A Strevi, Caricano l’Asino con il Carialoso


Carialoso, Caricalasino, Marenco.

I nomi dei vini di questa azienda piemontese, che opera nei pressi di Strevi, vicino ad Acqui Terme, sono abbastanza sorprendenti. Nel senso che molti di essi rischiano di “suonare male”. Oltre a questo “Carialoso” (del nome antico della vigna di provenienza delle uve), nella gamma troviamo “Scrapona” (Moscato d’Asti), Bassina (Barbera d’Asti), Ma Mù (Moscato Secco), Valtignosa (Cortese). Infatti per i nomi, la fonetica si mescola con la semantica, generando quella che è la percezione “a valle”, cioè nella mente dell’attuale o del potenziale cliente consumatore. In particolare in una etichetta come questa, molto povera di elementi (ma questo può essere un pregio), cioè incisiva con i suoi contenuti, il nome del vino emerge moltissimo, diventa protagonista, insieme a quello del produttore. Il nome Marenco, in alto, sovrastato da due anatre in volo, prende il sopravvento grazie al carattere di scrittura di forte struttura, ma anche il nome del vino, in azzurro, sia pure in corsivo, acquisisce importanza grazie alla sua centralità. Bella la carta dell’etichetta, di spessore al tatto, che fornisce eleganza e sobrietà al tempo stesso. Certo che “Carialoso” può davvero riportare qualcosa di sgradevole come ad esempio la carie. Chissà se ci hanno pensato, prima di decidere di chiamare così questo bianco del Monferrato… P.S.: il vitigno di questo vino ha pure lui un nome davvero particolare, “Caricalasino”. E non è uno scherzo: si chiama proprio così. Sembra, in origine perché si tratta di uve particolarmente produttive che generavano grossi carichi per quantità e volume (oggi le rese sono ridotte per mano e per scelta del viticoltore).

Mai Fidarsi della Volpe, ma del Galluccio sì


Consiglio di Volpe, Falanghina, Az. Agr. San Teodoro.

Il curioso nome di questo vino ha una spiegazione molto particolare, proverbiale e logicamente molto locale. Scrive infatti a tal proposito, nel proprio sito internet, il produttore: “Consiglio di volpe: danno per le galline”, vecchio adagio che mette in guardia le persone meno furbe dal seguire i consigli sicuramente interessati dei più accorti. Così ironizzava chi vedeva Giuseppe e i suoi amici intenti a parlare di lavoro e futuro godendo del buon umore dei riti conviviali. Esorcizzandone il significato, abbiamo chiamato con questo nome la nostra Falanghina”. Giuseppe (Santoro), insieme al fratello Pietro, è il fondatore dell’azienda, nata nel 2004, ed operante a Galuccio, in provincia di Caserta. Il luogo di produzione è anche il nome della quasi sconosciuta Dop, cioè Galluccio Bianco (così come specularmente per i vini rossi esiste la Dop Galluccio Nero, che nulla ha da spartire con il molto più celebre Gallo Nero toscano). Il vitigno è la Falanghina, regina di quella regione, tradizionalmente più avvezza ai vini bianchi. Anche il nome della vigna di provenienza delle uve ha la sua originalità: Vigna Coraggio. A parte questo quello che possiamo apprezzare è un’etichetta molto colorata, di stile vagamente arabeggiante, dove una volpe guarda alla luna, sovrastata da un volatile che si direbbe una colomba, in un cielo azzurro e stellato. San Teodoro, nome dell’azienda, si manifesta benedicente nel logo che scorgiamo in basso a destra. Nel complesso si tratta di un packaging in grado di attirare l’attenzione, per cromatismi, contenuti e racconto ad essi collegati.

Un Rosso che Attira l’Attenzione


Baciamisubito, Barbera del Monferrato, Az. Agr. La Scamuzza.

L’originale nome di questo vino potrebbe parafrasare il celebre film del 1964, del regista Billy Wilder (titolo originale “Kiss me, stupid”), Baciami Stupido, con due protagonisti d’eccezione come Kim Novak e Dean Martin. La storia di questo nome, invece, attiene alla considerazione che questo vino è come un bacio, da cogliere subito, senza esitazioni, così come i piaceri veri, enogastronomici, della buona tavola. Nasce con queste considerazioni un’etichetta sicuramente di grande impatto, non solo per il nome del vino, ma anche e soprattutto per le labbra rosse che emergono da una foto in bianco e nero. Viso di donna, rappresentato da naso e bocca, elementi determinanti per definire la bellezza di un volto, insieme agli occhi, naturalmente, in questo caso abilmente celati. Infatti gli stimoli visivi della bellezza e dell’attrazione devono concedere e privare, in un gioco delle percezioni che si fa memoria. E’ questo il compito di una etichetta delegata a colpire. Ed è per questo che il packaging di questa Barbera del Monferrato colpisce anche a distanza, sullo scaffale e ancora di più su una tavola imbandita e candida. La produzione di questo vino è davvero minima, poche migliaia di bottiglie ogni anno, da parte di un produttore (Laura Zavattaro, a Vignale Monferrato, associata storica delle Donne del Vino) che punta alla qualità e ad una determinazione delle vigne, cioè della provenienza delle uve, da “grand cru”, come si usa dire nella vicina Francia. Un rosso che si fa notare, in tutti i sensi.

Un Rebus in Diebus in Terra Latina


Busillis, Viognier, Trerose (Tenute Angelini).

Un’azienda farmaceutica di grande fama e fatturato si trasforma in un produttore di vino da 1 milione di bottiglie l’anno. Questo è stato possibile grazie agli investimenti della famiglia Angelini che, passo dopo passo, attualmente raggruppa e possiede diversi marchi in Toscana, Marche, Veneto e Friuli: Bertani, Val di Suga, Trerose, San Leonino, Puiatti ed altri verranno. La chimica delle medicine, unita alla biochimica dell’enologia. Un vino che guarisce, in poche parole. In questo breve commento parliamo di un Viognier toscano, prodotto nei pressi di Montepulciano che ha un nome particolare, “Busillis”. Chi ha studiato latino riconosce tale sonorità. E il significato? Sarebbe “questione spinosa, difficoltà, punto dolente della discussione” (probabilmente riferito alla stranezza e difficoltà di coltivare il vitigno Viognier in Toscana). L’origine di questo nome è legato a un racconto che Wikipedia ci dona nella sua versione originale: “Un altro esempio della scarsa conoscenza della lingua latina da parte degli ecclesiastici è l'episodio di colui che chiese al maestro Giovanni di Cornovaglia chi fosse Busillis. Pensava infatti che fosse il nome proprio di un re o di un qualche grand'uomo. Quando il maestro Giovanni gli chiese in quale testo si trovasse tale nome, rispose che si trovava nel messale; e scorrendo il suo libro, gli mostrò alla fine di una colonna della pagina le parole "in die", e all'inizio dell'altra colonna "bus illis", che, sillabate correttamente, si leggono "in diebus illis" ("in quei giorni"). Visto ciò, il maestro Giovanni gli disse che, avendo quella parola origine dalla pagina divina, cioè dal Vangelo, il giorno dopo avrebbe voluto indagarla col pubblico della sua lezione. Quando lo fece, avendo suscitato il riso di tutti, il maestro prese l'occasione per mostrare con diversi esempi quanto sia grande per il clero la vergogna e lo scandalo derivante dalle tenebre dell'ignoranza e della mancanza di letture”. (Giraldus Cambrensis, Gemma Ecclesiastica, II, cap. 35 [Enormitatum exempla quae ex imperitia sacerdotum et illiteratura proveniunt] ed. London 1862). Concludendo: “L'errore dell'amanuense diventa comprensibile se si considera che l'uso di lasciare uno spazio tra le parole è un'acquisizione recente. Non tutte le lingue lo fanno: il cinese e il gioapponese moderni ad esempio scrivono i loro testi senza nessuna interruzione. Gli spazi non vennero usati in latino fino al 600 d.C./800 d.C. circa. Al loro posto si usava il punto mediano”. Svelato il busillis non ci resta che riempire i calix di latina memoria.

La Lucertola Ribelle di un Domaine del Rodano


Prima, Rosé, Domaine de l’Anglore.

Questo vino estremamente naturale, no filtrazioni, macerazione carbonica a grappolo intero, si presenta con un rosato intenso… anche in etichetta. Anzi, nel packaging i particolari di stampa sono proprio rossi. Rossa è la lucertola che alberga al centro dell’etichetta e che sicuramente sta a rappresentare la biodiversità, insomma la presenza naturale di tutti gli elementi spontanei della fauna e della flora in vigna. Rosso è il nome del vino, curiosamente in italiano, “Prima”, forse ad esprimere il primato della natura sul lavoro dell’uomo. Rosso è il nome dell’azienda, “l’Anglore”, e le scritte di legge alla base dell’elaborato. Bella la carta leggermente goffrata, cioè ruvida la tatto, a sancire una certa manualità che ancora oggi contraddistingue il lavoro di questa cantina: raccolta a mano, lavorazioni artigianali dall’inizio alla fine. E il vino? Ruvido anch’esso, non potrebbe essere diverso. Appartiene a quella categoria di prodotti enologici che vuole essere “anomalo” per definizione, ribelle, ancestrale, scapestrato, anticonformista, mettetela come volete, ma state attenti alla volatile (che non è un uccello, ma il modo in cui i sommelier definiscono quello spunto acetico che a molti dà proprio fastidio). Pace e bere.

Un Folle Unicorno Fattore Primario di Felicità


Iunicorn, Blend di Bianchi, Valchyara.

Una delle più strane etichette da annoverare in questo blog. Un packaging colorato, variegato, fantasioso e anche, come piace a noi, un po’ folle. Ma vediamo di cosa si tratta. L’azienda, che sviluppa il proprio business sulle colline di Ivrea, è a conduzione biodinamica e produce un numero davvero limitato di bottiglie/anno. Ad esempio per questo bianco rifermentato si parla di 4500 pezzi al massimo. Il vino viene ottenuto con un mix di uve bianche autoctone che maturano a 470 mt/slm (tra le quali primeggia l’Erbaluce, vitigno tipico di quelle zone). Il nome del vino è Iunicorn (sì, con la “I” iniziale) e in pratica l’illustrazione lo conferma, proponendoci un unicorno rampante con tanto di radiografia interna. Quello che vediamo sono in effetti gli organi interni del fastastiloso equino cornudotato: il suo scheletro accompagnato da elementi vari, descritti con delle didascalie. Leggiamo tra gli altri: Cuore Felice, Polvere di Stelle, Onirismo (s. m. [der. di onirico]. – Nel linguaggio medico e psichiatrico, con accezione generica, attività psichica che si svolge in condizione di oscuramento della coscienza, con caratteri analoghi a quelli del sogno - Treccani). Sembrerebbero delle “istruzioni per essere felici”, tra le quali viene logicamente incluso il consumo di questo vino. Anche il nome dell’azienda è curioso: Valchyara, con quella insolita “Y” e lo strano modo di scriverlo in etichetta con “ara” separato dal resto. Infine, la Viticoltura Eroica è compresa nel prezzo. Evviva.

Un Mora Creativa e Sognante per un Salento Rilevante


Mora Mora, Malvasia Nera, Paolo Leo.

Le estrose etichette di Paolo Leo si riconoscono subito sullo scaffale. E generano curiosità a tavola. Questo vino che si chiama “Mora Mora”, in primo luogo è originale per il vitigno che lo compone, una Malvasia Nera del Salento che non si trova spesso tra le proposte enologiche d’Italia. Originale anche l’etichetta con una somma di particolari che la rendono unica e distintiva. Quello che l’occhio coglie in prima battuta è il viso di una donna. La forma dell’etichetta segue il profilo della testa chiomata generando una insolita, quindi sinuosa, struttura. Veniamo ai particolari “artistici”. La donna (mora di capelli) ha le gote dorate, evidenziate da due cerchi geometrici. C’è anche del viola tra i suoi capelli. Colore che ritroviamo nel nome del vino, dove la prima “Mora” è in viola e la secondo “Mora” in oro. Labbra molto rosse e all’orecchio destro una mora stilizzata. In basso, dopo le scritte didascaliche di legge, vediamo quello che potrebbe sembrare un QR Code, mentre si tratta del logo/stemma del produttore, seguito da nome e cognome dello stesso. Nel complesso si tratta di un packaging che possiamo definire molto creativo. I buoni auspici per un successo di vendita ci sono tutti.

Un Vino Molto Vivo con un Nome Mortifero


Morta Maio, Niellucciu, Antoine Arena.

Certo che in Italia il nome di questo vino potrebbe essere male interpretato. O come minimo considerato come porta sfortuna. Ma tant’è che il naming in questione deriva da questioni topografiche e storiche, facendo riferimento alla vigna dove cresce la vite che dà vita a questo vino rosso della Corsica. Siamo nella Aoc “Patrimonio”, una della più celebrate e preziose dell’isola francese autonomista che conserva ancora oggi molta italianità (anche nei nomi o cognomi dei produttori, che in questo caso è Arena). A parte il nome, siamo di fronte a quale tipologia di etichetta? Molto classica. Con caratteri di scrittura corsivi, graziati, eleganti e “romantici”. In alto due “A” rappresentano le iniziali del produttore. Nome e cognome che viene riportato in chiaro e molto in grande al centro del packaging. Poi la dicitura dell’Appellation (il francese per dire Denominazione). Per il resto scritte centrate, ordine ed eleganza, con il vezzo di una fustella (la forma della carta dell’etichetta) smussata diagonalmente ai quattro angoli estremi. Il risultato è una percezione di qualità, di storicità, di serietà, di tradizione, che è sicuramente quello che vuole trasmettere l’azienda. Produzioni limitate, vino “naturale”, prestigio (a un costo abbastanza elevato) e notorietà tra gli intenditori.

Un Passito d’Altri Tempi, Ancora Oggi


Chiarello di Cirella, Adduraca (Duròc).

Ci sono vini di un tempo (che a quel tempo sono rimasti) che quasi non avrebbero bisogno di etichette. Se non quelle antiche, che il marketing non lo hanno mai conosciuto e considerato. Come questa, che veste un passito molto particolare e raro, che viene dalla Calabria. Ma vediamone brevemente la storia (dal sito “il Calice di Ebe”): “Un vino dolce, profumatissimo e prezioso amato dalle corti rinascimentali e dal Papa Paolo III Farnese: ripercorriamo la storia e la fortuna dell’antico nettare di Cirella, il Chiarello. I Romani la chiamavano Cerillae ma la sua è una storia più antica: nata in epoca magno-greca, Cirella fu una colonia focese fondata tra il VII e il VI secolo a.C. Plinio il Vecchio la identificò come Portus Parthenius Phocensium, ovvero il Porto Partenio dei Focesi perché all’epoca l’abitato si estendeva sulla costa intorno al porto, luogo in cui oggi si trova grosso modo l’attuale CirellaDi fronte si trova l’Isola di Cirella, una delle poche della Calabria assieme alla vicina Isola di Dino a Praia a Mare (Cs)”. E ancora qualche informazione sul vitigno che compone questo vino: “Viene descritto come un vino giallo dorato e profumatissimo, dolce e molto prezioso; si ricavava quasi sicuramente dalle uve di adduràca che in dialetto locale significa ‘profumata’. L’adduràca, in italiano duraca, è un vitigno autoctono assai antico sul quale sono stati effettuati recenti studi genetici per determinarne l’origine”. Nient’altro da aggiungere se non che questa etichetta sta bene così. Si porta dietro tutta la storia di questa piccola e preziosa eccellenza d’Italia.

Un Rosso tra i Bianchi, in Terre di Tufo


Peperino, Sangiovese e Merlot, Teruzzi (Terra Moretti).

Le etichette di questo produttore toscano sono tutte molto fantasiose, soprattutto per quanto riguarda l’illustrazione molto colorata che si trova al centro del packaging. Il territorio è quello di San Gimignano, in una Toscana, saggia, storica, tradizionale, ma anche ridanciana. Il vitigno sovrano di quella zona è la Vernaccia, ma in questo caso stiamo parlando di una bottiglia di rosso. Il vino si chiama “Peperino” e potrebbe sembrare facile intuire cosa può aver spinto il produttore ad assegnare questo nome che secondo lo “slang” popolare italico di solito rappresenta una persona particolarmente vivace. Ma se si approfondisce la ricerca si scoprono cose interessanti (Enciclopedia Treccani): “Si dà il nome di peperino a certi tufi vulcanici in rapporto con magmi potassici, costituiti da un impasto di ceneri, di color grigio, macchiato di nerastro. Contengono abbondanti minerali (leucite, pirosseni, sanidino, plagioclasî, biotite e numerosi altri silicati), in individui isolati o, più spesso, in aggregati di varia costituzione, nonché frammenti di rocce diverse, eruttive e sedimentarie. Spesso sono abbastanza coerenti, e allora si usano come materiale da costruzione. Il più noto peperino si trova nel Vulcano laziale, nei dintorni del Lago di Albano”. In questo caso non siamo nel Lazio ma anche in Toscana il tufo, a tratti, la fa da padrone a livello geologico. Tornando all’illustrazione posta al centro dell’etichetta, vediamo una lepre che brandisce una lancia e cavalca una conchiglia (ve ne sono di sedimentate in quel territorio) dalle sembianze umane. Un sorprendente miscuglio di elementi che definisce (o almeno ci prova a farlo) la realtà vinicola e territoriale in questione.

La Candia d’Italia (no, non Quella Greca della Malvasia)


Arual, Vermentino, Azienda Agricola il Moretto.

L’areale di produzione di questo vino riguarda la Denominazione del Candia dei Colli Apuani, compresa tra Massa Carrara e Montignoso, all’estremo nord della Toscana (e quindi all’estremo est della Liguria). Attualmente il Consorzio di Tutela del Candia e dei Colli Apuani è composto da soli 20 produttori prevalentemente a conduzione famigliare. Tra questi vi è l’Azienda Agricola il Moretto, che produce questo Vermentino in purezza che si chiama Arual. L’etichetta presenta alcuni particolari tecnici interessanti: sulla sinistra la carta è decorata in rilievo con dei riccioli che ricordano i pampini della vite. In alto lo stesso tema viene riproposto in oro dentro a un piccolo cerchio e subito sotto, sempre in oro, troviamo il nome del vino. Sotto alla dicitura di legge, Vermentino Doc, possiamo apprezzare un disegno stilizzato che rappresenta forse i Colli Apuani. Il tratto, molto dinamico, termina in alto con una stella, simbolo delle forze della natura con le quali l’uomo deve sempre confrontarsi e spesso umiliarsi. Alla base del packaging la collocazione geografica: un piccolo luogo d’Italia, ancora poco conosciuto, che grazie ai suoi vini potrà accrescere la propria notorietà ed ambire ad una crescita anche dell’enoturismo. P.S.: il nome del vino, probabilmente è dedicato a una persona di nome Laura (Arual al contrario).

Un Flusso di Parole in un Mare di Colore


Impavido, Primitivo, Tenuta Coppadoro.

Questa azienda di San Severo in provincia di Foggia decide di allestire un’etichetta un po’ diversa dal solito. Innanzitutto il colore, profondamente azzurro, che per un vino rosso è raro a vedersi. E poi il fatto che nel fronte del packaging abbiamo la descrizione organolettica del vino. In particolare questo testo è proprio la parte preminente del design. Certo, in alto, come grandezza, leggiamo in primis il nome del vino, Impavido, un nome ridondante, originale, da leader. Assolutamente memorabile. A seguire, fino alla base dello spazio a disposizione, troviamo un testo che descrive il vino, redatto con molti caratteri (di scrittura) diversi. E forse qui sta il minus di questa operazione creativa: la leggibilità. Per il resto può risultare anche piacevole poter leggere, finalmente sul fronte, quello che di solito viene relegato, in piccolo, sul retro. Un vezzo cromatico viene rappresentato da quel “rosso”, scritto appunto in rosso, che emerge nel mare colorato che fa da sfondo e dalle altre parole che compongono il “sonetto”. Alla base troviamo il nome/logo del produttore, Tenuta Coppadoro, che fa comunque capo alle Tenute Sannella (Coppadoro è di fatto il nome della contrada dove vengono coltivate le viti). Il vino è un Primitivo al 100%.

Mediamente Gradevole ma con Una Etichetta Strong


In The Middle, Pinot Noir, Fourth Wave Wine.

Questa cantina australiana lo scorso 1 agosto (2024) ha lanciato una linea innovativa di vini. L’innovazione risiede principalmente nel tipo di lavorazione che consente di ottenere gradazioni basse, attorno ai 7%. Il nome della linea di vini che si compone di un Pinot Nero (in foto), di un Pinot Grigio, di un “Prosecco” (!), di un Rosé e di uno Chardonnay, evidenzia il progetto industriale: “In The Middle”, cioè lo stare nel mezzo tra una gradazione alta e una a zero (vini dealcolizzati, che si stanno diffondendo). Le ragioni sono ben spiegate dal produttore: “In our vineyards our viticulturalists have been working hard: we have been experimenting with how to grow grapes with full-flavour ripeness but with a lower alcohol level. We then pick these grapes slightly early for a fresh, lifted style. Then some innovative blending by our winemaking team allows them to get the alcohol even lower. This new method creates a lighter in alcohol wine but with the depth and vibrancy of a bigger wine. It simply allows you to enjoy in the middle of anything!". L’etichetta è molto attenzionale: un “bollo” cromatico al centro attira l’occhio. Sulla destra una serie di affermazioni che promuovono simpaticamente il consumo di questo vino: “In The Middle of the table, In The Middle of the day, In The Middle of the afternoon, In The Middle of a pic-nic, of a party, of cooking…” e così via. Una nuova categoria di vini, quindi, i “mid-strenght”, così promossi da questo produttore: “The mid-strength wine category is going from strength to strength, and In the Middle allows consumers to enjoy a wine at lunch or other occasions with confidence in a lighter choice”. A chi piacendo.

Un Vino Sfidante, cioè Scavezzacollo


Rompicollo, Sangiovese e Cabernet, Poggio al Tufo (Tommasi).

Pare strano chiamare un vino in questo modo? Potrebbe. Ma nell’indagare i nomi è sempre bene approfondire e andare a cercare motivazioni a volte nascoste. In questo caso il produttore, Tommasi, originario della Valpolicella, ha deciso di spiegare in modo chiaro, nella scheda digitale del vino tra le schermate del sito internet, la dinamica di creazione di questo nome: “Abbiamo pensato di cambiare il nome del vigneto Rompicollo, ma quando abbiamo letto il significato, “Persona sempre pronta a gettarsi a capofitto in sfidanti iniziative o bravate…”, l’abbiamo interpretato come un portafortuna per iniziare il nostro primo progetto vitivinicolo in Toscana nel 1997. Il vigneto Rompicollo è certamente diventato l’origine di uno dei nostri migliori vini quotidiani. Rompicollo è un blend di Sangiovese e Cabernet Sauvignon dalle vulcaniche suole di tufo nella campagna di Maremma attorno al borgo antico di Pitigliano. Un rosso rotondo e avvolgente con un bouquet irresistibile, ti trasporterà negli aromi ed emozioni della iconica campagna toscana”. Analizzano visivamente questa etichetta possiamo aggiungere che sono apprezzabili gli inchiostri in rilievo del nome della tenuta, in nero, Poggio al Tufo (a Pitigliano, sede dei vigneti, il tufo la fa da padrone geologico) e del disegno in oro (una specie di timone/rosa dei venti). In basso il logo, una T circondata da degli allori, e il nome del produttore. Il rosso (mattonato) del quadrato centrale attira l’attenzione e fa da richiamo sullo scaffale.

Il Guardiano di Salina, tra Sole, Vento e Mare


Il Guardiano del Faro, Nerello Mascalese, Cantine Colosi.

Questa premiata cantina siciliana (Colosi è il cognome di famiglia) che coltiva e produce a Salina (a Capo Faro e Porri) ha messo in campo una serie di etichette molto colorate e molto… ben illustrate. Prendiamo ad esempio quella della bottiglia di Nerello Mascalese che si chiama “Il Guardiano del Faro”, scrive a tal proposito il produttore nel proprio sito internet: “Il nome prende spunto dalla posizione del vigneto in cui le uve sono coltivate in una piccola e selezionata particella, la 523, che si affaccia sul promontorio di Capo Faro con il suo antico faro…”. Il disegno, con colori molto accesi, raffigura un uomo con barba, il guardiano, e sullo sfondo un faro illuminato assediato da onde burrascose. Siamo nelle Eolie, di fronte a Milazzo, nella Sicilia di Nord-Est, dove il sole e il vento la fanno da padrone, ma anche il mare fa sentire la sua voce e la sua influenza climatica nelle coltivazioni. Nella parte alta dell’etichetta troviamo il logo/nome del produttore, mentre nella parte bassa il nome del vino, già citato, e alla base la precisazione “Prodotto a Salina. Isole Eolie”. Una fiera affermazione territoriale di un arcipelago davvero unico al mondo, sia come conformazione sia come geologia. Nascono vini selvaggi ma sapientemente “governati” dall’esperienza umana nel far maturare le uve e nel trasformarle in nettare esclusivo: lo spazio coltivabile è davvero esiguo e infatti di questo vino si producono soltanto 3500 bottiglie ogni anno.

Terra, Mani, Mare e Tradizione a Cirò Marina


Mani Contadine, Rosato, Tenuta del Conte.

Siamo in Calabria, nel lato che si affaccia sul Mar Ionio. Esattamente a Cirò Marina, dove la tradizione della viticoltura è stata portata dagli Antichi Greci. Questo raccontano gli anziani e le testimonianze storico-morfologiche del territorio. Questo vino viene prodotto dalla famiglia Parrilla, 15 ettari oggi gestiti dai figli del fondatore Francesco. Una volta solo conferitori, oggi fieri produttori. Agricoltura biologica, equilibrio ambientale, per una serie di etichette che parlano di genuinità. Soprattutto questa, che veste un rosato da vitigno Gaglioppo 100%, e che si distingue per un nome del vino molto diretto e significativo: “Mani Contadine”. Pochi dubbi sul significato, confermato da una illustrazione che mostra due mani da viticoltore nell’atto di frantumare una piccola zolla di terra. La carta sulla quale è stampata l’etichtta è di quelle “preziose”, goffrata, in rilievo al tatto. Ma tutto il resto parla di una ruralità ancora intatta. E di semplicità, anche per il packaging: pochi elementi, molto evidenti. Un messaggio diretto e facile da interpretare. Alla base la dicitura “rosato” e il nome/logo dell’azienda: Tenuta del Conte. 

Uno Spiritello Furtivo e un Monaco Lascivo


Moenchberg, Riesling, Louis Maurer.

Le etichette di questo piccolo e generazionale produttore alsaziano sono delle vignette, dei fumetti. Tutte molto divertenti. Allegre, colorate, spensierate. Portiamo ad esempio di tutto ciò l’etichetta del Grand Cru Moenchberg, un Riesling tradizionale per quei luoghi. Nell’immagine centrale, caratterizzata da un cromatismo verde acceso, vediamo un albero, alla base del quale siede un monaco meditabondo, fors’anche bellamente addormentato, mentre alle sue spalle, un diavoletto, uno spiritello, giullare, satrapo, elfo, chissà, fa rotolare giù per la collina una botte. Forse l’ha sottratta in cantina. Forse è proprio lui, quella figura tutta nera sullo sfondo, il genio della vinificazione. In pratica assistiamo a una piccola storia che ci fa lavorare di immaginazione. L’intenzione di questo tipo di etichette è quella di rallegrare gli animi, e di fatto l’obiettivo è raggiunto. Il rischio è quello di sembrare poco seri, e di inficiare così la credibilità di produttore e prodotto stesso. Ma tutto sommato questa vèrve ci piace. E crediamo possa piacere anche agli avventori di questi vini di grande qualità e spessore storico-culturale.

Un Fenicottero Esotico in una Enclave Ligure


Nu Go Quae, Nasco e Moscato Bianco, U Tabarka.


Il nome di questo vino incrocia la propria genesi con la storia di almeno tre territori. Genova (per l’esattezza, il quartiere di Pegli), Tabarka, città della Tunisia al confine con l’Algeria, e la Sardegna dell’estremo Sud-Ovest. Andiamo innanzitutto al significato (secondo quanto scritto nel sito del produttore): “Il nome Nu Go Quae, in dialetto carlofortino “non ho voglia”, deriva dal nome del Quae (voglia), vino da uve stramature realizzato dalle medesime uve ma in chiave passito e decisamente dolce”. In sostanza “Da alcuni atti legali, è accertato che parecchi cittadini pegliesi emigrarono fondando piccole colonie in: Corsica, Sardegna, Sicilia, Alessandria d’Egitto, Provenza, Catalogna e un po’ ovunque per il Mediterraneo. Nel 1544 Carlo V concede alla famiglia Lomellini l’isola di Tabarka al largo della costa tunisina, per praticarvi la pesca del corallo e il commercio in generale. Dato il numero di ville e la loro ubicazione in Pegli probabilmente i Lomellini erano i più autorevoli nobili del paese. Dovendo colonizzare l’isola si rivolgono quindi alla popolazione pegliese, sempre aperta a nuovi sbocchi commerciali. A Tabarka i coloni vendono il corallo ai Lomellini. Le perdite economiche dovute ai saraceni, la diminuzione del banco corallifero, le incursioni corsare, l’eccesso di popolazione, fanno divenire meno attraente l’isola. Già nel 1736, quando Carlo Emanuele III° decide di valorizzare la Sardegna, un gruppo di tabarchini guarda con molto interesse l’isola di S.Pietro. In accordo con il Vicerè di Cagliari si pianifica l’arrivo di 300 coloni nella nuova terra. Nel 1737 si ipotizza l’arrivo di 700 nuovi tabarchini con la promessa di poter commerciare il corallo con lo stesso trattamento economico fatto dai Lomellini. Viene stabilito entro la primavera del 1738 l’arrivo dei tabarchini”. In pratica, si tratta di un dialetto ligure parlato ancora oggi in questa enclave sarda (Carloforte, Calasetta e Sant’Antioco). In etichetta, a parte l’originale nome, vediamo la sagoma stilizzata di un fenicottero (specie che popola l’Isola di San Pietro e dintorni).

Un Mix di Rossi su Carta Arancione


Mixtico, Blend di Rossi, Le Gatte.

Questo vino della Doc Capriano del Colle (Brescia) nasce su un altopiano di circa 10 km quadrati (il Montenetto) con terreno prevalentemente argilloso, che si eleva (si fa per dire) sulla Pianura Padana fino a 133mt di altitudine. Quanto basta per assicurare alla vigne quello scorrere via dell’acqua piovana e di conseguenza dell’umidità che spesso nuoce alle uve. Bella questa etichetta “ottica” che si presenta con un arancione molto protagonista e con un nome originale del vino: “Mixtico”. Parola inventata, certo, operazione creativa ormai necessaria in ogni settore per distinguersi dal nugolo di nominazioni già registrate o tutte uguali a sé stesse. Mixtico sta a significare che in questo vino c’è un mix di vitigni (e anche il riferimento fonetico a “mitico” emerge chiaramente), ed esattamente Merlot, Marzemino, Sangiovese e Barbera. Da vigne nuove coltivate in un comprensorio aziendale di 15 ettari, fiancheggiati da maestosi boschi. Il nome del vino, in inchiostro bianco in rilievo, si staglia su un non meglio comprensibile fondo che potrebbe sembrare un disegno tribale o una cartina geografica solo accennata. Sotto troviamo il nome/logo dell’azienda, Le Gatte (oro su arancione, criticabile). Ancora più giù, alla base del packaging vediamo la scritta “La vita è troppo breve per bere cattivo vino”. Frase un po’ inflazionata ma che fa sempre il suo effetto. La firma sottostante è della “Famiglia Cirillo”, proprietaria della tenuta.

Il Cantiniere al Centro del Mondo


Pinot Noir, Ottin.

Siamo in una delle regioni più “indipendentiste” d’Italia, insieme all’Alto Adige, naturalmente. La differenza è che in Valle d’Aosta non fanno clamori, al limite utilizzano la lingua francese, a tratti differente da quella originale, per definire le proprie attività. Ed è quello che succede in questa etichetta del Pinot orgogliosamente Noir di Ottin, piccolo ma ottimo produttore del luogo, dove sotto al nome (cognome) aziendale leggiamo “viticulteur” (viticoltore, questo è facile) ed “encaveur”, termine di non facile traduzione se non approfondendo la ricerca tra le pieghe delle forme dialettali. In quella zona infatti, da “encavage” (cioè la “messa in cantina di prodotti enogastronomici), risulta come nome di colui che se ne occupa, cioè, potremmo dire, il cantiniere. Quindi Ottin si definisce, in etichetta, come “viticoltore e cantiniere”, fornendo quindi una garanzia in più sul controllo diretto di tutto il processo produttivo dei suoi vini. A conferma di ciò, la gentile (fin troppo esile) illustrazione al centro del packaging vede un omino chino nell’atto di spostare una botte, probabilmente per sistemarla opportunamente in cantina. L’opera, appunto, del cantiniere che in questo caso è stato anche viticoltore ed enologo. Bella la semplicità di questa etichetta: pochi elementi, alcuni evidenziati dal croma rosso, su un fondo di carta goffrata, spessa al tatto, valorizzante. La piccola Valle d’Aosta si fa notare.

Il Leone Unghiato di un Sangiovese Soleggiato


Il Pometo, Sangiovese, Lungarotti.

Questa grande e nota cantina umbra presenta un giovane e spigliato Sangiovese con un’etichetta ugualmente dinamica e apparentemente insolita. Certo i colori e gli stilemi attirano l’attenzione in modo originale ma approfondendo la documentazione in merito scopriamo che “Il motivo in etichetta, stilizzato, si ispira alle formelle quadrilobate del XIV sec. che ornano la facciata del Duomo di Perugia: un equilibrio formale che interpreta storia, eleganza e modernità”. Quello che si nota, oltre al cromatismo rosso acceso, è anche la scritta “museo del vino”, facente riferimento a una esposizione privata presente nella sede dell’azienda. In alto a sinistra troviamo anche la scritta “ex-libris”. Bello comunque il leone mitologico, con gli occhi a cuore e la coda come un tralcio di vite. Un leone brindante nel sole, con le zampe unghiate e un messaggio d’amore che smorza il suo aspetto selvaggio. Un vezzo grafico: la “N” di Sangiovese in rosso come altri particolari dell’illustrazione. Il nome del vino, se vogliamo, è la parte meno sorprendente, “il Pometo”, che rincorre concettualmente e foneticamente un filone ormai noto dalla parti del centro Italia, e soprattutto in Toscana.

Pinocchio e una Fata, nel Sole, tra i Castelli


La CapoVolta, Verdicchio, la Marca di San Michele.

Il mantra filosofico e di marketing di questa piccola azienda biologica marchigiana è “Solo cru. Un vigneto, un vino”. Niente male. Un’affermazione forte, deliberata, che conduce la narrazione verso un aspetto qualitativo fondante, per la produzione di buon vino. Siamo in Contrada San Michele, a Cupramontana, grazioso paese in provincia di Ancona. 10 ettari di vigne e una serie di etichette sorprendenti, tra le quali questa che portiamo in visione. Il nome del vino è “La CapoVolta”, forse riferito a qualche dinamica di produzione (macerazione sulle bucce, sei mesi sui lieviti), forse a qualche struttura storica della cantina. Sta di fatto che il packaging di questo Verdicchio dei Csatelli di Jesi si fa notare: una leggiadra figura femminile vestita di rosso fugge via verso l’orizzonte. In primo piano un ricordo di Pinocchio col suo bel naso lungo. Eppure le bugie hanno le gambe corte, dice il proverbio. Certo la “V” maiuscola del nome “La CapoVolta” qualcosa dovrebbe significare. Mistero. Favola. Racconto (che manca, nel sito del produttore, speriamo in aggiornamento). E il vino? Costoso, ma (dicono) molto buono, soprattutto con certe ricette di pesce di grande consistenza materica e palatale.

Sotto al Vulcano, Sopra il Mare


Mareneve, Blend di Bianchi, Federico Graziani.

Dice Federico Graziani che “il vino non deve essere perfetto, deve essere vero”. Si può essere d’accordo con questa affermazione oppure no. Quello che rimane è la sensazione, ora et semper soggettiva, all’assaggio. Sicuramente questo blend di vitigni coltivati a 1200 mt. s.l.m. sulle pendici dell’Etna comunica tanta freschezza e un mare di qualità. Lui, il produttore, parla di freschezza di montagna (“a muntagna”, come viene chiamato il vulcano da quelle parti) e di salinità del mare. In etichetta spicca un nome originale, “Mareneve”, che esprime proprio questo stacco geofisico laddove i due elementi si accomunano e rendono il clima davvero unico. Spicca anche, nel packaging, il profondo azzurro cromatico dell’illustrazione in primo piano. Opera di arte contemporanea dove ognuno ci vede quello che vuole o che può. Noi ci vediamo delle stelle, ma tutto è relativo quando la natura suggerisce e l’uomo recepisce. In buona sostanza un piccola produzione animata dalla passione. Certo che l’esperimento in alta quota è venuto bene. E sono soddisfazioni.

I Vespri, il Convento e il Tramonto: c’è Tutto


Vesper, Rosso di Valtellina, Convento di San Lorenzo.

Il nome di questo vino è… tante cose. Tutte insieme, ma meritevoli di essere distinte. Innanzitutto riportiamo il rational del produttore, che si trova nel sito internet: “Vespero è un dio della mitologia greca, personificazione della luce della sera. I vigneti terrazzati, situati nell'area che circonda il Convento San Lorenzo, ad un'altitudine media di 500 metri e con esposizione a sud, sono inondati dai raggi del sole dall'alba al tramonto”. Ma noi, grazie a Wikipedia, sappiamo anche che Vesper o Vesper Martini è un cocktail composto da gin, vodka e Kina Lillet, un vino aromatizzato non più prodotto e sostituito dal similare Lillet Blanc attualmente disponibile. Il cocktail, un “pre-dinner”, è stato inventato nel 1953 da Ian Fleming nel romanzo Casino Royale. L'agente segreto James Bond ordina e nomina il cocktail in onore di Vesper Lynd, di cui era innamorato”. Vesper inoltre ricorda i vespri, di cattolica usanza e liturgia, e cioè “la penultima delle ore canoniche, tra nona e compieta, e la parte dell'Uffizio che in essa si recita o canta, sacra funzione pomeridiana”. E infine come non dire qualcosa riguardo i Vespri Siciliani: “furono una ribellione scoppiata a Palermo all'ora dei vespri di Lunedì dell’Angelo nel 1282. Bersaglio della rivolta furono i dominatori francesi dell'isola, gli Angioini, avvertiti come oppressori stranieri. Da Palermo i moti si sparsero presto all'intera Sicilia e ne espulsero la presenza francese”. In conclusione: un bel nome, evocativo e concettualmente valido, per un vino dall’aura trascendentale. Il resto dell’etichetta? Benissimo anche quella, a partire dalla stilizzazione della monaca, che diventa logo, nella parte alta. Bella carta, bel carattere di scrittura, pulizia grafica ed eleganza. Applausi.

Si Salvi chi Può (dalla Modernità delle Malelingue)


Salvanza, Chianti Colli Senesi, Piccini 1882.

Nella prima parte del libro di Vittorio Coletti (linguista e lessicografo, consigliere dell’Accademia della Crusca) che si intitola Eccessi di Parole (Cesati Editore), si trova una sezione che potremmo definire come un “Museo di parole perdute”, dedicato alle accezioni che la nostra lingua ha perso negli anni. Ad esempio, del verbo “salvare” abbiamo perso la “salvanza” (nome di questo vino), oggi diventata salvezza, da ”scappare”, la scappatura, così come è in uso ufficio e non più uffizio, giovane e non più giovine. Ed ecco che un noto produttore toscano (dove risiede la “culla” dell’italiano originario) chiama il proprio Chianti (delle Colline Senesi) con una parola che riporta ad antichi vernacoli. Onore al merito, fulgore alla percezione di storicità che il Chianti, di suo, porta sempre con sé, in ogni caso. Si tratta di un’etichetta che anche per lo stile di elaborazione e di collocazione dei vari elementi, parla di tradizione e cultura di quei luoghi. Al centro, uno stemma attorniato dalla dicitura “Una tradizione di famiglia dal 1882”, non fa altro che confermare le intenzioni di chi ha realizzato il packaging. In alto il nome del produttore “in chiaro”, in basso la firma in corsivo. Dettagli non casuali contenuti da un’etichetta che fa il proprio gioco in modo persuasivo e convincente.