La Solerte (e Soleggiata) Cura di un VIgnaiolo Siciliano


Solerte, Zibibbo, Vino Lauria.

L’azienda Vino Lauria (facile l’assonanza con il nome del produttore, Vito Lauria) ha sede ad Alcamo, vicino a Palermo. La gamma dei vini si caratterizza con etichette molto vistose e davvero originali. Ad esempio questa, che veste la bottiglia di uno Zibibbio coltivato su terreni calcarei nei dintorni di Salemi. Nel packaging vediamo un viticoltore “armato” di zappa, intento a lavorare la vigna (di fronte a lui una vite con grappoli d’uva). Lo stile dell’illustrazione è vagamente futurista. Una serie di strisce colorate simulano i raggi di sole con un effetto grafico di sicura attenzionalità. Ma veniamo al nome del vino, anch’esso originale: “Solerte”. Parola desueta che Treccani commenta così: “dal latino sollers -ertis, composto di sollus "tutto" e ars artis "arte, attività". Di persona che compie il proprio lavoro o affronta i propri impegni con prontezza e rapidità”. Quindi ecco la rappresentazione di un viticoltore solerte. Attento e metodico nello svolgimento delle sue mansioni. E di questo la vite ha bisogno (l’azienda è in regime biologico) per generare uve che a loro volta sono chiamate a dare “forma” a vini di grande qualità. Una parola antica, con un concetto sempre attuale. Del quale il prodotto finale, naturalmente si avvantaggia.

Il Tesoro Enologico del Cilento


Fianoro, Fiano, Tenuta Macellaro.

Il nome di questo vino racconta tutto (o quasi): il vitigno, il colore, il valore, la passione soprattutto di questa piccola azienda famigliare da 7 ettari. Il produttore, Ciro Macellaro, inizia la propria attiività nel 2011, sulle orme del nonno agricoltore. Le vigne e la produzione sono a Postiglione, in provincia di Salerno, nel Parco Nazionale del Cilento. Perché “Fianoro” quindi? Per il vitigno, il Fiano Igp Paestum (uve sovramaturate, con macerazione delle bucce) e per il suo colore dorato (oro intenso). E aggiungiamo noi, per quel valore aggiunto che viene dato dalla passione per la viticoltura, in questo caso in regime biologico. Cosa possiamo aggiungere riguardo il packaging di questa bottiglia? Il nome spezzato non facilita la lettura ma la grandezza delle lettere incuriosisce e induce ad una maggiore attenzione. Bella e originale la rappresentazione di un grappolo d’uva sulla destra: tra arte moderna ed elaborazione grafica a contrasto. In alto a sinistra vediamo il logo e il nome aziendale, giustamente con inchiostro dorato, così come la dicitura del vitigno alla base dell’etichetta. Nel complesso siamo di fronte a qualcosa di semplice e diretto, ma anche originale e moderno. Un ottimo mix nel campo della tradizione e dell’innovazione.

Uno Stupefacente Franciacorta Biodinamico (e Domestico)


Ellesseddì, Franciacorta, 1701.

Queste bollicine bresciane che affermano di essere “il primo Franciacorta biodinamico” sono state battezzate in un modo bizzarro, cioè facendo riferimento a una nota droga sintetica: LSD. In uso soprattutto negli anni ‘60, la Dietilamide dell’Acido Lisergico è un allucinogeno creato da Alfred Hoffmann per la farmaceutica Sandoz di Basilea. L’uso “ricreativo” prese piede molto più di quello terapeutico. Ma torniamo alla stranezza di chiamare un vino “Ellesseddì” (questa è la dicitura esatta stampata in etichetta): la psichedelica proposta, che si manifesta anche con colori molto accesi, fa riferimento alla produzione del vino con “Lieviti Solo Domestici” (da qui la giustificazione della sigla, che però viene scritta per esteso). L’alcool non dovrebbe essere considerato come una droga (o forse sì? Ultimamente le precisazioni in merito si sprecano…) ma in ogni caso il riferimento a veri stupefacenti è molto rischioso. Diciamo coraggioso, azzardato. Certo se l’intenzione è quella di farsi notare, sia a livello cromatico che semantico, questa azienda è riuscita nel proprio intento. Per la cronaca, questa “droga legalizzata” costa 33 Euro a bottiglia. Il nettare spumeggiante viene prodotto con l’85% di uve Chardonnay e con il restante 15% di uve Pinot Nero. 30 mesi di permanenza sui lieviti, zero dosage. Al centro dell’etichetta, in alto, il logo dell’azienda che sostanzialmente è un numero: 1701. Apprediamo che si tratta di una data “…che si deve proprio alla prima annata di un vino prodotto dal “Brolo”: un suggestivo vigneto domestico cinto da mura dell’XI secolo”. Quanto meno qui la “sintesi” non è chimica, ma naturale!

Le Uve Mascarate di Vittoria


Maskarìa. Cerasuolo di Vittoria, Terre di Giurfo.

L’etimologia del nome di questo vino è davvero complessa e merita di essere approfondita. Alcune fonti dicono che potrebbe trattarsi di un’antica forma derivata dal latino tardo, del settimo secolo, per “masca”, che significa “strega”, o dall’italiano antico “màscara”, cioè “maschera”. In effetti in questa etichetta vediamo due maschere contrapposte, una rossa e una solo tracciata. Semanticamente si tratta di accezioni volte a indicare qualcosa di oscuro, come un volto coperto o camuffato. Questa stessa etimologia è propria anche dell’italiano “mascàra”, il noto trucco cosmetico per occhi usato per allungare, ispessire e, soprattutto, scurire le ciglia. In Sicilia, non solo una persona, ma anche il tempo può “mascariarsi”, cioè annerirsi quando il cielo terso si annuvola; così come l’uva, che si “mascaria” se diventa rancida e scura. E ancora: mascariaturi è chi imbratta qualcosa o infama qualcuno, mentre mascarò è un segno di sporco e mascarittedda è detta scherzosamente una donna brunetta, scura. Può anche capitare che qualcosa “si nun tinci mascarìa”, cioè “se non tinge sporca”, ossia che pur non facendo del tutto male lascia comunque un segno (tratto dall’interessante sito, SicilianPost, storie dalla Sicilia e dal mondo). Il Cerasuolo di Vittoria (nominato DOCG non molto tempo fa) si compone in effetti di due vitigni siciliani classici, il Frappato e il Nero d’Avola. Forse fa riferimento anche a questo la grafica in etichetta, con due personaggi che si confrontano mescolando le proprie caratteristiche. Resta ai consumatori un nome originale, che si fa notare, e che per ragioni di registrazione presenta una “k” al posto di una “c”. E un’etichetta scura, elegante, a tratti misteriosa, che rende il tutto memorabile. 

Un Bacio Svedese sulle Colline Maremmane


Rosato, Az. Agr. Prato al Pozzo.

Questa azienda famigliare toscana, sita in Cinigiano, in provincia di Grosseto, lavora solo 1 ettaro e mezzo di vigna e produce un numero limitato di bottiglie di vino (principalmente con i vitigni Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Vermentino). Tra le altre etichette abbiamo scelto questa, del Rosato Igt, l’ultimo nato. Ci ha colpito logicamente quel “bacio” rosso al centro dell’etichetta. La traccia di due labbra che hanno rilasciato, al contatto, un rossetto. Può sembrare banale, e di fatto lo si è già visto in molte modalità, ma qui rappresentato, su fondo bianco, in modo se vogliamo sfacciato, è in grado di attirare attenzione e formare così un’ottima memorabilità. Design semplice, di pochi elementi: il colore rosso delle labbra lo ritroviamo nella data soprastante che indica l’annata. All’apice il nome dell’azienda, “Prato al Pozzo”, che indica chiaramente l’origine di questa scelta. Vino rosato uguale labbra femminili? Anche questo potrebbe apparite come uno stereotipo. Ma a volte i percorsi lineari, a livello di comunicazione e quindi di percezione, sono quelli che funzionano. E allora perhé non adottarli? Per la cronaca: i due titolari dell’azienda, Francesca e Fabio, sono italiani, mentre Olle Anderson, il creatore delle etichette di questa azienda, è un designer svedese. Unione di intenti e brindisi per tutti quanti.

Come uno Champagnino ha Perso la Sua Francesità


Sampagnino (ex Champagnino), Bianco Ancestrale, Bulli.

La strana ma comprensibile storia di come un vino “mosso” italiano ha perso il suo “accento” francese. Questo vino frizzante ottenuto da vari vitigni bianchi delle Colline Piacentine una volta si chiamava “Champagnino”. Le motivazioni sono facilmente intuibili: un piccolo Champagne… di campagna (le dolci colline che incorniciano la Pianura Padana a sud di Piacenza). Ma si sa che i francesi sono suscettibili, soprattutto quando si tratta di andare a ledere interessi elevati come quelli legati alla produzione e alla commercializzazione di Champagne. In questi casi dalle vigne saltano fuori avvocati come funghi. E allora è meglio scendere a compromessi magari andando a pescare in inflessioni dialettali locali come per “Sampagnino”. Per il resto, Bulli, questa piccola azienda piacentina (solo 10 ettari allo stato attuale) ha mantenuto inalterate tradizioni ed emozioni, con una agricoltura rispettosa dell’ambiente e niente chimica (o comunque pochissima) sui grappoli. L’etichetta si presenta all’antica, con caratteri di scrittura graziati, cornici decorative classiche, logo che richiama sensazioni di secoli passati. Ma il mondo del vino secondo gli usi e costumi del luogo è proprio quello lì. Così come fanno anche molti produttori francesi dello Champagne che prima di abbandonare certe etichette vintage ci pensano bene. E allora avanti con le bollicine del Bel Paese: onore alle tradizioni enogastronomiche del nostro lato delle Alpi. E salute!

5 Soli Colorati che Illuminano un’Idea


Barbera, La Travaglina,

L’etichetta di questa Barbera che sta alla “base” dell’offerta dell’azienda pavese “La Travaglina”, sottoposta al giudizio di varie persone, riesce a raccogliere sensazioni e valutazioni diverse ma sempre positive. E’ la dimostrazione che anche un packaging semplice, per quanto riguarda la realizzazione, i colori, la carta, può riuscire ad attirare l’attenzione e a svolgere così la sua importante funzione: distinguere il prodotto. Il vino non ha nome (sarebbe meglio lo avesse, anche nei casi come questo, di bassa gamma), il fondo è scuro, dona eleganza. Una cornice arancione “contiene” gli altri elementi. Diciture di legge a sinistra con un carattere molto basilare. In basso il nome/logo dell’azienda. Ma il fulcro di tutto questo è quella illustrazione nella parte alta a destra: apparentemente 5 grovigli colorati senza arte né parte. E invece. Quei cinque gomitoli cromatici (giallo, arancione, viola, azzurro e verde) per alcuno sono 5 soli che illuminano la campagna dall’alba al tramonto. Per altri, per molti, sono invece gli acini di un variopinto grappolo d’uva. Fin troppo facile. Resta la prova che l’artefatto, volutamente non definito, non completo, suscita curiosità, interesse, genera memorabilità. Cosa può fare un’idea… anche molto semplice, ma originale al punto giusto. E pure senza spendere molti soldi.

Un Rinoceronte Corazzato per Dare Forza alla Comunicazione


Cà’ di Pian, Barbera d’Asti, La Spinetta.

Questo vino iconico, produzione della nota casa vitivinicola “La Spinetta” di Castagnanole delle Lanze (Asti), si ispira, col suo nome, a una zona di coltivazione. Il nome del fondatore di questa cantina, invece, è “Pin”, Sarebbe Giuseppe Rivetti che con la moglie Lidia fondò l’azienda negli ani ‘60. Ma quello che ci interessa veramente è “Il Rinoceronte”. Chissà quanti ammirati (per l’indiscutibile qualità del vino) avventori si sono chiesti: “Cosa ci fa un rinoceronte afrcano sulle etichette di un produttore piemontese?”. Ed ecco finalmente l’interessante, colta, nozionistica ma anche artistica e coinvolgente risposta che troviamo nel sito dell’azienda: “La scelta di raffigurare sull’etichetta dei nostri vini l’immagine de “Il Rinoceronte”, l’opera di Albrecht Dürer, è determinata dall’ammirazione di Giorgio Rivetti verso questo artista tedesco. L’opera “Il Rinoceronte” rappresenta l’arrivo di un rinoceronte indiano a Lisbona, in Portogallo, nel 1515: il primo animale del suo genere ad essere mai visto in Europa. Dürer ne realizza un disegno e un’incisione senza mai essere stato spettatore di quell’evento. Eppure il disegno e l’incisione sono così verosimili all’originale, che diventano oggetti d’ispirazione per gli illustratori europei dei 300 anni a seguire, anche dopo aver visto rinoceronti in carne e ossa, senza lastre e squame presenti invece nel disegno dell’artista”. Spiegazione affiancata da una bella sintesi filosofica: “L'abilità di Albrecht Dürer di realizzare un'opera cominciando da una semplice descrizione, può essere paragonata alla capacità dell'agricoltore di concretizzare un'idea”. Ed ecco creato il simbolo, oggi ben conosciuto, dei vini della famiglia Rivetti. Nelle etichette sempre presente, al centro, su fondi cromatici uniformi, con soluzioni grafiche semplici, chiare, lineari. Un packaging distintivo che viene comunicato con forza e coesione.

Amarcord e Amaracmand: Formule Magiche di Simpatia


Imperfetto, Sangiovese Amaracmand.

Siamo in Romagna, esattamente a Sorrivoli di Roncofreddo (che già come nome promette bene), e il dialetto locale è quello che ci ha insegnato il Maestro Fellini, ed esempio con il suo film “Amarcord”. Che in dialetto significa “mi ricordo”. Così come il nome di questa azienda, “Amaracmand”, significa, “mi raccomando”. Il vino in questione si chiama “Imperfetto” e trova un suo rational nelle parole della coppia di produttori, come si può leggere tra le pagine del sito internet: “Primo progetto enologico di Amaracmand, nasce dalla convinzione di Marco Vianello e della moglie Tiziana che: “L’imperfezione è soggettiva. Nessun vino è perfetto quindi nemmeno i migliori lo sono. Sono le loro imperfezioni a renderli unici, è l’imperfezione che crea lo stile”. E la raffigurazione in etichetta? Incuriosisce. Due volti al tratto, appena accennati. Un uomo e una donna che si baciano. A proposito di questo, i produttori, con una nota romantica affermano: “ In etichetta una coppia di amanti perché è l’amore a dar vita a questo come a tutti i vini dell’azienda”. Un’etichetta che attira l’attenzione, con poesia e passione. Molto particolare le “sporcature” cromatiche in rosso: delle macchie di colore, rosso-vino, che “timbrano” il packaging aggiungendo una nota in più di originalità. 

Dalle Montagne Austriache alla “Muntagna” di Catania


Contessa del Vento, Carricante, Theresa Eccher.

Che nome (aziendale) strano, Theresa Eccher, per essere sulle pendici dell’Etna. Sembra, anzi, é, un nome Austriaco… Ed ecco infatti la spiegazione che troviamo nel sito internet di questo produttore “siciliano”: “Theresa Eccher è prima di tutto una famiglia: persone che condividono una storia, un’idea, un progetto. Le origini si trovano in un tempo lontano, la fine del 1700, in Val di Non: un luogo che allora era Austria. La leggenda parla di una bella vedova, Marianne, proprietaria di un’osteria. Lorenz Eccher scende dalle natie montagne di Laurein e la incontra. La sua corte è serrata. Lei non è indifferente alle avances del giovane. Si sposano. E da li a poco Lorenz e la sua Marianne cominciano a produrre il vino che vendono. E quando, ai tempi nostri, Daniela Conta Eccher e suo marito Andrea Panozzo decidono di convertire la comune passione per il vino in una scelta di vita, non possono fare a meno di ricordare la nonna di Daniela, Theresa Eccher. A lei intitolano il loro progetto, che trova realizzazione sulle pendici del vulcano Etna, a circa 800 metri di altitudine. È a Solicchiata, nel vocato versante Nord, che si trova un vigneto antico, messo a dimora prima che la storica epidemia di Fillossera uccidesse buona parte degli impianti europei e, quindi, anche etnei. Daniela e Andrea se ne innamorano e infine riescono ad acquistarlo. È il vero inizio. La storia di oggi parte da qui, e coinvolge anche Ginevra, figlia di Daniela e Andrea”. Ma parliamo di questo vino, che tra la non ampia gamma di Theresa Eccher, ben rappresenta un Carricante in purezza: si chiama Contessa del Vento, bel nome, evocativo degli elementi del meteo, quindi della natura, con un accenno ad una nobiltà soprattutto d’animo e logicamente anche di tradizione vinicola. Va da sé che in moltissimi casi famiglie nobiliari hanno fondato e tramandato attività vinicole importanti. La Contessa in questione si avvale della raffigurazione del Vulcano, a Muntagna, come lo chiamano in provincia di Catania, con un pennacchio azzurro. Alla base, sopra al nome aziendale, una bella corona stilizzata. E la mutazione da nord a sud è compiuta. In nome del vino.

Lo Chardonnay di Cà’ del Bosco ha un Nuovo Nome


Selva della Tesa, Chardonnay, Cà’ del Bosco.

Parte così il racconto storico aziendale nel sito internet di questo grande produttore franciacortino: “La nostra storia inizia quando Anna Maria Clementi, madre di Maurizio Zanella, acquista Ca’ del Bosco, una piccola casa in collina a Erbusco, due ettari di proprietà immersi in un fitto bosco di querce e castagni”. I vini di questa nota cantina che hanno conquistato fama internazionale sono altri (in particolare le bollicine della Cuvée Prestige e del top di gamma intitolato alla celebre fondatrice). Ma qui intendiamo questa volta prendere in esame un vino meno conosciuto, uno Chardonnay in purezza che si avvale di 7 parcelle diverse, e che si chiama Selva della Tesa. Il nome, nuovo dal 2019, si riferisce al bosco che circonda il vigneto della Tesa, tra i primi, alla fine degli anni ’70, ad essere piantato, per circa mezzo ettaro di viti, collocato in una zona nascosta e protetta da un fitto bosco, vicino alla sede storica di Ca’ del Bosco. Il nome di compone di parole “nobilitanti” come altre volte abbiamo letto su etichette di vini costosi: “selva” e “tesa” sono espressioni tra il poetico e il forbito, sicuramente evocative. L’etichetta, graficamente è minimalista, molto semplice, pochi elementi, fondo scuro. Campeggia a sinistra, in colonna, il nome del vino (la lettura risulta non immediata), al centro un’asta arancio/dorata (davvero di sintesi, diciamo così), mentre in basso a destra troviamo il logo e il nome del produttore con l’indicazione del numero della bottiglia (in questo caso la n.1 perché la foto è stata presa dal sito del produttore ed è unicamente di riferimento).

Un Jambon del Beaujolais con Tanto Amore


Une Tranche d’Amour, Gamay (Beaujolais), Jambon/Lotrous.

Philippe e Catherine Jambon hanno fondato la loro tenuta a Chasselas, nel Beaujolais settentrionale, nel 1997. Nel corso degli anni hanno acquisito 3,5 ettari di micro-appezzamenti sparsi nella zona. Fin dall'inizio, la loro filosofia è stata la stessa: coltivare i vigneti con cura e senza prodotti chimici e produrre vini senza sostanze “addizionali”, dedicando loro il tempo necessario in cantina, in botte e in bottiglia. Le loro bottiglie sono difficili da trovare ma possono generare ottime sensazioni palatali. Jambon, il cognome della famiglia, abbiamo detto… ed è forse per questo che nella semplicissima etichetta del loro Sant’Amour (che si chiama, appunto, “Une tranche d’amour”), in alto, campeggia una trionfante testa di maiale, probabilmente anche come consiglio gastronomico per questo Gamay, vitigno davvero ancora poco valorizzato e apprezzato. Il fondo dell’etichetta somiglia proprio a una di quelle tovaglie che si trovano ancora oggi nelle trattorie francesi (e anche italiane, certo). Segno di genuinità, di “credibilità” contadina, e automaticamente di qualità originaria. Certo non possiamo parlare di eleganza… una eleganza che possiamo recuperare nel vino, questo sì.

Memorie Contadine in un Nuovo Percorso Aziendale


Curù, Nero d’Avola, Musanegra.

Per la serie, ormai davvero nutrita, delle etichette molto colorate, ecco un Nero d’Avola rosato coltivato e prodotto in Sicilia, a Castelvetrano, in provincia di Trapani. L’azienda è di quelle che vuole porsi sul mercato in modo giovane e moderno: tutte le etichette della gamma sono molto fantasiose (visibili nel funzionale ed elegante sito internet www.musanegra.it). Questa in particolare, che veste il rosato di nome “Curù”, ci ha colpito per la bella, originale e coraggiosa rappresentazioane dei fichi d’india, che vediamo nell’illustrazione subito ai lati della parte centrale con il nome del vino. Le foglie e i frutti dei fichi d’india sono infatti molto colorati, quasi dei fuochi d’artificio naturali. Un commento particolare va al logo e al nome aziendale: “Musanegra”. Evidentemente si tratta di un nome scelto prima delle più recenti disquisizioni sulla correttezza della dizione “nera” o “negra”. Bella la raffigurazione di profilo di un viso di donna coronata. Va detto che la storia dell’azienda parte da Giuseppa Musacchia, nonno Pé per la famiglia, che ha acquistato i primi vigneti portando alla decisione dei nipoti di vinificare in proprio. A lui sono dedicati un Syrah, un Catarratto e un Nero d’Avola con questo nome (“Pé”). Non possiamo non riportare una bella frase che termina la storia aziendale nel sito internet: “Ho sacrificato tutta la mia vita per non far sentire più le urla di un padrone ai miei figli! E voi, ora che potete, cosa siete disposti a fare per non diventare come lui?”. Firmato Nonno Pé, libero spirito contadino.

L’Etna Etnico e Colorato dei Suoli


Piripicchio e Riliei, Nerello Mascalese, I Suoli.

Tre amici con l'amore per il vino e la voglia di osare (perché i viticoltura osare è tutto). Nasce cosi, con questa motivazione questa azienda sull’Etna. Si chiama “I Suoli” e mette insieme tre grandi nomi del vino italiano. Emiliano Falsini, rinomato enologo di grandi firme del vino, in perpetuo movimento, con una passione profonda per il proprio lavoro. Giuseppe Russo, patron della cantina Girolamo Russo a Passopisciaro, una delle cantine più importanti di quella zona vulcanica. il terzo è Dante Pasqua, amico storico di Giuseppe, piccolo vignaiolo anche lui con un vigneto a Calderara Sottana e oggi uno dei più stretti collaboratori della Girolamo Russo. Sull'Etna, con l’acquisto di un piccolo vigneto di poco più di 1 ettaro in Contrada Pignatone, a Randazzo sul versante nord del vulcano, hanno realizzato un progetto enologico con il desiderio forte di fare qualcosa di diverso e di sperimentare. In questo caso presentiamo un rosato e un rosso, entrambi realizzati con il 100% di Nerello Mascalese, il vitigno di riferimento delle pendici dell’Etna. Le etichetta sono davvero vulcaniche: coloratissime, sprizzano gioia, sole, colore, vita, gioia, in tutti i sensi. Mani grafiche e fumettose giocano con acini voluttuosi come coriandoli, o forse con sassi di lava, ancora incandescenti. Progetto nuovo e ambizioso, divertente e coraggioso. Per quanto riguarda il nome Piripicchio, chissà, ognuno lo “traduce” come meglio crede!

I Cinque Cavalieri dell’Apocalisse (dal Sud con Ardore)


Edizione Cinque Autoctoni, Blend di Rossi, Fantini.

Per l’annata 2022 Fantini esce con una etichetta davvero particolare: in morbido “velluto”. In pratica la carta del packaging frontale è realizzata con un materiale sintetico che la rende vellutata al tatto. L’originalità di questo vino non inizia (e non finisce) qui: si tratta di un progetto di ampio respiro che merita di essere raccontato. I vitigni che compongono questo vino sono 5 (come afferma il nome stesso, che troviamo in alto nell’etichetta) e sono tra i più importanti del Sud Italia: Montepulciano, Sangiovese, Primitivo, Negroamaro e Malvasia Nera. L’idea di metterli insieme nasce nel 1996: durante un incontro tra “addetti ai lavori”, cioè tra Valentino Sciotti, oggi direttore della “Farnese Group”, Filippo Baccalaro, enologo del gruppo, Hugh Johnson, famoso giornalista del mondo del vino e Jean Marc Sauboua, enologo francese. In quella occasione, Hugh Johnson lanciò l’idea di creare un grande vino del Sud Italia, realizzato con i migliori vitigni di questo territorio. Ed ecco nascere e perdurare nel tempo l’Edizione Cinque Autoctoni, coltivati nei comuni di Colonnella, Ortona, Sava e San Marzano. Le uve Montepulciano e Sangiovese provengono da vigne abruzzesi poste a 300 mt. s.l.m. Mentre le altre varietà, Primitivo, Negroamaro e Malvasia Nera, sono coltivate in Puglia. Sul velluto blu di sfondo, tutti i particolari sono in oro: nome del vino, riproduzione dell’edificio della sede, firma dell’enologo, annata e nome aziendale. Sul collarino è appeso un cartaceo con il racconto del vino. Un’edizione speciale che fa lustro di sé.

Con le Mele Stiamo a Zero


Zerozzante, Succo di Mela, Raumland.

Grande e nota azienda tedesca più celebre per il “Sekt”, lo spumante germanico che tenta di essere qualcosa di somigliante al nostro Prosecco. Qui si presenta una versione particolare di succo di mela frizzante, senza alcool. Per cui: non è vino e non è nemmeno un succo alcolico. Il tutto viene sancito da un nome quasi imbarazzante: “Zerozzante”, scimmiottando le due parole italiane “zero” e “frizzante”. Per quanto riguarda “zero” ormai in uso concreto anche in inglese e francese (zero dosage et affini). Frizzante invece diventa simbolo di spigliatezza, aperitivezza, giovinezza, anche più di “spumante”, che viene ormai ritenuta parola “vecchia”. Ed ecco qui un fantastico succo di mela rossa, tutto naturale, dove la sola soddisfazione palatale viene probabilmente delegata all’equilibrio tra acidità e dolcezza. Una specie di Champagne fruttarello. A parte il nome il resto del packaging design non è affatto male: carta preziosa, illustrazioni ben fatte, equilibrio degli elementi, chiarezza dei caratteri di scrittura. C’è pure un accenno di inchiostro dorato per dare un tocco di percepibile valore commerciale, oltre che ingredientistico. Che dire?  Un mondo fantastico!

Una Dea della Fertilità e un Sarto, in Val di Cembra


Frau Pèrtega ed El Piceno, Schiava e Müller Thurgau, La Campirlota.

Elisa e Paolo hanno “messo su” La Campirlota (nome dell’azienda vinicola e molto altro). In una zona rurale della Val di Cembra si occupano… di vivere in simbiosi con la natura (e con asini, carpette, cani, gatti e tutta la biodiversità possibile). Producono, per ora, solo due vini, un bianco e un rosso. Le etichette sono state disegnate da una amica illustratrice e personificano due leggende del posto, ben raccontate (e qui riportate) nei ripetitivi retro-etichette: “La figura più emblematica delle leggende cimbre, la Frau Pèrtega, vive a Luserna, in una profonda grotta sul precipizio che domina la Valdastico. Qui, all’interno di grandi botti colme d’acqua, custodisce i bambini che devono ancora nascere. Una dea della fertilità, custode di un legame profondo con la madre terra. A lei abbiamo voluto dedicare la nostra Schiava, un vino rosato fresco e fruttato, un vino da compagnia, da bere insieme. Ma non lasciarti ingannare dalla sua freschezza: la sua storia ha radici profonde, quelle delle vigne da cui proviene, che sulle spalle portano quasi un centinaio di primavere”. E poi: “Un sarto protestante di origini svizzere che lavorava a servizio dei signori del castello di Segonzano. Gobbo e piccolotto, ma straordinariamente abile nel creare abiti meravigliosi. Ecco chi era El Picena, protagonista di un’antica leggenda cembrana. Un sarto ribelle, che pagò con la vita la propria libertà: cadde da un fico cresciuto su uno strapiombo mentre fuggiva dai padroni che volevano costringerlo a convertirsi alla religione cattolica. Il nostro Müller Thurgau è un po’ come El Picena: vino aromatico e decisamente sapido, schietto e sincero ma mai arrogante. Coltivato interamente a mano, cresce su terrazzamenti arditi e lotta tenacemente per restare fedele alla propria identità”. Due storie all’interno di una storia più grande, fatta di passione e condivisione. Complimenti e avanti così.

Una Turbiana che Vuol Fare la Preziosa


Lugliet, Lugana, Cantina Loda.

Questa cantina bresciana con sede a Pozzolengo sceglie uno stile pulito ma anche a suo modo originale, per le proprie etichette. L’iniziale del nome del vino, infatti, viene evidenziata al centro del packaging nella forma maiuscola, con all’interno della quale una texture di trame che potrebbero ricordare i tralci superiori di una vite. Quello che sembra è uno “scarabocchio” ma che non entra in conflitto con il resto della grafica, anzi, attira l’attenzione con quel pizzico di originalità che mai nuoce a una etichetta di una bottiglia di vino. Originale anche il nome di questo Lugana (o Turbiana che dir si voglia): “Lugliet”. Potrebbe far pensare al mese di luglio, essenziale per la maturazione di queste uve, ma in realtà si tratta del nome geografico/dialettale della vigna relativa alle uve di Lugana dalle quali nasce questo bianco sapido del Lago di Garda. In alto leggiamo il nome, con stemma, della cantina (governata dai fratelli Umberto ed Egidio Loda), in basso le diciture di legge, l’annata, e la doverosa precisazione “vino biologico”. La carta dell’etichetta è di quella tipologia che si definisce “goffrata”, cioè con una trama in rilievo che piace al tatto e che impreziosisce la percezione in generale.

Soffia un Vento Antico e Nuovo in Valtellina


Boffalora, Nebbiolo delle Alpi.


L’azienda e quindi, in un certo senso, la linea dei vini, si chiama Boffalora, nome che viene così commentato dal produttore Giuseppe Guglielmo (nome e cognome): “L'azienda è nata nel 2002. Il nome “Boffalora” nasce dal toponimo di una delle vigne principali dell’azienda e richiama il soffiare del vento: in Valtellina i venti si chiamano Breva e Tivano, di giorno dal lago di Como sale la Breva e di notte in senso opposto scende il Tivano”. Quindi “Boffalora” sta per “boffa” (soffia) “l’ora” (nome del vento, in generale nel nord Italia, che a una certa ora sale da sud come accade alla vera e propria “Ora del Garda”). I vini del Beppe (così viene chiamato in Valle) sono 4 + 1 e hanno tutti dei nomi particolari: i quattro rossi in fotografia, a base Nebbiolo (delle Alpi), più, dal 2021 un rosato in anfora che si chiama Anforosa (crasi molto interessante dal punto di vista semantico). Ma vediamo i nomi in dettaglio: Pietrisco, il top di gamma, immaginiamo che il nome derivi dal tipo di terreno dove viene coltivata la vigna, che in etichetta mostra un antico papiro commerciale della zona; Umo, che sembra derivare da “Uomo” (nobile incontro tra Uomo e Natura, dice il produttore); Runco de Onego, che nasce da una citazione in latino: “Noi, Garaldo e Grima vendiamo la vigna in loco et fundo Andevenno a locus ubi dicitur Runco de Onego…” (da Codice Diplomatico Longobardo, A.D. 1035); la Sàsa, Riserva da vendemmia tardiva a 700mt. S.l.m. Nell’ordine, in queste ultime tre arcaiche etichette, vediamo, un tavolo con calice e bottiglia con lo sfondo del paesello, uno scarabocchio che riproduce una faccia cherubina e un viso triste ma vendemmiante. Scelte a volte bizzarre da parte di un vignaiolo vero e sincero come i vini che produce.

Bacco e il Suo Leopardo, a Cavallo di una Mitica Epoca


Pella, Cabernet Sauvignon, Pella Wine.

Il nome di questo vino rosso che viene dalla Napa Valley ha origini lontane. O meglio, origini diverse: una molto vicina ai due titolari e produttori, Kristof Nils Anderson e sua moglie Jennifer, ovvero la figlia maggiore che hanno deciso di chiamare “Pella” (sì, Pella e non Bella). Ma naturalmente c’è di più, ed esattamente una antica città della Grecia, nella regione della Bottiea, nella Macedonia greca (vicino a Salonicco). Pella fu sede dell’Impero e città natale di Alessandro Magno. Nel 1953 sono iniziati una serie di scavi che ancora oggi stanno portando alla luce mirabolanti opere artistiche di 2000 anni fa, tra le quali il mosaico di un Bacco a cavallo di un leopardo che Pella Wine ha deciso di utilizzare come immagine per l’etichetta di questo vino. La straordinaria scena artistica è stata ritrovata sul pavimento di una villa rinominata “Casa di Dioniso”. Sicuramente per decidere tutto ciò (nome ed etichetta di questo vino) i produttori devono aver accumulato una grande passione per il mondo dell’Antica Grecia e per i suoi miti. Questo Cabernet Sauvignon, del resto, è molto prezioso, ambizioso e raro, visto che se ne producono solo circa 500 bottiglie per ogni annata, diventando anch’esso un mito come il racconto e la cultura che raffigura.


Un Vero Vino Libero (Altro che Chiacchiere)


Libero, Blend di Rossi, Az. Agr. Casagori.

Questo vino prodotto a metà strada tra Montalcino e Montepulciano può considerarsi davvero “Libero”. Lo è di nome, innanzitutto, lo è l’etichetta, molto spartana, semplice, diretta, con quel carattere di scrittura corsivo, appena tracciato e tutte quelle “caravelle volanti” che donano sensazioni di leggerezza, di alterità, di gioia e spensieratezza. E’ un vino libero anche per il fatto che viene prodotto in regime biologico. Vediamo cosa recita in propostito il sito internet del produttore: “E’ il vino Libero di Casagori. Sincero e leggiadro come il vento che spira tra questi filari. Fermentato grazie a lieviti indigeni senza controllo della temperatura con un 5% di raspi interi. Dopo una lunga macerazione pellicolare, il vino affina per 12 mesi in tonneaux da 500 lt di rovere francese, esausti”. Un po’ di poesia, nel descrivere un vino, non guasta mai. Ma anche qualche dovizia tecnica per i più avvezzi. L’azienda si trova a Pienza e in tutta la proprie comunicazioni manifesta una certa genuinità di intenti e di di filosofia. Le etichette si fanno notare per questo tratto (anche quello relativo alla parte illustrata) immediato, quasi bambinesco, davvero poco serioso, mancante quindi di credibilità “tattica”, ma dotato di molta empatia. Il vino, come la sua comunicazione, deve essere sempre un’alchimia di elementi. Che portano ad un assoluto che sfocia nel bicchiere e nel godere, del  buon bere.

Un Castello Molto Rappresentativo, in Due Tratti


Peverelli, Rossese di Dolceacqua, Mauro Zino.

In questo caso quello che potrebbe sembrare il nome del vino è in realtà una zona vitata di particolare pregio: Peverelli. Situata proprio sopra all’abitato di Dolceacqua, a 400 mt. S.l.m. Particolare il nome del vitigno: Rossese di Dolceacqua. Molto localizzato, perché solo lì attorno rende bene a livello qualitativo, nonché viene “autorizzato” dal relativo disciplinare. Che dire di una località che si chiama Dolceacqua, che si trova a pochi chilometri dal mare e che produce ottimo vino? Uno scherzo della topografica e della storia di quei territori. Chi è stato a Dolceacqua, uno dei più borghi più belli d’Italia, non può dimenticare il castello che troneggia sul paese. Emblema anche di questa etichetta che lo rappresenta in modo molto schematico, in linguaggio tecnico, stilizzato. E che stile! Con due o tre tratti di pennello ecco tracciato in basso il corso del fiume, e in alto il perimetro del castello (che fu della casata dei Doria). Altri due brevi segmenti “dipingono” le feritoie o le finestre della torre. Estrema sintesi, che di solito sfocia in bellezza. In questo caso lo ha fatto, con eleganza anche dei colori, laddove le tinte scure aumentano la percezione di qualità (questo in generale, ma non è una legge assoluta). L’azienda vinicola, evidenziata in alto a sinistra, con uno scudo e il sottostante nome del titolare, è davvero piccola, come le produzioni di quelle scoscese colline. Particolari e peculiarità che solo nel Bel Paese si possono ancora trovare.

Vini Atletici con un Marketing Ben Allenato


Les Athlètes du Vin, Gamay, Vin Be Good.

Si tratta di un distributore nato nel 1999 che seleziona produttori, spesso piccoli, e produzioni che ritiene possano risultare di successo presso un pubblico comunque appassionato. Opera prevalentemente con i vini della Loira e propone una gamma di etichette con il comune denominatore degli sport olimpici, disegnati in modo “fumettoso” e quindi divertente. Ginnastica artistica, canoa, judo, ma anche attività ludiche come il surf o il salto con la corda. Nel caso di questo Gamay troviamo una ballerina con un gonnellino rosso fatto di bottiglie. Rosso come il vino che contiene questa bottiglia e che, con leggerezza, si rivolge agli amanti dei rossi delicati e poco invasivi a livello palatale. Questo packaging fa parte senza dubbio di quel genere che induce al sorriso, alla simpatia, allo scherzo, perdendo qualcosa in termini di credibilità “tecnica” ma guadagnando i favori di chi cerca anche la parte relativa all’evasione, nel portare in tavola un vino e successivamente nel degustarlo. Il nome di gamma, “gli Atleti del Vino” lascia presagire l’apprezzamento per distinte caratteristiche che ogni vitigno e assemblaggio può costituire. E induce a generare nel consumatore la volontà di provarli tutti. Anche questo è marketing.

Modernità e Cultura Storica nell’Alsazia di Oggi


BG, Riesling, Domaine Bott-Geyl.

Questo Grand cru d’Alsace, vigneto Schlossberg per l’esattezza, rappresenta una storia tipica di quella preziosa regione vinicola nel nord della Francia (una specie di “terra di nessuno” che ancora parla tedesco), Il nome dell’azienda ci fornisce lo spunto per argomentare questa tipicità: due famiglie storiche i Bott e i Geyl, uniscono in matrimonio due dei loro discendenti ed ecco formata una nuova, più grande, società agricola che mette a frutto le esperienze dei entrambi i ceppi famigliari. Certo, i Bott hanno già nel loro cognome il destino di vignaioli e cantinieri (si scherza, in realtà in francese botte si dice tonneau e in tedesco fass). E sta di fatto che oggi l’azienda, demandata agli eredi fin dal 1775, è ancora fiorente. Fedeli alle tradizioni ma innovativi nel tempo: ne è prova questa etichetta molto moderna, da grafica contemporanea, dove le iniziali dei due cognomi di famiglia diventano segno distintivo, marchio, e praticamente anche nome del vino. Si trovano in bella evidenza, in alto, con un croma arancione e in rilievo, scelta che non manca di farsi notare. Sotto al logo troviamo il nome aziendale per esteso e successivamente, dall’alto verso il basso, la stilizzazione di una vigna. Quindi il nome del Grand Cru, poi il vitigno e l’annata. A lato una fascia sempre in arancione vivido, dove vengono raccolte le ulteriori diciture di legge.  Insomma, una Alsazia che guarda al futuro ma con i piedi ben piantati nelle propria terra d’origine e di elezione. 

Va in Scena il Carnevale di Negrar


Corvina, Cantina di Negrar.

L’etichetta di questo vino prodotto con il vitigno Corvina, della Cantina di Negrar, è una specie di “minestrone illustrativo”, un “carnevale dell’immaginazione” dove vengono messi in scena molti riferimenti geografici e storici. Sicuramente è in grado di attirare l’attenzione per la sua originalità, ma nel complesso, da lontano, sembra più una mescolanza di colori che una narrazione circostanziata. Quando ci si avvicina o si prende in mano la bottiglia, iniziano ad emergere i particolari: nella parte alta troviamo molti riferimenti marini, come balene, timoni, ancore, onde, piovre tentacolari, sia pure mischiate con montagne, nuvole ed altre creature (diciamo creazioni grafiche). Più in basso possiamo scorgere, nel grande mescolame, un alfiere corazzato, vegetazioni varie, antichi mostri, navi e raggi di sole. Insomma, un po’ di tutto senza una andamento logico. Sopra a questa opera grafica molto variopinta leggiamo il nome del vitigno mentre alla base troviamo il nome della nota azienda veneta produttrice, situata in piena area Amarone (di fatto il vitigno Corvina è uno dei principali componenti del noto vino da appassimento). Potremmo definire questo packaging allegorico, certamente molto elaborato, sicuramente colorato e ricco di particolari, esteticamente piacevole. La scelta concettuale va nella direzione opposta a quella della semplicità e della linearità. Ma anche in questo modo ci si può far notare.