Scrive il produttore nel Pdf di presentazione di questo vino che Gobbio "è il nome di una collina sita nel comune di Botticino (Brescia) a 450 mt slm; il terreno particolare ed unico, ricco di marna, carbonato di calcio, argilla e sabbia, caratterizza questo vino ottenuto da uve Barbera (40%), Sangiovese (30%), Marzemino(20%) e Schiava Gentile(10%)". Si tratta del vino "di punta" dell'azienda, proposto anche come vino da meditazione, in quanto una parte delle uve di Barbera e Marzemino sono trattate dopo appassimenti. Di fronte ad una nominazione geografica, territoriale, ci si trova davanti un dubbio amletico: promuovere le geolocalizzazione, in un certo senso la tradizione del luogo, e farlo anche a discapito del naming e della semantica o trovare un nome più cònsono? Molti procedono per la via pià breve: utilizzare il nome topografico di turno e stop. Ed ecco un "Gobbio" che semanticamente e foneticamente non può, per sua "natura", esimersi dal ricordare Gobba, Gobbo, Sgorbio, Gabbia... etc etc. Niente di male, dirà qualcuno. Ma qui diventiamo, volontariamente, di nuovo "addetti ai lavori" uscendo dai panni del consumatore, sia pure attenzionato. Gobbio non è un nome consigliabile a priori. Anche se, volendo cercare valenze positive, si possono trovare nella nomèa di buon auspicio che la gobba e i gobbi portano con loro. Anche se: "I gobbi portano fortuna e le gobbe (donne) disgrazia." (Proverbio Italiano). La credenza sulla gobba deriva dal Medioevo quando, coloro che avevano quella deformazione venivano ritenuti dei “segnati da Dio”: molti re di quel tempo avevano dei gobbi come consiglieri alla loro corte.
Perché Chiamare un Vino "Pop"?
Pop - Vino Bianco (Garganega) - Tenuta L'Armonia
Forse perché è frizzante. No, non risulta. Allora perché vuole essere popolare, giusto. O richiamare alla "musica pop", forse. Come consiglio di abbinamento con i Pop-Corn? Certo si tratta di un vino semplice. Con una etichetta "easy", assolutamente coerente con il nome, quindi dal design, appunto, "pop". Sullo sfondo dell'etichetta campeggiano degli "oggetti volanti non identificati". Anche da vicino non si capisce bene: tazze, cerchi, numeri, macchie, orsetti, gessetti... Fantasia all'arrembaggio. Certo si tratta di un'etichetta insolita, con un nome che nel bene o nel male (decideranno i consumatori) si fa notare. Viene però naturale considerare l'onomatopeicità della parola "Pop" che richiama le bollicine. Quindi ci si aspetta un vino spumante, o quanto meno frizzante. Questo forse l'unico reale querebus della questione. Per il resto rimane tutto al degustibus di chi riceve la comunicazione. Per la cronaca: l'azienda ha in gamma (qui sotto) anche un vino frizzante. In quest'altro caso non si può sbagliare, lo dice il nome: Pop Frizzi (sur-lie). In alto i calici (e i gomiti)!
Una Lezione Leziosa da Lessona
'Tanzo, Lessona (Spanna), Pietro Cassina.
Diciamo subito che non sappiamo cosa di fatto significhi il nome "'Tanzo". Si ipotizza facilmente che si tratti di dialetto piemontese, ma non ne abbiamo riscontro. L'azienda è piccola. Non ha un sito internet e solo il produttore potrebbe chiarire il significato del nome. Ma facciamo questo gioco: siamo dei consumatori che non hanno voglia di chiamare a telefono il produttore o scrivergli un messaggio diretto su Twitter o su Facebook (sempre che sia presente su questi social-network) per sapere cosa significa Tanzo. E quindi cogliamo quel nome per quello che comunica, anche a chi piemontese non è. Forse deriva da Tango, in ogni caso richiama sensazioni "danzanti". Chissà. La non chiara identificazione fonetica e semantica però non aiuta. Se il nome non riconduce a qualche appiglio, il cervello si perde e di conseguenza si smarrisce anche la memorabilità. Se non altro suona curioso. Tanzo. Veniamo all'etichetta. Al design, al packaging. Si tratta evidentemente di un tentativo di svecchiare lo stile di quella zona (alto Piemonte) finora contraddistinto da etichette piuttosto classiche, diciamo pure vecchie. Perché non fare quindi qualcosa di moderno? Farlo non è facile come dirlo. Ed ecco quindi un'etichetta pulita, ma non priva di sfasature stilistiche. A partire dai caratteri di scrittura del fronte etichetta. Insoliti certo, ma anche destabilizzanti, dal punto di vista della comunicazione "sotto pelle". E quell'onda grafica sotto al nome del produttore? Non fa molto spumante? Insomma, questa è una di quelle etichette che non si possono definire "sbagliate", ma che lasciano molte perplessità. Come se si fosse cercato uno stile, senza riuscire a trovarlo. La volontà di dare personalità e originalità c'era, ma il risultato è strano. Possiamo dire né carne, né pesce? Per l'etichetta sì. Per il vino (in giro si dice che sia molto buono)... certamente carne!
Strane Imitazioni tra Oltrepò e Champagne
Big Black, Pinot Nero, Buscaglia.
Spesso si assiste a operazioni di "imitazione grafica" tra etichette "minori" nei confronti di etichette di marchi noti. L'obiettivo è quello di non imitare troppo, tale da ricevere una citazione in tribunale, ma abbastanza per richiamare nella mente dei consumatori l'allure della marca imitata. Una sorta di pubblicità subliminale che cerca di muovere ragioni di acquisto nemmeno minimamente legate al prodotto contenuto nella bottiglia, questo è palese. Certo che siamo lontani, geograficamente, nel caso indicato, tra Champagne (uno dei top mondiali, Dom Perignon) e Oltrepò Pavese (il Pinot Nero in questione sembrerebbe riconducibile alla Azienda Agricola Buscaglia di Rovescala, ma solo per il mercato estero, Canada e Usa). Nulla da dire, non siamo avvocati, sulla questione legale, ci sovviene solo evidenziare un esempio imitativo come una delle modalità commerciali, non certo qualitative, per vendere vino. Nel grande circo mediatico c'è posto anche per questo. Per quanto riguarda il nome del vino "Big Black" si tratta evidentemente di una ricerca imperniata sul mercato estero al quale il vino in questione si rivolge. Un "Grande Rosso" che probabilmente agli americani piace, in partenza, per la sua "grandeur", anche se italiano.
L'Eleganza del Grillo (Siciliano)
Mozia, Grillo, Fondazione Whitaker di Tasca d'Almerita.
Questa bella etichetta ci fornisce l'occasione per parlare un po' di design in generale. Ma partiamo dal nome del vino: Grillo (il vitigno) Mozia (l'isoletta vicino a Marsala dove si trova il vigneto). Nome quindi non di fantasia, ma geografico. Caratterizzante attraverso la località, molto particolare, dove vengono coltivate le uve. Una chiara valorizzazione del territorio, circondato dal mare e per questo peculiare. Nome che esprime l'unicità del luogo. Unicità che viene mutuata nel prodotto. Passando alla grafica dell'etichetta si potrebbe dire che si tratta di un elaborato in apparenza semplice, di fatto nella sua proposta comunicativa lo è, ma al tempo stesso articolato, intenso, acuto e intrigante. Il logo in alto è costituito a metà dal Leone Tasca d'Almerita e a metà da un cavallo, per distinguere questa linea di produzione che riporta alla Tenuta Whitaker. Sotto al logo il nome dell'azienda, Tasca d'Almerita, condivide il proprio spazio proprio con la dicitura "Fondazione Whitaker", confermando così l'impostazione duale del logo soprastante. Seguono il nome del vitigno, il millesimo, un "orizzonte" stilizzato dell'isola in questione e sotto il nome storico "Mozia" (in realtà oggi sulle mappe risulta come Isola di Pantaleo). Il tutto con uno stile pulito, asciutto, "al tratto", immediato, elegante, essenziale, su sfondo bianco. Senzazioni di nitore, precisione, qualità, competenza: quanto può "fare" un'etichetta nell'esprimere un vino e nell'invitare a degustarlo!
Un Prosecco Vestito a Festa
Il rituale avvicinarsi delle Feste Natalizie pone al marketing delle aziende vitivinicole l'annoso "problema" della stagionalità. Cioè il pericolo che i clienti intendano interpretare il consumo di spumanti solo come celebrazione, senza vera continuità. Uno stappo e via. Cadono in questa trappola un po' tutte le bollicine, dagli Champagne al Prosecco. Una etichettatura dal design sfarzoso certo non risolve il problema. Cioè ne risolve uno e ne mantiene un altro. In pratica: il Prosecco, soprattutto, è un vino che ha bisogno di enfasi. Di confezioni e packaging nobilitante, che lo renda prezioso agli occhi prima ancora che al gusto. Ma questo non va nella direzione del consumo quotidiano. Non per quelle aziende che scelgono la strada della valorizzazione estetica (poi ci sono quelle che scelgono invece di dare una connotazione popolare, per ovviare al problema). Il packaging di questo Prosecco Superiore è bello, valorizzante, elegante, prezioso. Oltre ad una impaginazione classica, equilibrata, ben soppesata negli elementi di comunicazione, vediamo anche due fattori materici (che incidono sul costo finale, sicuramente): la personalizzazione a vetro della bottiglia e l'apposizione di una ceralacca in rilievo (verde, invece del solito rosso). Elementi che riproducono il marchio e che collocano la bottiglia sotto una luce impreziosente. Si tratta logicamente del vino top dell'azienda. Per quanto riguarda il nome, si è scelto di citare il fondatore, Graziano Merotto, con una tipica operazione di trasposizione di tradizione e qualità, ricavandole da ragioni storico-famigliari.
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