Il Bacco-Pascià di un Italiano in Oregon

Solimano, Nebbiolo e Pinot Nero, 
Marchesi Vineyards.

A dispetto del cognome italico, questa azienda ha sede e produzione in Oregon, negli Stati Uniti che si affacciano sul Pacifico. Le origini però sono quelle. Tutto ciò si evince facilmente dai nomi dei vini della gamma di questo produttore. Ne citiamo solo alcuni: Eridano (Cabernet), Giuseppe (Pinot Noir), Valentino (Primitivo), Achille (Barbera), Angiola (Pinot Grigio), Emma (Sangiovese) e altri, tra i quali il “Solimano” che mostriamo qui a sinistra. Franco Marchesi, l’attuale proprietario è originario di Borgosesia, nell’Alto Piemonte. Si è stabilito negli Usa all’età di 22 anni con il pallino di coltivare uve tipicamente italiane (oltre a quelle internazionali necessarie a completare l’offerta qualitativa e commerciale). Ma veniamo al nome di questo vino, Solimano, detto il Magnifico, che fu Sultano dell’Imperto Ottomano dal 1520 in poi. Un sultano turco, in pratica. Certo, in medio oriente si coltivava la vite così come in Enotria, ma le imprese del pascià in questione poco c’entrano con la figura illustrata in etichetta, dove, almeno in apparenza, un Bacco felice ci mostra un grappolo d’uva. Insomma un mix di storia, cultura, popoli e paesi, che alla fine veste questa bottiglia di vino in modo abbastanza arcaico, con stilemi che rincorrono percezioni stereotipate, comunque in grado di attirare paciosi consensi.

Tre Passi tra i Filari delle Colline Monferrine

Tre Passi Avanti, Dolcetto, Cascina Gentile.

Questa cantina che ha sede e vigne al confine tra Piemonte e Liguria (non lontano da Gavi, per intenderci) viene oggi condotta dal nipote del fondatore: Daniele Oddone (in etichetta, in basso lo troviamo con la modalità “cognome e nome” secondo una logica antica, oggi ampiamente superata). Si tratta di un Dolcetto, molto in auge da quelle parti. Il vino si chiama “Tre passi avanti” nome/frase subito seguita dalla precisazione “uno indietro per umiltà”. Scopriamo che nell’insieme si tratta del testo di una canzone del gruppo fiorentino Bandabardò (che dà anche il nome all’album uscito nel 2004). Per completezza delle infomazioni semantiche, il nome di questa band è dichiaratamente un omaggio a Brigitte Bardot. Sulla parte sinistra dell’etichetta si intravvede una trama, un disegno, che rappresenta il filari sulle colline, ma come si può immaginare il protagonista resta il nome, posto esattamente al centro del packaging, in bianco su fondo nero, quindi molto visibile. Sulla destra un tratto rosso a tutta altezza divide la parte allegorica dell’etichetta da quella informativa e legale. In basso, in corsivo, il nome dell’azienda: Cascina Gentile. Si tratta quindi di un’etichetta che possiamo definire creativa, quasi emozionale, sicuramente in grado di incuriosire, con un nome del vino molto originale. Emerge anche un certa semplicità esecutiva che viaggia di pari passo con la genuinità degli intenti e della comunicazione.

Due Simpatiche Canaglie (in Francese ma Piemontesi)

Visages de Canaille, Brut Rosé, 
Cascina Baricchi.

Non si spiega ancora oggi la “passione” dei piemontesi per i francesi. Forse sentono ancora nelle vene sangue transalpino. Tant’è che spesso si trovano vini che hanno nomi in lingua francese. Come questo “Visages de Canaille”, un Metodo Classico Rosé da Nebbiolo al 100%. Siamo proprio nel centro delle Langhe, a Neviglie, presso Barbaresco, dove la tradizione la fa da padrona e i padroni dei vigneti sono i discendenti di viticoltori che qui hanno salde radici. In questo caso parliamo di Cascina Baricchi, oggi guidata da Natale Simonetta, figlio del primo proprietario e imprenditore degli anni ‘70, Giovanni. Traducendo il nome di questo vino, arriviamo a “Facce da mascalzoni”. Che poi sarebbero nonno e nipote, uno di fronte all’altro, di profilo, a formare l’illustrazione centrale di questa etichetta. Oggi il nonno fondatore non c’è più e il figlio ha voluto dedicargli questo vino. Colpisce il fatto che il nome del vino sia in francese ma anche la sua traduzione. Il bello è che in questo modo il produttore si prende un pò in giro autodefinendosi una faccia da mascalzone. Ci sentiamo di riportare anche la bella frase a firma del titolare dell’azienda che si trova nella home-page del sito internet: “...Il vino per me è passione, è famiglia e amici, è calore del cuore e generosità. Il vino è arte, è cultura, è l'essenza della civiltà e l'eleganza del vivere...”. Una bella storia a prescindere dai francesismi.

Banksy (o Chi per Esso) Dedicato a un Vispo Sangiovese

Il Vispo, Sangiovese, Fattoria La Magia.

Per vestire questo Sangiovese prodotto in zona Montalcino, il produttore ha “scomodato” l’artista di strada Banksy. Nel senso che la curiosa illustrazione che si presenta sul packaging è ispirata alle opere estemporanee degl’ignoto writer (di fatto Banksy è molto noto ma nessuno sa chi egli sia). Il vino, che viene arrubricato sotto la denominazione “Toscana Igt”, si chiama “il Vispo”. Nome che come si può dedurre si riferisce sia alle caratteristiche del vino stesso, sia all’intraprendenza del ragazzino raffigurato in etichetta. A conferma di ciò riportiamo qui il commento del produttore che si trova sulla scheda tecnica del prodotto: “Un vino di grande freschezza, prodotto con sole uve Sangiovese, caratterizzato da un frutto vivace e una piacevolezza e gradevolezza che lo rendono adatto per ogni occasione. E... se dentro la bottiglia trova posto un vino giovane ma dal carattere deciso, all'esterno c'è un'etichetta fuori dal comune che si ispira all'artista e writer Banksy, uno dei maggiori esponenti della street art”. Un’altra particolarità di questa bottiglia è che il nome del vino viene scritto con due colori diversi: “Il” in rosso, “Vispo” in azzurro (ma col puntino rosso). Probabilmente si tratta di un vezzo grafico senza particolare significato. Nel complesso l’etichetta ispira simpatia e attenzione. E la bottiglia si stacca così dallo stereotipo in uso, ancora frequentemente, nella zona del Brunello di Montalcino.


Una Provocazione che… Provoca Azione.

Vulva Secco, Sekt (Spumante), Cecilia e Laura.

Non è uno scherzo, anzi è una cosa seria. Non si direbbe a giudicare dal nome di questo vino e dalla illustrazione al centro dell’etichetta. Sembra più una provocazione. Ma infatti in buona parte lo è, perché per generare interesse a volta bisogna “provocarlo”. Cecilia e Laura, due ragazze tedesche, hanno avuto l’idea di commercializzare questo vino al seguito di un evento negativo, ed ecco come lo spiegano nel sito dedicato alla loro iniziativa: “…abbiamo dato vita a Vulva Secco 2022 perché vogliamo lasciare il segno. Una nostra amica è morta molto giovane di cancro al seno: una perdita indescrivibile per noi che ci ha lasciato un segno profondo. Lei, per Natale, aveva regalato a Cecilia un libro sulla vulva da colorare ed è stata per noi un modello negli argomenti femministi e nelle discussioni sull'uguaglianza. Dal nostro dolore è nata l’idea di voler creare qualcosa per donare i nostri profitti ad organizzazioni che promuovono la ricerca sul cancro e sostengono le persone colpite. Così è nato Vulva Secco, un omaggio a noi donne e soprattutto alla nostra amica che ora non c’è più. Con Vulva Secco portiamo la vulva al centro di tutte le conversazioni, direttamente sul tavolo. Ciò crea discussioni e conversazioni meravigliose che rompono i vecchi tabù che circondano la vulva”. E’ necessario aggiungere che le due imprenditrici hanno deciso di donare 1 Euro per ogni bottiglia venduta, a due istituti di ricerca sul cancro. Nel loro sito risultano tutti i dati economici di tali donazioni e i profili dei due istituti. Il vino viene prodotto nella regione della Renania-Palatinato ed è un blend dei vitigni Riesling, Müller Thurgau, Kerner e Scheurebe. Iniziativa troppo sfrontata? Il bello di questa idea è proprio il grande divario, la dicotomia, tra la provocazione che sa di scherzo se non di scherno e la grande serietà dell’argomento sanitario trattato e finanziato. In linea generale le provocazioni funzionano.

Eleganza Formale ma non Formidabile

Gabardine, Aglianico, Anna Fendi (Selection).

Fendi, oggi del gruppo LVMH, è un cognome noto in Italia e nel mondo. Lo portano 5 sorelle che hanno creato un impero nel settore della moda: Alda, Franca, Carla, Paola e Anna. Quest’ultima (in questo elenco, ma in realtà è la secondogenita) si è dedicata nel tempo anche ad altre attività creative, come le collezioni di servizi per la tavola e, con il compagno Giuseppe Tedesco, anche una selezione di vini italiani. I nomi sono tutti legati al mondo della moda: l’Aglianico che presentiamo qui in fotografia si chiama Gabardine, ma nelle gamma troviamo anche Loden (un Gewurztraminer), Flanella (un Pinot Grigio), Bolero (un Barolo), Broccato (Montepulciano d’Abruzzo), Negligé (Brunello di Montalcino), Lamé (Prosecco), etc. L’idea di nominare i vini con termini legati a tessuti ed abiti risulta molto originale, anche perché il vino, in effetti, con le sue trame olfattive e gustative può ricordare corrispondenti tessiture d’abbigliamento. Ci piace in modo particolare questo “Gabardine”, termine piuttosto desueto ma molto elegante. Vediamo cosa dice Treccani a tal proposito: “ġabardìn” in francese ma anche dallo spagnolo “gabardina”, derivato di gabán, “gabbano”, incrociato con tabardina, diminutivo di tabardo o “tabarro”. In generale stoffa di lana o cotone, per lo più tessuta a diagonale, adatta per abiti e soprabiti di media pesantezza, facilmente impermeabilizzabile. Per estensione semantica viene definito così anche il soprabito stesso”. Creativo il nome ma poco fantasiosa l’etichetta: solo scritte centrate con un marchio che sa di antico. Nulla più.

L’Occhio di Dio, o Forse della Ferragni

Sonnweiler, Chardonnay.

Il vino si chiama come la cantina, o viceversa. Personalmente abbiamo tradotto (un po’ poeticamente) Sonnweiler con “spicchio di sole”. Siamo in Italia, anche se i soci di questa cantina si ostinano a chiamare quella zona “south tyrol” (il sito internet è in inglese, forse per par condicio). Le etichette dei vini in gamma, come si può vedere nell’esempio che riportiamo qui a sinistra, sono molto vistose. E no, non si tratta del celebre occhio di Chiara Ferragni, diventato suo marchio e simbolo, ma è abbastanza simile, e sicuramente molto attenzionale. Un occhio così lo vedi a molti metri di distanza: marketing primario dello scaffale. I titolari dell’azienda si professano anche amanti del design, oltre che del buon vino biologico. Infatti questa coloratissima illustrazione sembra uscita dai manuali di grafica degli anni ‘70, ‘80, ‘90? Insomma è una di quelle soluzioni grafiche senza tempo. Non contenti della centralità dell’occhio, anche il nome Sonnweiler ha il suo centro di attenzione con una specie di mirino dentro alla lettera “o” (che riprende la pupilla dell’occhio magico). Il mantra aziendale recita: “for sunny, happy people” puntando sui giovani, a quanto pare (anche se si può essere soleggiati e felici anche da vecchi). Cosa aggiungere? Che sicuramente si tratta di un packaging ad alto coefficiente di originalità. Trasgressivo e irriverente nel mondo del vino. Ma qualcuno deve pur avere il coraggio di farlo.

Un Passito Cosmico con un Occhio Critico

Cosmos (Côteaux du Layo), Chenin, Pierre Menard.

In tutta la gamma mondiale di vini, ne esistono decine che si chiamano “Cosmo” o “Cosmos”, per averne la prova basta fare una semplice ricerca in rete. Ne abbiamo scelto uno che in ogni caso può vantare altre particolarità (visto che il nome del vino non è proprio originalissimo). Ma partiamo dal cosmo. Secondo Treccani “…dal greco kòsmos, inteso come l’intero universo, ivi compresa la terra, considerato un tutto armonico e ordinato; nella concezione degli antichi greci, l’universo fisico ordinato, contrapposto al disordine del caos”. Le particolarità di questo vino: come prodotto si tratta del vitigno Chenin botritizzato, ad ottenere quello che possiamo definire un passito (con ben 160gr/l di zuccheri) prodotto in meno di 1000 bottiglie l’anno. Per quanto riguarda l’etichetta, salta subito all’occhio… un occhio, nella parte alta, dal quale si diramano gli schemi di alcune tra le costellazioni più note del nostro firmamento. Sotto l’occhio (forse quello di Dio?) si estendono in modo ordinato le diciture di norma e di comunicazione: denominazione, nome del vignaiolo, luogo di coltivazione e produzione. Nel complesso si tratta di un packaging molto semplice, ma con una illustrazione in grado di attirare l’attenzione. Il nome, sia pure inflazionato, conserva il suo fascino ancestrale.

Dare Rilievo al Verdicchio (dei Colli di Jesi)

Doroverde, Verdicchio, Tombolini.

L’azienda, che produce da generazioni il Verdicchio dei Castelli di Jesi, ha sede a Staffolo e in questa bottiglia ha deciso di rimarcarlo in modo originale. Nella parte centrale dell’etichetta, infatti, vediamo, in rilievo, la mappa vista dell’alto del paese stesso, con una iscrizione che riporta a una fortificazione che circonda il nucleo centrale di case: “Torrione Albornoz Staffolo”. La carta scelta per questo packaging è di pregio, e anche le parti non in rilievo regalano alla vista una texture valorizzante. Bella l’impaginazione che richiama uno stile antico ma attualizzato. Elegante la scelta del verde per alcune diciture nella parte bassa. Prezioso il carattere di scrittura del nome del vino, che per la cronaca è “Doroverde”. Un nome che allude alla vegetazione delle meravigliose colline marchigiane, impreziosito da una “doratura” che dona preziosità e sensazioni di eleganza. Con un certo orgoglio, giustamente, sopra al nome dell’azienda, oggi portata avanti dai figli di Fulvia Tombolini, leggiamo “Casa fondata nel 1921”. Non si tratta di una data sorprendente, nel mondo del vino, in Italia, ci sono aziende molto più antiche, ma tanto basta a sottolineare che c’è una bella storia di famiglia che si è tramandata da nonno a nipoti e così via.

La Storia e la Cultura si Fanno anche in Vigna

Falanghina, Guido Marsella.

Stiamo parlando di un piccolo produttore di Summonte in provincia di Avellino, specializzato in Fiano ma che produce anche una Falanghina, qui raffigurata. Il vino non ha nome: campeggia in alto e con importanza dimensionale, il nome del produttore. Guido Marsella, con la sottostante specifica “viticoltore”. L’etichetta in questione presenta in modo evidente le sue particolarità: in alto una sagoma imita la geologia montuosa dell’Irpinia. Il cognome del produttore si avvale di un carattere e di una modalità grafica da major di Hollywood, bello. Al centro verso il basso una illustrazione da stampa antica attira l’attenzione per le nudità dei due protagonisti, un uomo e una donna, che reggono dei grappoli d’uva. L’effetto generale non è solo attenzionale, le figure trasmettono anche qualcosa di storico, di tradizionale, oltre che campestre e agricolo. Quella infatti è una zona dove secoli, forse millenni, di viticoltura hanno forgiato quelle che ancora oggi sono le pratiche che consentono di produrre vino di ottima qualità. La buona tavola tipica della Campania, e la convivialità di quelle genti, insieme la vino, completano un panorama che tutto il mondo ci invidia. 

Sangiovese Vitigno di Montagna?

Romignano, Sangiovese, (Tenuta Romignano).

Un Sangiovese aretino (sede dell’azienda in località Loro Ciuffenna) con uve fiorentine (luogo della vigna: 20 km a sud di Firenze). Vitigno certamente toscano (ma anche romagnolo), orgogliosamente autoctono. Certo che le montagne che si vedono in etichetta sembrano invece appartenere ad altre zone, come ad esempio le alpi Apuane, alle spalle di Forte dei Marmi (sempre Toscana, no problem). Si vedono anche due larici che come habitat corrisponderebbe all’Alto Adige, ma non importa. Sicuramente è uno strano scenario quello illustrato in questo packaging. In basso, molto in piccolo, qualcosa di interessante: vediamo un condottiero a cavallo, di fronte ad un bambino che ha con sé un condottiero giocattolo del tutto simile a quello vero (cioè a quello più grande), sotto a questa scena illustrata troviamo una frase in latino. Ma ecco la spiegazione fornita dall’attuale titolare dell’azienda vinicola (che è anche agriturismo) nel propio sito internet: “Il logo nasce dalla mia volontà di rassicurare mio padre sulla continuazione della nostra parte di paradiso. Il cavaliere rappresenta mio padre, il bambino che lo guarda con ammirazione sono io. E a mia volta tengo in mano le redini di un piccolo cavaliere che rappresentano i miei figli. La frase in latino di Seneca racchiude l’ultima conversazione che ebbi con mio padre: “Videbis nihil in hoc mundo extingui” - Guarda che niente al mondo finisce”. Il vino invece finisce. Soprattutto quando è buono!

Antigone, un Nome che è una Tragedia

Antigone, Liatiko, Domaine Economou.

Partiamo dalla ricca storia professionale di Yiannis Economou, titolare ed enologo di questa cantina che si trova sull’isola di Creta: “…con una laurea in enologia ad Alba, anni di lavoro in cantina in Germania e a Bordeaux (Chateau Margaux) oltre che in Piemonte, sotto la guida di maestri del Nebbiolo come Ceretto e Scavino, torna a Creta nel 1994”. Insomma, l’esperienza non manca e nemmeno la voglia di fare qualcosa di grande con i vitigni autoctoni della Grecia. Ed ecco quindi “Antigone”, uno dei vini prodotti e commercializzati dal Domaine Economou. Il vitigno si chiama Liatiko, il costo della bottiglia è impegnativo (oltre 100 Euro), il regime agro-enologico è biologico. Veniamo quindi al nome del vino: “Antigone”. Si tratta di una tragedia di Sofocle. Giudicate voi il “grado” di tragicità (da Wikipedia): “L'opera narra la vicenda di Antigone che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice, pur contro la volontà del nuovo re di Tebe, Creonte, che l'ha vietata con un decreto. Polinice, infatti, è morto assediando la città di Tebe, comportandosi come un nemico: non gli devono quindi essere resi gli onori funebri. Scoperta, Antigone viene condannata dal re a vivere il resto dei suoi giorni imprigionata in una grotta. In seguito alle profezie dell'indovino Tiresia e alle suppliche del coro, Creonte decide infine di liberarla, ma è troppo tardi perché Antigone nel frattempo si è impiccata. Questo porta prima al suicidio del figlio di Creonte, Emone, promesso sposo di Antigone, e poi della moglie Euridice lasciando Creonte solo a maledirsi per la propria intransigenza”. Insomma, una catastrofe famigliare. Forse conviene bere per dimenticare.

Un Verdicchio da Gustare con i Polpastrelli

Caecus, Verdicchio di Matelica, I tre monti. 

A prima vista, volendo gradire un gioco di parole, questa etichetta appare subito molto particolare: i noti caratteri puntinati dell’alfabeto Braille attirano l’attenzione. Ed è proprio tutto improntato gli occhi e al vedere, il packaging di questo Verdicchio di Matelica. Il nome innanzitutto, “Caecus”, che in latino significa cieco (ma anche oscuro, tenebroso, pieno di incognite). Ebbene, il tutto risulta essere un omaggio dell’azienda agricola “I tre monti” ad un avo dell’attuale proprietario, Lorenzo Montesi. Uno zio di quest’ultimo, infatti, Monsignor Luigi Pettinelli, missionario in terre lontane, in tarda età tornò alle origini ritirandosi presso il suo casale e i suoi terreni, costretto a leggere e scrivere in Braille a causa di una incombente cecità. Si tratta di un elaborato molto particolare, una “sottolineatura” al problema di chi non può vedere forme e colori di una etichetta, ma solo tastarne la consistenza e il rilievo. Al tempo stesso una immagine di questo tipo incuriosisce per la sua originalità anche chi la può vedere normalmente. Per quanto riguarda la grafica, risulta molto elegante, i caratteri di scrittura normali e puntinati si stagliano su un fondo nero austero ma stiloso. In fin dei conti si tratta di un pretesto, ma che ha un fondamento nella storia di famiglia.

La Lippa e la Barbera, Ovvero un Gioco da Ragazzi

La Lippa, Barbera d’Asti, La Gironda.

Il tema di comunicazione di questa etichetta è la raffigurazione e il nome di un antico gioco dell’infanzia, praticato cioè dai bambini: la lippa. Nel packaging infatti vediamo un infante del secolo scorso (per come è vestito) intento in una mossa tipica di questo gioco. Ma vediamo cosa ci dice Treccani in proposito: “Gioco consistente nel far saltare in aria un corto bastoncino (detto anch’esso lippa) percuotendolo con un bastone più lungo su una delle estremità appuntite che lo caratterizzano, e nel colpirlo poi al volo per mandarlo il più lontano possibile. Praticato soprattutto in passato, è noto regionalmente anche con altri nomi (romanesco “nizza”, veneziano “pàndolo”, ecc.)”. Curioso osservare che a Roma questo gioco si chiama “nizza” e il luogo dove ha sede l’azienda vinicola in questione è Nizza Monferrato, patria della Barbera di Nizza Docg. Scherzi delle accezioni e dei dialetti italiani, ricchi di sfumature e curiosità. Certamente, dobbiamo aggiungere a proposito di questo nome, si tratta di una parola desueta, riconoscibile solo da persone di un certa età. Infatti oggi questo gioco si è perso nel tempo, sostituito dalle varie edizioni della Play Station. Rimane la sensazione d’antan che questa etichetta, volutamente, vuole trasmettere. Nostalgia di un tempo? Marketing delle tradizioni? Chissà. Il Piemonte, comunque, è sempre molto legato agli usi e costumi di un tempo.

Un Medico Bresciano Sfida l’Abate dello Champagne

Franciacorta Brut, Girolamo Conforti.

Questa giovane cantina formatasi nel 2014, è costituita in realtà da 11 conferitori che coltivano un totale di 30 ettari, sparsi in 9 comuni della Franciacorta. La gamma per ora è abbastanza ristretta e comprende i grandi classici dello spumante Metodo Classico del Lago d’Iseo. Abbiamo un Brut (quello qui raffigurato), un Satén, un Millesimato, un Rosè e una Riserva. L’etichetta è molto “tradizionale”: uno stemma in alto con le iniziali “HC” (vedremo più avanti perché), il nome del produttore (non esattamente un nome di famiglia) e poi una scritta, che attira l’attenzione e che sta in basso, ma in realtà è il “cappello” di tutto il racconto: “1570 Libellus de vino mordaci”. Ed ecco la spiegazione tratta del sito internet della cooperativa: “…non si può non parlare di quella che probabilmente è una delle prime pubblicazioni dedicate al mondo dell’enologia, volta a illustrare quella che al tempo era la tecnica di produzione di vini a fermentazione naturale in bottiglia. Era esattamente il 1570 quando venne dato alle stampe il “Libellus de vino mordaci”, manuale che anticipa addirittura quelle che furono le intuizioni dell’abate Dom Pérignon sulla produzione delle bollicine. Un testo, il “Libellus de vino mordaci”, che ha preso vita dalla penna del medico bresciano Girolamo Conforti, il quale da conoscitore dell’enologia e da esperto degustatore qual era, arrivò a scrivere un elenco di importanti linee guida cui svariati produttori franciacortini, già sul finire del XVI secolo, cominciarono ad attenersi”. Il medico bresciano in questione, sembra che ai tempi si appellasse con Hierolamus ed ecco spiegata la “H” nel marchio. Si tratta davvero di un bel racconto, soprattutto perché ha il coraggio di sfidare i concorrenti francesi dello Champagne, affermando appunto che Don Pérignon ha creato le bollicine dopo di noi italiani! Verità o leggenda, a noi piace.

Un Tranquillo Pomeriggio Bulleggiato

Rosé pour buller, Gamay, Domaine des Canailles.

Ci sono bottiglie che “annunciano” la loro eccezionalità fin dal primo sguardo. A questo funzione assolve naturalmente l’etichetta. Questo packaging nasce a Ternand, all’estremo sud della zona del Beaujolais, a una trentina di km da Lione. Così come il vino, logico, frutto di un Gamay vinificato in rosa. Vino biodinamico, frizzante naturale. Un prodotto particolare, senza dubbio, che meritava un’etichetta originale, come questa che vediamo qui riportata. Il nome del vino è “Rosé pour buller”, gioco di parole laddove “bulle” in francese sono le bollicine. Cosa vediamo? Due persone, si presume una donna e un uomo, stazionano sulle loro sdraio, con un calice di rosé in mano. Dai calici si sprigionano una serie di acini/bolle di color giallo, arancio e violaceo, che potrebbero rappresentare una “nuvola” di bollicine ma anche un grappolo d’uva. Lo stile dell’illustrazione è davvero originale: con pochi tratti, tutto sommato solo accennati, viene descritta e comunicata un’atmosfera di languida serenità da pomeriggio estivo. Il colore fa il suo gioco per attirare l’attenzione, ma il nome e la “scenografia” fanno da intrigante parte integrante.


La Semplicità di Romolo e Remo

Luperco, Montepulciano d’Abruzzo, Casale Certosa.

L’incipit di questa azienda laziale di Santa Palomba (che si può leggere nella home-page del sito internet) è molto interessante: “Noi siamo semplici agricoltori prestati al mondo del vino e pensiamo che l’agricoltura serva per essere usata senza troppi aggettivi nella sua semplicità e nelle sue imperfezioni”. A parte qualche piccola imperfezione nella frase, il concetto è pregnante. Il vino non è perfetto. E infatti quello buono non è (non dovrebbe mai essere) uguale a se stesso, di vendemmia in vendemmia. Stiamo parlando, in particolare di un Montepulciano in purezza che si chiama Luperco, nome che porta sulle proprie spalle, storia, miti e tradizioni. Diciamo subito che per gli Antichi Romani “Lupercus” (derivato da lupus, lupo) è un’antica divinità rurale invocata a protezione della fertilità. In onore di Luperco gli era stata dedicata una grotta, ai piedi del Palatino, dove si narra che vennero ritrovati Romolo e Remo, come si sa, allattati da una lupa. L’etichetta graficamente è molto spartana, lineare, minimalista. Fondo antracite (molto scuro, quasi nero), in alto (per fortuna, almeno quello, “scavato” in bianco) il nome del vino, al centro in basso, quasi invisibile, perché in inchiostro nero lucido, la figura primordiale di un omuncolo. Nome dell’azienda alla base. Possiamo definire questo packaging sicuramente elegante, molto formale, quasi sacrale. Ha un proprio stile, questo sì.

La Danza delle 4 Scimmie (per Procura)

La Danza del Viento, Garnacha, Bodegas 4 Monos Viticultores.

Questa particolare etichetta è stata creata da 4 amici madrileni (Javier Garcia, Laura Robles, David Moreno e David Velasco) che da non molto tempo hanno fondato una azienda vitivinicola. Sapete come si fanno chiamare? Le 4 scimmie viticultrici. Infatti il nome aziendale “4 Monos Viticultores” significa proprio questo, in spagnolo. Sull’etichetta di questo Grenache in purezza però, non ci sono 4 scimmie, bensì 4 ancelle, poco coperte se non fosse per qualche fiore in testa, che danzano riti dionisiaci. Il nome del vino in maggiore evidenza non è “La Danza del Viento” (almeno secondo le dimensioni ottiche che si vedono nel packaging), ma “La Isilla”, nome della parcella, solo 1 ettaro (solo 1000 bottiglie ogni anno) con viti di oltre 90 anni a 860mt s.l.m, dove viene coltivata l’uva che poi darà vita a questo vino. Visto che quella che viene rappresentata in etichetta è indubbiamente una danza, crediamo che il nome ufficiale del vino possa essere proprio quello inneggiante al minuetto in abiti adamitici che, con ironia tutta iberica, si è deciso di raffigurare. E come si dice da quelle parti: salud! (se invece un commensale starnutisce non si dice “salud!” ma “jesus!”, bizzarrie dei popoli).

Mani di Vellluto in Catalogna

Garoina, Chardonnay, Celler Oliveda.

Ci vuole una certa perizia nel maneggiare i ricci di mare, e in questo caso, sembra, anche senza alcuna protezione. Ma partiamo del nome del vino, “Garoina” che in Catalano indica appunto il noto e ricercato mollusco dai pericolosi aculei (soprattutto se al posto della mani ci mettete un piede). Le vigne aziendali si trovano sotto ai Monti Albères, in località Capmany, proprio sul confine con la Francia. Il terreno è composto in prevalenza da “sauló” una sabbia granitica caratteristica della zona (lo Chardonnay è un “jolly”: cresce proprio dappertutto!). L’etichetta colpisce immediatamente per i toni scarlatti del mollusco, e poi impressiona la mano di donna che, con grazia, lo regge. Null’altro che il nome su fondo bianco in basso a destra. Un packaging d’impatto che contiene un consiglio d’uso e al tempo stesso fa gioco a se stesso generando empatia e attenzione. Prezzi contenuti come ancora oggi la Spagna (pardòn, la Catalogna) ci insegna. Un progetto che risplende nei toni cromatici, nella semplicità della grafica, e restituisce in comunicazione tutto il sole di quella costa arida nel terreno ma ricca di vita in ogni luogo.

Una Dama Rossa che fa Sognare

Macvin du Jura, vino liquoroso, Les Dolomies.

Il nome di questo vino che è anche il nome della categoria di prodotto (la qual cosa non va molto bene in comunicazione) ha una storia particolare, legata alla sua produzione. Si tratta infatti di un vino liquoroso costituito per 2/3 da mosto d’uva e per 1/3 da distillato (il Marc du Jura, corrispondente alla nostra grappa). Il nome, dicono ufficialmente le corporazioni del luogo, deriva dall’unione delle parole Marc e Vin (però i conti non tornano, manca una “r”, ma soprassediamo). Quello che ha attirato la nostra attenzione è la splendida illustrazione ad acquarello che troviamo sulla sinistra dell’etichetta: impossibile non notarla, grazie anche all’intensa colorazione. Raffigura una donna nell’atto di prendere oppure offrire o anche solo ammirare una bottiglia di vino che tiene nella sua mano sinistra. Il volto è completamente assente, ovvero non è per nulla particolareggiato, ma l’immagine fa sognare, fa “immaginare”. Il vestito è bellissimo, la donna è sicuramente bellissima, la scena e le circostanze sono sicuramente bellissime. Lo dice la nostra fantasia. Ed è la dimostrazione di quanta efficacia ci può essere in un idea (e in un bel tratto artistico). Un ultimo accenno all’azienda, biodinamica, nel cuore di quella regione vinicola ancora tutta da scoprire, lo Jura. Il produttore, una coppia di illuminati vignaioli, si chiama Les Dolomies, termine che in quella zona sta a indicare la tipologia di terreno, costituito in gran parte da calcare ricco di magnesio. Bravi.

La Foglia di Fico e Tante Altre Storie

Riserva del Fico, Barolo, E. Molino.

Avete 100 euro da spendere? Ecco un Barolo che potrebbe corrispondere al vostro budget. A parte il costo, si tratta di un Barolo che non vuole nascondersi dietro una foglia di fico (anzi, la utilizza in etichetta e nel nome). Il packaging ha uno stile che si fa notare. Davvero molto “vintage”, di quelli che sia pure in questa zona “arcaica” non ne fanno più. Attenzione però, in basso a destra sbuca un simbolo che è di per sé un segno di (coercitiva) modernità: il famigerato QR Code che ormai dilaga in ogni ordine di prodotto e di comunicazione. Siamo di fronte a un caso di antico-moderno? O ancora meglio di moderno-antico? Certo che quella foglia di fico in primo piano, per di più verde, non si direbbe adatta a una tipologia di vino come questo, ormai sdoganato come simbolo di virtuosa eleganza in tutto il mondo. A meno chè, teoria che va per la maggiore, l’etichetta risalga davvero a un secolo fa o forse più. Nel suo complesso siamo in quel sempre più ristretto campo degli inflessibili tradizionalisti. E perché cambiare uno status quo che funziona da decenni? La “Riserva del Fico” continua il suo ormai nobile percorso verso la glorificazione. E gli appassionati degustano e ringraziano (quasi tutti).

Un Barolo che si Inchina alle Erbe Officinali

Barolo Chinato, Ceretto.

Molto particolare questa etichetta di Ceretto, dedicata alla propria interpretazione del Barolo Chinato, un prodotto d’eccellenza, tipico delle Langhe. La preziosità delle soluzioni in bronzo/oro si sposa con la praticità delle descrizioni delle erbe, lungo tutto il perimetro dell’illustrazione. Ceretto non si accontenta di aggiungere la China al proprio Barolo: le erbe (di Langa, viene specificato da una dicitura a monte dell’illustrazione) sono almeno 13, tutte indicate, vicino alla relativa stilizzazione, col loro nome scientifico. Le scritte sono molto piccole, forse meritavano qualche decimo di millimetro in più. Tra queste riusciamo a scorgere, ad esempio, la Valeriana Officinalis, l’Iris Fiorentina, la Menta Piperita. Insomma un insieme di estratti benefici che uniti alla bontà del vino, rendono importante questo prodotto. L’etichetta risulta preziosa, fornisce sensazioni di artigianalià, suggerisce un uso centellinato del nobile intruglio e certamente il nome del produttore, molto stimato, funge da garanzia di qualità.

Lieti e Ottimi Calici alla Cascina del Buonumore

Cascina del Buonumore, Nebbiolo, Barbaglia.

Il buonumore: che grande risorsa personale e, potenzialmente, filosofica e socialmente utile! Il nome che contraddistingue questo vino a base Nebbiolo (da monovigneto) dell’Alto Piemonte, rispecchia il carattere e l’indole anche professionale di chi l’ha pensato e creato. Stiamo parlando di Silvia Barbaglia, vignaiola per davvero, di quelle che ci mettono la faccia e le mani, anima e corpo, in vigna anche in pieno inverno, non per farsi fotografare in pose studiate, bensì per accudirla al meglio. Ed ecco quindi la Cascina del Buonumore, sede dell’azienda e ameno luogo (nei pressi del Santuario del Santissimo Crocifisso di Boca) circondato da vigne a perdita d’occhio e stanziato su una terra che testimonia e racconta di un antico vulcano. Al centro dell’etichetta troviamo una illustrazione che riproduce al tratto la cascina stessa. In alto il logo scudato e il nome aziendale. Pochi e chiari elementi che nel packaging presentano come protagonisti concettuali la convivialità e il benessere che la cura e la passione, quindi la qualità di questo vino, sapranno certamente evocare, con lieti calici, anche a tavola. 

L’Etna, Polifemo e i Faraglioni (quelli Siciliani)

Fermento Siciliano, Nerello Mascalese e Cappuccio, Cantine Madaudo.

Questo vino fa parte della serie “Sicilia Illustrata” e infatti tutto lo spazio disponibile sull’etichetta viene occupato da una illustrazione, molto bella, che raffigura il Ciclope Polifemo mentre scaglia un masso in direzione della nave di Ulisse. Questo narra il mito che tutti conoscono e che nasce proprio alle pendici dell’Etna, dove allignano i vigneti di questa azienda, precisamente a Randazzo. L’immagine è forte, grazie anche al colore rosso dominante e alla dinamica da fumetto alla Diabolik. Alle spalle del Ciclope vediamo anche il vulcano che erutta lava (questo, almeno, a noi sembra). C’è tutta la forza e l’energia di un territorio che racconta sé stesso con la storia e anche l’attualità di un Etna che ogni tanto, effettivamente, fa ancora sentire la sua voce. La vicenda di Polifemo è nota ai più. Valga come conferma la vista dei Faraglioni dei Ciclopi ad Acitrezza. Da parte dell’azienda, aver “cavalcato” il mito di Polifemo fornisce un riferimento geografico molto preciso, consente di utilizzare anche la fama del vulcano come volano di comunicazione e fa sognare gli “spettatori” con un frame di grande effetto che difficilmente si farà dimenticare. Bravi.

Semplicità, Forza e Orgoglio Friulano

Friulano (Collio), Kurtin.

Stiamo parlando di un vino e di un’azienda italiani, sia pure al confine con la Slovenia. Colpisce quindi, innanzitutto, quella scritta in alto, “Kurtin”. In effetti si tratta del cognome della famiglia che dal 1906 gestisce un’attività agricola prima, e successivamente solo vitivinicola. Difficile trovare la lettera “K” in un cognome italiano, ma in questa zona, nel Collio, le storie e le culture si mescolano. L’azienda ne ha fatto un simbolo: infatti la K diventa logo scudato (non visibile qui in etichetta). Colpisce anche quella luna dorata che sovrasta un gradevole disegno al tratto dove un ragazzo e un uomo adulto (padre o nonno) ammirano il panorama rurale. Molto bella la frase di accompagnamento che troviamo alla base del disegno: “Il vino dei padri, succo della nostra memoria, storia che ci disseta”.  Un poetico riferimento alle generazioni che si sono susseguite nel corso del secolo scorso, alla guida dell’azienda. Un omaggio a chi è venuto prima e che ora viene ricordato come colui che ha spianato la strada alle rinnovate passioni. E’ un’etichetta semplice, chiara, senza pretese di voler rappresentare qualcosa di prezioso o aristocratico. Il vino è terra, è contadino, è lavoro e tradizione. Sia per chi lo produce, sia per chi lo beve. Con tanta buona ragione e salute per tutti.