Modernità e Cultura Storica nell’Alsazia di Oggi


BG, Riesling, Domaine Bott-Geyl.

Questo Grand cru d’Alsace, vigneto Schlossberg per l’esattezza, rappresenta una storia tipica di quella preziosa regione vinicola nel nord della Francia (una specie di “terra di nessuno” che ancora parla tedesco), Il nome dell’azienda ci fornisce lo spunto per argomentare questa tipicità: due famiglie storiche i Bott e i Geyl, uniscono in matrimonio due dei loro discendenti ed ecco formata una nuova, più grande, società agricola che mette a frutto le esperienze dei entrambi i ceppi famigliari. Certo, i Bott hanno già nel loro cognome il destino di vignaioli e cantinieri (si scherza, in realtà in francese botte si dice tonneau e in tedesco fass). E sta di fatto che oggi l’azienda, demandata agli eredi fin dal 1775, è ancora fiorente. Fedeli alle tradizioni ma innovativi nel tempo: ne è prova questa etichetta molto moderna, da grafica contemporanea, dove le iniziali dei due cognomi di famiglia diventano segno distintivo, marchio, e praticamente anche nome del vino. Si trovano in bella evidenza, in alto, con un croma arancione e in rilievo, scelta che non manca di farsi notare. Sotto al logo troviamo il nome aziendale per esteso e successivamente, dall’alto verso il basso, la stilizzazione di una vigna. Quindi il nome del Grand Cru, poi il vitigno e l’annata. A lato una fascia sempre in arancione vivido, dove vengono raccolte le ulteriori diciture di legge.  Insomma, una Alsazia che guarda al futuro ma con i piedi ben piantati nelle propria terra d’origine e di elezione. 

Va in Scena il Carnevale di Negrar


Corvina, Cantina di Negrar.

L’etichetta di questo vino prodotto con il vitigno Corvina, della Cantina di Negrar, è una specie di “minestrone illustrativo”, un “carnevale dell’immaginazione” dove vengono messi in scena molti riferimenti geografici e storici. Sicuramente è in grado di attirare l’attenzione per la sua originalità, ma nel complesso, da lontano, sembra più una mescolanza di colori che una narrazione circostanziata. Quando ci si avvicina o si prende in mano la bottiglia, iniziano ad emergere i particolari: nella parte alta troviamo molti riferimenti marini, come balene, timoni, ancore, onde, piovre tentacolari, sia pure mischiate con montagne, nuvole ed altre creature (diciamo creazioni grafiche). Più in basso possiamo scorgere, nel grande mescolame, un alfiere corazzato, vegetazioni varie, antichi mostri, navi e raggi di sole. Insomma, un po’ di tutto senza una andamento logico. Sopra a questa opera grafica molto variopinta leggiamo il nome del vitigno mentre alla base troviamo il nome della nota azienda veneta produttrice, situata in piena area Amarone (di fatto il vitigno Corvina è uno dei principali componenti del noto vino da appassimento). Potremmo definire questo packaging allegorico, certamente molto elaborato, sicuramente colorato e ricco di particolari, esteticamente piacevole. La scelta concettuale va nella direzione opposta a quella della semplicità e della linearità. Ma anche in questo modo ci si può far notare.

Il Bifolco, i Buoi e le Stelle (del Garda)


Bifolco, Blend di Rossi, Saottini.

In questo mondo variegato del vino italico si susseguono nomi stereotipati, allegorici, strani, insoliti, sfrontati, a volte anche adeguati, per fortuna. Qui ne abbiamo uno che è il frutto di una scelta davvero particolare: chiamare un vino “Bifolco”. Si tratta di una parola desueta che quasi nessuno pronuncia più. Ma sulla Treccani come su tutti i principali dizionari si trova ancora: “…singolare maschile (dal latino bubŭlcus, bufulcus). 1. Guardiano di buoi; chi lavora il terreno coi buoi. 2. Soggetto ignorante, zoticone, screanzato. 3. In astronomia, Bifolco, è altro nome della costellazione di Boote”. Prendiamo per buona la prima: guardiano/lavoratore con i buoi. Ma nella comprensione generale purtroppo emerge sempre in prima battuta il secondo significato qui esposto. E quindi? Potrebbe di conseguenza derivarne una comprensione non limpidissima, poco vantaggiosa, diciamo così. E la grafica in etichetta? Vediamo una mano nell’atto di afferrare qualcosa, mano realizzata con un fondo cielo stellato. Enigmatica quanto basta e poco legata al nome del vino. Se non vogliamo intendere che il contadino che lavora la terra lo fa sotto un cielo stellato (ma la terra si lavora di giorno, non di notte). Il logo dell’azienda è una rosa dei venti. Il pay-off (lo apprendiamo dal sito) è “gusto e tradizione dal 1917”. Per la cronaca ci troviamo sul Garda e i vitigni che compongono questo vino rosso sono il Rebo, il Merlot e il Cabernet.

La Mano di Bruno Bozzetto per il Manzoni della Bergamasca.

 


Manzù, Incrocio Manzoni, Cà Olta.

Questa etichetta, relativa a una piccola produzione, ha una grande paternità per quanto riguarda la grafica: l’illustre Bruno Bozzetto, disegnatore, sceneggiatore, regista di innumerevoli e divertenti fumetti. L’omino che troviamo in questo packaging, con un bicchiere in mano, ai bordi di una scoscesa collina, lo ha disegnato proprio lui. Si staglia quindi per cromatismo ma anche per originalità questa etichetta che veste un Incrocio Manzoni (vitigno) da cui il nome del vino: Manzù (siamo nella bergamasca, il dialetto è quello, sincopato, con le finali accentate). Le vigne di questo vino bianco albergano esattamente a Scanzorosciate, comune noto più che altro per il Moscato di Scanzo, la più piccola DOCG italiana, che dà luogo a un passito rosso di grande complessità aromatica. Il nome attuale del luogo, Scanzorosciate, si compone di due paesi precedentemente separati, Scanzo e Rosciate. Curiosa e peculiare l’origine di Rosciate: dal greco “ros” per grappolo e dal celtico “ate” per villaggio. Onomatopeico il nome della giovane azienda vinicola (che logicamente produce anche il prezioso Moscato di Scanzo): Cà Olta. Che in dialetto bergamasco significa “casa alta”, cioè casale posto sulla sommità della collina. Sommità che viene ben evidenziata da un colore verde brillante in questa coinvolgente etichetta (e il cerchio si chiude). 

Stelle di Mare e di Monte nelle Tempe Cilentane


Asterìas, Fiano, Tempa di Zoe.

Abbiamo qualche definizione da chiarire. Innanzitutto il nome del vino, poi il vitigno (Fiano della Costa Cilentana) e infine il nome del produttore. Iniziamo con le parole che troviamo nel sito internet dell’azienda, che riguardano questa etichetta: “Asterìas significa stella marina in lingua greca. Si tratta del primo bianco dell’azienda ed è ottenuto da uve Fiano. Il simbolo della stella è una guida ma anche un riferimento: esso prende ispirazione dalla presenza del Monte Stella, un massiccio che sorge nel Parco Nazionale del Cilento, raggiungendo i 1131 metri sul mare, che svetta sul nostro vigneto, che è incastonato tra la montagna ed il mar Tirreno”. Quindi il nome del vino si riferisce a un animale marino ma si ispira anche a un monte. Dualità tra terra e mare che potrebbe confondere o forse confortare, vista la grande bellezza e varietà geomorfologica di un Cilento ancora oggi poco considerato come terra dei vini e luogo di amenità. E quel numero 6 in grande evidenza al centro del packaging? Ebbene, nonostante questo sia, come dichiarato in precedenza, il primo vino bianco dell’azienda, si tratta, in ordine di “uscita” del sesto vino nato in questa cantina. E il nome dell’azienda (davvero insolito)? Ecco la spiegazione: “Tempa di Zoè non è solo riferito a un luogo fisico ma è soprattutto una dichiarazione di intenti. Le “tempe”, dolci colline che si rincorrono al mare, caratterizzano da nord a sud il Cilento. Zoè, è la parola greca che indica l’essenza della vita; il principio universale comune al mondo animale, vegetale e minerale”.

Rosa Come la Lingua d’Oca


Gris Blanc, Grenache (di 2 tipi), Gérard Bertrand.

Nonostante questo nome del vino, non si tratta di Pinot Blanc o di Pinot Gris. La spiegazione è semplice: stiamo parlando del vitigno Grenache (normalmente conosciuto come rosso, Garnacha in Spagna, Cannonau in Italia) nelle versioni Bianco e Grigio (laddove per Grigio si intende quella colorazione degli acini violacea, tipica anche del Gewürztraminer). Ed ecco che il grosso (in termini di volumi) produttore Bertrand con sede e vigneti nella Linguadoca, ha chiamato questo suo celebre rosé “Gris Blanc”. Un rosé che fa concorrenza a quelli più noti della Provenza e ancora più a destra (verso est) della Costa Azzurra. Qui siamo quasi verso il confine con la Spagna, con la Catalogna, per l’esattezza, in Linguadoca, curiosissimo nome di regione francese che nulla c’entra col bianco pennuto starnazzante. Linguadoca infatti deriva “…dalla lingua che vi si parlava, l'occitano o lingua d'oc, in contrapposizione al nord della Francia, detto anche terra della lingua d'oïl, laddove òc e oïl erano le rispettive forme per la parola ’sì’ (Wikipedia)”. Ma torniamo a questa etichetta, semplice, diretta: una sfera in alto (che contiene il nome del vino, cromaticamente definito in due parti) e un rettangolo in basso con una scritta che descrive il vino come un prodotto “puro e cristallino del Sud della Francia”. Il resto lo fa la bottiglia con il suo vetro trasparente e con il colore molto particolare del suo contenuto: né bianco, né rosa e nemmeno grigio (ci mancherebbe!), bensì “buccia di cipolla”, come direbbe qualcuno.

Il Filo del Discorso


Filo, Negroamaro, Cantine Menhir.

Etichetta nera, elegante, con particolari che sorprendono. Al centro labbra femminili, rosse, carnose, vibranti (anche graficamente: il profilo esterno delle labbra “riverbera” in una serie di tratti neri tracciati con inchiostro lucido). Secondo elemento attenzionale: il nome del vino, “Filo”, viene proposto con la grandezza variabile delle lettere che lo compongono. A crescere, dalla “f” iniziale alla “o” finale. Un “filotto” che nella sua scompensatezza (e anche insensatezza) certamente attira l’attenzione in quanto insolito ed originale. I contorni sono in oro, con effetto eleganza soprattutto su nero. Al centro la scritta “Riserva” che nobilita e informa. In basso una frase ad effetto, ben ideata: “…per raccontare ciò che siamo stati, ciò che siamo e ciò che continueremo ad essere”. Bene, c’è un concetto e viene portato avanti con evidenza. Il vino è da vitigno Negroamaro (siamo in Puglia, certamente, zona Salaento). Un vitigno conosciuto ai più, soprattutto in tempi recenti durante i quali questa tipologia si è diffusa (commercialmente, intendiamo) anche nel nord Italia. La Doc invece e tra le meno conosciute: “Terra d’Otranto”, dichiarando così, utilmente, l’origine delle vigne. In particolare questo produttore opera a Minervino di Lecce. I vini pugliesi si fanno largo, sul filo di gradazioni importanti, cercando di non perdere in freschezza.