Una Barbetta Tutta Naturale


Assenza, Barbetta (Barbera del Sannio), Nicola Venditti.

Il nome di questo vino è una dichiarazione di intenti. E al tempo stesso uno svolgimento del tema, con impegno e serietà: si tratta infatti dell’Assenza di solfiti e anche di lieviti selezionati (quindi si utilizzano solo lieviti autoctoni, presenti sulle bucce e nell’ambiente naturale) e di enzimi vari. Il produttore, della zona del beneventano, ha voluto così ribadire il proprio impegno sulla genuinità. Quindi non “Essenza” come molti vini si appellano (fin troppi), bensì “Assenza”, da leggersi come un primato non come negatività (certo, il rischio c’è). In basso, in questa etichetta dal carattere contemporaneo, diciamo “moderno”, e dalle forme futuriste, troviamo il nome del vitigno (nome locale), la Barbetta. Si potrebbe credere che il nome del vino possa essere questo, ma in verità è quello in alto. Al centro troviamo il nome e il logo dell’azienda, Venditti e una piccola scritta aggiuntiva: “Antica Masseria dal 1595”. Rosso Ferrari per il packaging di questo rosso, le forme stilizzate, crediamo, di una vite, sia nella texture dell’etichetta sia nel logo in piccolo. La linea comprende anche una Falanghina dei toni cromatici in arancione (sullo sfondo nella fotografia). Grafica originale, nome fattuale, vino… eccezionale (dicono gli esperti).

La Solitudine dei Nomi Importanti


I Am Not a Big Wine, Riesling e Chardonnay, Nestarec.

L’esercizio minimalista del noto produttore Milan Nestarec non convince fino in fondo. In comunicazione si potrebbe definire come “negative approach” questo nome che inneggia (con una certa arroganza grafica, poi vediamo) a una finta modestia. Questo vino bianco dalla Cechia vuole essere il simbolo di un minimalismo sano e genuino (e questo lo comprendiamo benissimo), della gioia di stare a tavola con gli amici, in semplicità, con tante cose buone sulla tavola. Ed ecco che il minimalismo si rispecchia in una etichetta molto “vuota” (ma anche pulita, certo) dove vengono enfatizzati il nome del produttore (in corsivo) e l’originale nome del vino, in neretto molto vistoso alla base del packaging. Sicuramente si tratta di una scelta grafica originale, con la funzione di farsi ben notare sullo scaffale, ad opera di una visione focalizzata su due elementi soltanto. La carta dell’etichetta è invece preziosa, rugosa, tattile, non banale. Ci sono aziende che possono permettersi questa leadership comunicativa e altre meno. Sicuramente la fama di questo ottimo produttore gli consente di divagare in modo estroso nella produzione di etichette fuori dal comune. Così come vuole essere fuori dagli schemi tutta la filosofia imprenditoriale e organizzativa. 

Una Faccia Strana Tra il Serio e il Bislacco


Bislacco, Colline Pescaresi Igt, Platinum Italia.


Davvero strano il nome di questo vino, cioè… “Bislacco”. Parola desueta che vale la pensa di sondare con l’aiuto di Treccani: “Aggettivo (forse dal dialetto veneto bislaco, soprannome che si dava ai Veneti del Friuli e agli Slavi dell’Istria, dallo sloveno bezjak ‘sciocco’). Stravagante, strambo; riferito sia alla persona sia alle sue manifestazioni”. Non un nome qualunque, quindi. La sua rarità nel parlato italiano alla fine si fa notare. E forse quella rappresentazione artistica al centro dell’etichetta conferma il concetto: un faccione tra il futurista e il contemporaneo strapassato (e strapazzato). L’azienda si esprime nei territori che comprendono le colline teramane (a Corropoli), anche con vini e vitigni di zone limitrofe, e nasce ad opera di tre amiche nel recente 2012 con 35 ettari agli attivi. Interessante la descrizione delle velleità aziendali (in fatto di comunicazione) che si può reperire in rete: “Creiamo personalmente il design per la nostra collezione di vini. In ogni etichetta è possibile riscontrare i tratti distintivi del gusto femminile, la mano e lo stile delle tre donne di Platinum e la loro passata esperienza nel settore tessile italiano. Ognuna di esse presenta grafiche, decorazioni e nobilitazioni che ricordano merletti, gioielli, tradizione storica, grazie a speciali effetti come punzonature, lamine metalliche in oro lucido, argento, effetti di contrasto lucido/opaco, fustellature che “vestono” i nostri vini con un’immagine particolarmente preziosa”. Il packaging effettivamente sa farsi notare e tanto basta.

Un Cannonau che Vuol Fare l’Americano


One Hundred, Bovale, Cantina (Gianluigi) Deaddis.

Originale, certo, questa etichetta che si presenta con un grande numero 1 in evidenza. Anzi, in grande evidenza. La ragione di questo nome, “One Hundred” o, se vogliamo, “1 Hundred” sembra essere la celebrazione di un’annata particolare, infatti nel sito del produttore leggiamo: “Un'annata speciale ha reso questo vino unico ed inimitabile, intensi profumi di macchia mediterranea esprimono in questa bottiglia straordinarie sensazioni”. Non è dato a sapersi l’annata in questione. Rimane il numero 1 in primo piano, in colore azzurro, a sancire anche una specie di primatismo. Il vitigno è di quelli assolutamente autoctoni, il Bovale, detto anche Muristellu, nell’idioma locale. Ma torniamo all’etichetta e alla sua grafica. Alla base del numero 1 troviamo il logo dell’azienda: delle iscrizioni rupestri tipiche dei nuraghi, simbolo di quella zone di Sardegna. Il fondo nero fornisce eleganza, i contorni in oro anche. Con il limite che queste cromìe potrebbero essere assimilate a un certo stile funerario. La capsula color granata sul collo della bottiglia stona un po’ e anche questo vezzo di utilizzare un nome in inglese, soprattutto in un discorso generale di territorialità, non si comprende fino in fondo. Ultima osservazione: il dominio internet e in generale le diciture di comunicazione recitano “Cantina Deaddis”, mentre sulla bottiglia, si legge “Cantina Gianluigi Deaddis”. Smagliature.

Col Tavolino tra le Colline Storiche dell’Umbria


Macinaia, Calcinaio e Rondolaio, Conti Salvatori.

Belle etichette e nomi interessanti per questa linea di vini umbri sotto l’egida della poco conosciuta Doc Colli Altotiberini. La zona è quella dei dintorni di Perugia e i vini in questione sono un mix di internazionalità e regionalità, dal sito del produttore: “Macinaia, un’unione di Chardonnay e Grechetto che si presenta al gusto molto fresco, pulito, elegante e di buon corpo; il Calcinaio, prodotto da uve Sangiovese, che generano un gusto di una freschezza meravigliosa, fragrante, suadente, con una spiccata acidità, ma di una bellissima armonia gustativa; e infine Rondolino, un Cabernet Sauvignon che fa sentire i suoi muscoli e la sua elegante complessità, mantenendo magistralmente un ottimo equilibrio ed un piacevolissimo finale lungo e persistente”. Di questi nomi solo uno è di fatto nel vocabolario (al femminile): la calcinaia infatti, secondo Treccani, è la “…vasca a pareti impermeabili nella quale si spegne la calce viva per trasformarla in grassello”, oppure anche la “…vasca dove si mettono a macerare le pelli in latte di calce per conciarle”. Gli altri due nomi di questi vini sembrerebbero frutto di assonanze neologiche: “Macinaia” (dove si macina il grano?) e Rondolaio (dove nidificano le rondini?). Eleganza a sfondo scuro, con della belle illustrazioni per queste tre etichette, che si rivelano nella parte bassa. Si ispirano alla storia dei luoghi e delle conquiste territoriali in particolare, infatti: “… i Conti Salvatori entrano in possesso della Tenuta Coltavolino nel 1695. I fratelli Orazio e Giuliano Salvatori, dopo aver combattuto al fianco dell’ Imperatore Leopoldo I d’Asburgo contro gli Ottomani, ottennero, per meriti di guerra, i territori di Coltavolino e Montacutello e il titolo di Conti del Sacro Romano Impero”. Da notare il nome della Tenuta: “Coltavolino”, che si potrebbe leggere come “colle tavolino”, ma anche, ironicamente, “col tavolino”, quasi fosse una istigazione per un pic-nic in vigna.

Nobile di Nome, Sangiovese di Fatto


Vino Nobile di Montepulciano.

Perché un vino con un nome così importante (nome di denominazione, intendiamo, cioè nome del vino in senso lato) non ha raggiunto vette di notorietà come altri in Italia (ad esempio l’Amarone, il Brunello, il Barolo che, se vogliamo, hanno nomi meno sontuosi)? La parola “nobile”, infatti, basta da sola a fornire un concetto elevato di qualità. Eppure il Vino Nobile di Montepulciano non scala ancora oggi le classifiche dei vini più rinomati. Forse per quella questione della confusione territoriale e ampelografica con il Montepulciano vero e proprio? Ricordiamo che il Vino Nobile di Montepulciano (comune toscano di produzione) è costituito al 70% dal vitigno Sangiovese (e per il resto da altri vini autorizzati in Regione), mentre il Montepulciano vero e proprio è un vitigno che si chiama così e che alberga prevalentemente in Abruzzo. Certo che la possibilità di confondere i due vini è notevole, per i non addetti ai lavori. Si tratta quindi di un caso (il Nobile) di vino che non avrebbe bisogno di un nome vero e proprio, presentando, per legge, in etichetta, il suo altisonante nome “tecnico” e fungendo questo da indiscutibile richiamo mnemonico e semantico a percezioni di notevole caratura. Diamo la colpa di questo mancato successo commerciale anche al Consorzio e al marketing che (non) è stato sviluppato? Chi lo sa? Di fatto il vino è molto buono, per quelle produzioni di aziende storiche e qualificate. E tutto sommato la tavola non è uno scaffale.

Le Calende Piemontesi al Sapor di Nebbiolo

                            

Le Calende, Nebbiolo d’Alba, Terre del Barolo.

Stilisticamente bella questa etichetta da GDO del produttore Terre del Barolo. La linea, che comprende anche altri vitigni oltre a questo Nebbiolo, si chiama “Le Calende”. Nella percezione generale le calende sono collegate a quelle greche (che di fatto sono quelle romane, da qui “calendario”). Ed esattamente, secondo Wikipedia: “ La locuzione italiana ‘alle calende greche’, derivante da quella latina kalendas graecas, ha il significato metaforico di "mai". La frase ‘ad kalendas graecas soluturos’ ("intenzionati a pagare alle calende greche") è attribuita all'Imperatore Augusto che ne avrebbe fatto uso di frequente per indicare persone che non intendevano pagare un debito. Il significato di "mai" deriva dal fatto che le calende esistevano solo nel calendario romano, nel quale corrispondevano al 1º giorno di ogni mese, e non in quello greco: protrarre un pagamento fino alle calende greche voleva dire riportarlo ad una scadenza inesistente”. Da sempre nota negli ambienti contadini è la Calenda di Maggio, cioè il primo giorno di quel mese, inteso come vero inizio della bella stagione e quindi atteso spasmodicamente. Il sospetto è che si possano chiamare così anche alcune conformazioni collinari tipiche della zona del Barolo, ma questa è tutta un’altra storia. Da notare, a livello grafico, in questa etichetta, l’appropriato uso degli inchiostri a rilievo che tracciano sia il disegno centrale sia il nome del vino in alto. Bella sintesi, ottima memorabìlia.

Il Massaro, la Massaia e la Masseria


Motula, Primitivo, Masseria Liuzzi.

Da dove può nascere il nome di questo vino? Parola strana, difficile da collocare semanticamente, e infatti deriva da una collocazione topografica, ben spiegata dal produttore stesso nel proprio sito internet: “La “Masseria Liuzzi” sita in contrada Marinara dell’agro di Mottola, nasce oltre un secolo fa come “I Casidd d Liuzzi”, ad indirizzo cerealicolo/zootecnico. Col tempo e nei vari passaggi, l’attuale “Masseria Liuzzi” ha pian piano convertito la sua vocazione agricola nella produzione viticola su circa 10 ettari di terreno, di natura mediamente argilloso/calcareo di limitato spessore, poggiante sui banchi compatti di roccia spesso affiorante in superficie, esposti a Sud ad un altitudine media s.l.m. di circa mt. 270. Nel contesto dei produttori tarantini, ben si colloca l’azienda vitivinicola “Masseria Liuzzi”, che dall’anno 2010, produce direttamente il proprio “Primitivo” I.G.T. in modo naturale rispettando la migliore tradizione contadina”. In un solo, breve, racconto abbiamo appreso le origini del nome del vino, e del nome dell’azienda, entrambi affioranti dalla storia e dalle tradizioni dei luoghi. Non ci rimane che andare a cercare l’origine della parola “Masseria” che Treccani spiega così: “Masseria (o massaria), derivato da massaio (o massaro) cioè l’azienda rurale diretta da un contadino secondo il contratto di colonia parziaria”. Forse da qui anche la parola “massaia”, cioè colei che dirige le faccende domestiche? E infine un commento alla grafica dell’etichetta: spartana, lineare, diretta, pulita, efficace. Null’altro da aggiungere.