesta con un cartoncino a libretto appeso al collo della bottiglia con un ribbon rosso. Molto visibile, fastidioso al momento della gestione della bottiglia ma interessante nella sua modalità di esposizione delle caratteristiche del vino. Ancora oggi si fa, ma tutto sommato raramente. In alto a sinistra, un po’ sbilanciata, la sagoma nera di una torre, probabilmente il palazzo signorile della sede di Chiuro. Tutto sommato si tratta di un’etichetta ben realizzata (per quei tempi) e con un suo equilibrio formale.

Una Dea Metà Donna, Metà Vite

Deìvaì, Cerasuolo d’Abruzzo, Cantina Tollo.

L’etichetta presenta alcune peculiarità interessanti. Innanzitutto è molto “pulita”, semplice, sia pure nella sua incisività (pochi elementi, ben collocati). La parte alta della cartotecnica è zigrinata, la parte bassa lineare e continua. In alto il nome del vino “Deìvaì”, in bella evidenza e al centro un’immagine ipnotizzante. Alla base la “firma” del produttore, Cantina Tollo. Ma vediamo i dettagli di questa scelta, spiegati dall’azienda stessa nel proprio sito internet: “Il prodotto (che fa parte della linea Anthology) porta il nome della Dea del raccolto e delle messi adorata dalle comunità che anticamente abitavano le terre abruzzesi, della Campania nord orientale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise e dell'alta Lucania. L’etichetta, opera dell’illustratrice milanese Costanza Agnese Matranga e di Gabriele Tosi di Tosi Comunicazione, ritrae la Dea Deìvaì nelle vesti di una fanciulla riccamente vestita, capace di generare dai suoi capelli tralci di vite con grappoli d’uva”. Bello il richiamo alla deità del luogo, ben rappresentato da una figura umana che si manifesta (e si integra) con tralci di vite. Bello anche il colore del vino, un rosato di carattere che nasce dal vitigno Montepulciano (d’Abruzzo). Non facile l’interpretatazione (insomma, la pronuncia, la fonetica) delle due “ì” accentate del nome. Ma se la Dea si chiama così… ne prendiamo atto e ci arrendiamo all’evidenza mitologica.

Un Dolcetto che Non ha Nulla di Artificiale

La Costa, Dolcetto d’Alba, Piero Benevelli.

Piccola azienda famigliare nelle munifiche e magnifiche Langhe che negli ultimi decenni tanta ricchezza hanno portato a molti viticoltori. L’etichetta è di quelle semplici. Forse fin troppo semplici. Ma con un suo carattere “antico” che serve a definire azienda e prodotto. In alto a destra una illustrazione molto classica che raffigura il campanile della chiesa, con davanti un tralcio e un grappolo, oltre a un calice (inspiegabilmente vuoto). Andando con ordine: la Doc Dolcetto d’Alba in alto in bella evidenza (grandezza), al centro in rosso il nome del vino “La Costa”, sotto troviamo il nome del produttore, la località e… l’insolita e per questo sorprendente scritta “famiglia contadina”. Questa puntualizzazione ci ha incuriosito. Sono così importanti, in questo contesto, queste due parole che potevano anche essere “sfruttate” meglio, cioè proposte con maggiore evidenza. In un mondo ormai autogenerato dall’Intelligenza Artificiale, precisare che chi ti vende il vino è una famiglia contadina, ha il suo grande valore. Non è garanzia di qualità, ma l’appartenenza a qualcosa di tradizionale e di genuino manifesta tutta la sua forza in termini di fiducia e rappresentatività. Onore quindi a tutte quelle famiglie contadine (se ne trovano ancora molte, per fortuna, in Italia) che continuano a produrre vino con le nuove tecnologie ma con gli insegnamenti di una volta.

Le Famose e Formose Pesche dell’Idaho

Ida Peach, Sangria, Holesinsky Winery.

Questo produttore di vini ha sede in Idaho, uno degli Stati Uniti meno conosciuti. Si trova nel Nord-Ovest e confina con il più noto (anche per il vino) Oregon. Questa azienda si chiama Holesinsky, dal cognome della famiglia che tutt’ora la gestisce. Produce Viognier, Sirah, Pinot Gris, Chardonnay e altri nettari da vitigni vari, ma ha in gamma anche questa curiosa Sangria a base di pesche. Curiosa innanzitutto come tipologia di prodotto, ma soprattutto per la sua etichetta, molto, per così dire, campagnola. Nell’illustrazione che domina il packaging, una giovane donna stivalata “cavalca” la sagoma dello stato dell’Idaho, reggendo tra le mani due enormi pesche. Va da sé che l’allusione è dietro l’angolo. Anzi, è proprio davanti agli occhi. Lo stile provocatorio continua e viene così confermato nella scheda relativa a questo “succo” che troviamo nel sito internet del produttore, che recita così: “Step right up and enter the world of rebellious peaches! Ditching the cans, these bottled peaches offer a wild and juicy adventure, with no judgment for letting their sweet nectar dribble down your chin. Embrace the liberation, savor every drop, and toast to the sticky, delicious mess they create!”. La bottiglia reca il nome “Ida Peach”, probabilmente da “Idaho” e non dal nome proprio che si usa anche in Italia “Ida”. L’etichetta, certamente, si fa notare. L’eleganza della comunicazione si fa un po’ desiderare. Ma probabilmente per il target preposto l’attrazione è fatale.

Colori e Sapori si Mescolano in una Spiaggia dell’Oregon

Big Salt, Orange Wine, Ovum Wines.

Molta sintesi e anche tanta originalità nell’etichetta di questo “orange” che viene dall’Oregon (Usa). A dire il vero i suoi produttori lo qualificano come un “orange-rosé”, stabilendo una peculiarità aggiuntiva (forse davvero unica al mondo) a quanto già di sorprendente si può trovare in questo prodotto. Ecco come viene definito questo vino, dall’azienda produttrice (nata nel 2011 ad opera di Ksenija e John House), nel suo retro-etichetta: “Big Salt ‘Orange Rosé’ is a dry wine that captures the feeling of a sunset at the beach - vibrant colors rising with the perfume of the salty air. The wine is blended from white varieties that are fermented on their skins, which impart colors and flavors that range from hibiscus to tangerine. The combination of orange and rosé wine adds diversity of aromatics and texture, while creating a flavour profile that tastes similar to how the wine looks. Salud!”. Veniamo al nome e alla grafica, molto semplici ma anche molto impattanti: “Big Salt” sa di titolo di film americani, e sottolinea certamente la salinità del vino. La grafica evidenzia colori da tramonto sullo sfondo di un’onda stilizzata che fa molto estate e battigia (la cresta dell’onda potrebbe sembrare anche la pinna di un pescecane, ma questo aggiunge opportunamente tensione alla comunicazione).

Grappoli Siciliani da Riconoscere a Occhi Chiusi

A occhi chiusi, blend di bianchi, Alberia.

Questa piccola e recentissima cantina siciliana di Marsala, si chiama “Alberia”. Gli alberi non c’entrano se non i tralci di vite, naturalmente. Il nome deriva dall’unione dei due nomi di battesimo dei titolari, Alberto e Nuria, che così si raccontano nel loro sito internet: “Siamo approdati al mondo del vino alla soglia dei cinquanta anni, quasi per caso, e ne siamo rimasti rapiti. Abbiamo iniziato da zero, senza terra. Al momento collaboriamo con alcuni produttori di fiducia che ci forniscono uva coltivata nel rispetto della natura e del territorio. Il Catarratto viene da Alcamo ed il Grillo da Marsala. Facciamo il vino con uve raccolte a mano, fermentate da lieviti indigeni, che si trovano sull’uva e nell’atmosfera di cantina. L’unica cosa che aggiungiamo all’uva nella vinificazione è il nostro lavoro e la conoscenza, con i quali cerchiamo di interpretare l’annata. Vogliamo fare un vino sincero, senza alcun tipo di artificio”. Fin qui il progetto. E per far nascere un progetto serve innanzitutto un’etichetta, una bella etichetta. E Alberto e Nuria l’hanno fatta: sfondo bianco con una spruzzata di colori, di macchie, che rappresentano un grappolo. Semplice, artistico e bello. E anche originale se non fosse che il grappolo d’uva sulle etichette viene comunicato spesso. Ma la modalità che ha scelto Alberia, per queste e per le altre etichette in gamma (con altri colori) è davvero originale. E il nome del vino? “A occhi chiusi” vuole esprimere il desiderio di rendere il territorio riconoscibile al gusto e all’olfatto. Ed ecco qui realizzati un packaging e un concetto che meritano di essere complimentati e incoraggiati. Avanti così!

Un Refosco Diabolico ma Anche Simpatico

Ronc dal Diaul, Refosco (dal Peduncolo Rosso).

Attorno al nome di questo produttore (che diventa anche nome di linea per una serie di vini) si avviluppa una leggenda locale. Inizia tutto dal Ponte del Diavolo (Puìnt dal Diàul in dialetto) di Cividale del Friuli, e inizia tutto nel lontano 1442! Il ponte, che attraversa il fiume Natisone, è diventato un simbolo di quella zona. Narra le leggenda che gli abitanti del luogo, per facilitare la costruzione del ponte (alto oltre 22 metri e che presenta una ardita architettura che poggia su un grande masso al centro del fiume) si rivolsero al Diavolo che chiese in cambio di poter prendere l’anima del primo essere vivente che avesse attraversato quel ponte. Gli abitanti del paese fecero transitare un maiale e così ingannarono il Diavolo. L’azienda produttrice di questo vino stabilisce i propri vigneti proprio nei pressi del ponte e per questo decide di chiamarsi “Ronc del Diaul” laddove “ronc”, in dialetto friulano è la sommità collinare meglio esposta del vigneto. In etichetta, sotto al nome scritto con un carattere medievale, troviamo un mascherone diabolico che incute terrore ma al tempo stesso fa anche simpatia: una specie di maschera carnevalesca. La spigolosa etichetta può contare su una carta di fondo spessa al tatto e su inchiostri in rilievo. Alla base l’annata e il nome del vitigno. Nel complesso il packaging frontale attira l’attenzione e può vantare quindi un’ottima memorabilità.

Da Troia alle Coste Pugliesi è un Volo

Nero di Troia, Dacastello.

Come accade ancora spesso in Italia, il nome di questo vino corrisponde al nome del vitigno (o viceversa): “Nero di Troia”. Partiamo quindi da qui, riportando il breve racconto che troviamo nel sito internet dell’azienda proponente: “La leggenda narra che Diomede, il mitico eroe greco, di ritorno dalla guerra di Troia navigò per il mare Adriatico fino a raggiungere il fiume Ofanto, dove ancorò la nave con alcune pietre della fortezza troiana. Trovando il luogo piacevole e fertile, Diomede decise di piantare i tralci di vite portati con sé a ricordo dalla lontana città di Troia. E fu così che in Puglia prese vita il Nero di Troia”. Si tratta di uno dei vitigni autoctoni simbolo della Puglia. Dove, nonostante la latitudine, nel profondo sud d’Italia, dominano i vini rossi (e anche i rosati, a dire il vero). Originale la conformazione dell’etichetta: la carta è “strappata” in alto e in basso, il fondo è un grigio-perlato-argentato dal quale emerge una antica mongolfiera (che non collima con i racconti della mitologia greca, però è bella). In evidenza in rosso l’Igt Puglia e in basso il nome/logo dell’azienda, in oro, poco leggibile. Non si tratta di un produttore vero e proprio, bensì di un selezionatore che poi rappresenta e commercializza in Italia e nel mondo. Vino di consumo quotidiano, ma con un suo stile.