Giù il Cappello per Cappellano


Barolo Chinato, Cappellano.

C’è qualcosa di più “classico” del Barolo? Nel mondo del vino, no. Per spingersi oltre, forse, è necessario produrre un “derivato” del Barolo, cioè il “chinato” che non è una riverenza, bensì una aromatizzazione con spezie di vario genere (le ricette segrete, etc etc). Ed ecco quindi la versione del Barolo Chinato di una celebre famiglia delle Langhe, i Cappellano. Tra l’altro si dice che il fondatore fosse in origine un farmacista, per cui una perfetta anticipazione di quel biochimico chiamato oggi enologo. Tornando all’etichetta in questione, possiamo vedere chiaramente che qui di classico c’è davvero tutta la bottiglia, non solo storia, tradizioni e prodotto. Fondo blu, cornice oro, in alto una stilizzazione del paese di Serralunga, con il castello, la chiese, le case, tutto regolare. Sopra al disegno stilizzato il nome del produttore e l’orgogliosa (giustamente) dicitura “casa fondata nel 1870”. Lo stile, anche dei caratteri di scrittura, è quello di una volta. Guai a discostarsi anche di poco da quello che i canonici elementi di comunicazione hanno sempre rappresentato. Siamo in Piemonte, l’America è lontana. Per fortuna. La “ditta” è di quelle che vende benissimo il proprio nome, per cui problemi commerciali zero. Fatturato, invece, a mille.

T come Tramin e Come Trendy


T Cuvée, Blend di Bianchi, Cantina Tramin.

La nota cantina cooperativa altoatesina che ha sede a Termeno in provincia di Bolzano, propone sul mercato un Bianco “Vigneti delle Dolomiti” Igt che prevede l’utilizzo di uve Chardonnay, Pinot Bianco e Sauvignon.Una grande “T” campeggia al centro dell’etichetta. “T” come Termeno (o Tramin in lingua autoctona). La grande lettera è tracciato con due pennellate di color ocra e di fianco vediamo, a complemento, la scritta “Cuvée”. Si tratta di un vino “base”, un bianco per tutti i giorni, dal costo limitato. Il packaging però riesce bene a nobilitarlo, con una dinamica grafica moderna, giovane, spigliata e con l’aggiunta di quel “Cuvée” che spinge la percezione fino al limite della alta qualità di certi grandi vini (in una modalità letterale e fonetica, valorizzante, tipicamente francese). L’operazione è al tempo stesso semplice e coraggiosa. Dentro a questa bottiglia c’è un vino normale, per normali consumatori che però cercano qualche emozione in più e la garanzia del nome di una cantina nota soprattutto per le sue chicche enologiche. La carta bianca dello sfondo e impreziosita da una lavorazione percepibile al tatto e alla base ecco la firma e il logo della cantina a sancire la credibilità del prodotto e della sua provenienza. Tutto bene.

Un Rettile Primitivo in Abruzzo

(Geko), Primitivo, Cantina Tollo.

La Cantina Tollo è una grande azienda che produce e commercia una estesa gamma di vini. La sede è a Tollo in provincia di Chieti (Abruzzo). Tra gli altri vini sta puntando molto sul biologico e sul biodinamico. Anche per le linee “basse”. Ne è prova la bottiglia di questo Primitivo che in etichetta presenta un simpatico geko (chissà perché alla fine risultano più simpatici delle lucertole), eletto a simbolo di natura incontaminata (nonché per le sue preferenze alimentari che lo portano a “consumare” molti insetti). Ebbene, questo geko azzurro fa la sua bella figura e “marchia” il packaging con efficacia (grazie anche al fondo bianco sul quale risalta molto chiaramente). Anche la scritta “biologico” viene in azzurro, e in grande evidenza. Ma ci sono anche altre parole-chiave: “bevi responsabilmente” (socialmente utile) e “sostenibile” (molto di moda ultimamente). La carta di base dell’etichetta è di quelle ruvide e la sensazione è che volutamente si è riprodotto un muro, una parete, zona dove molto spesso i geki, una volta accettati “domesticamente”, albergano immobili come appesi. L’effetto finale e generale è di qualcosa di fresco (nonostante il Primitivo sia un vino rosso piuttosto corposo), di semplice, di simpatico, di lineare, di giovane. E diremmo proprio che può bastare.

Eremi Dorati e Onorati sul Lago di Garda

Eremus, Blend di Rossi, Agricola Casetto.

Bella etichetta e bel nome per questo vino che vuole emulare (nella sua composizione) il ben più noto Amarone. Si tratta infatti di un blend di rossi, tipicamente veronesi, come Corvina, Corvinone, Rondinella, Merlot e Marzemino. Lo storytelling narra che l’azienda ha in affitto 9 ettari che appartengono a un lotto territoriale di un vicino convento. Da qui il richiamo alle antiche attività enologiche dei monaci e all’eremo dove i religiosi ancora abitano. Quindi il nome del vino “Eremus”, evocativo di molte sensazioni tradizionali, storiche, culturali, narrative e quant’altro. Molto accattivanti i particolari in oro nella grafica in etichetta. Su sfondo nero vengono agli occhi i pastorale (bastone) di un santo (o di un Abate) e la chiesetta dell’eremo. Così come, alla base del packaging, il logo dell’azienda con il claim “Terre di Lago”. Siamo infatti sulle rive del Lago di Garda, nei pressi di Bardolino. Da notare, in un tassello sempre dorato, la dicitura “vendemmia tardiva” e la numerazione delle bottiglie prodotte, due particolari che aggiungono preziosità al prodotto. La definizione di legge “Rosso Veronese” ristabilisce un po’ gli equilibri “tirando” verso il basso. Ma così è la legge che regola il disciplinare di zona. Sicuramente il lavoro di valorizzazione della bottiglia con inchiostri e narrazioni originali, otterà buoni risultati di vendita.

L’Impronta Identifica. Anche un Vino Poco Tracciabile.

(Potremmo chiamarlo L’Impronta), 
Primitivo di Manduria, V.E.B. Spa.

In tempi recenti molte persone che hanno voluto o dovuto chiedere il rinnovo della Carta di Identità sono state sottoposte coattamente al rilevamento delle proprie impronte digitali (dove in questo caso non si tratta del “digitale” inteso come qualcosa di informatico). Le impronte delle nostre dita sono diverse per ognuno e quindi sono in grado di “firmare” in modo inequivocabile quello che tocchiamo. Ed è proprio questo il senso di questa etichetta che evidentemente vuole attribuire molta importanza all’impronta del vignaiolo (almeno, questo sarebbe il messaggio, anche se il vino è di quelli ad ampia produzione industriale). Nel supporto cartaceo di questo packaging (carta elegante, importante, goffrata) campeggia molto in grande una impronta digitale (si direbbe di un indice) caratterizzando nettamente la comunicazione, quanto meno quella di primo impatto. Il resto (poco spazio rimane) viene dedicato al nome del vitigno (e quindi alla sua Doc di riferimento), poi, alla base, l’annata e “Italia”, a sancire, la provenienza d’Enotria (probabilmente ad uso di mercati esteri). Non c’è un nome per il vino in questione, e nemmeno il nome del produttore (che troviamo, almeno come origine e provenienza, cioè imbottigliamento, nel retro etichetta). Forte impatto, quindi, dovuto alla grande impronta. Concetto trasmesso in modo molto diretto, quindi di grande efficacia, sicuramente per quanto riguarda l’effetto scenico.

Etichette di un Tempo che Funzionano Anche Oggi

Valtellina Superiore Riserva, Nino Negri.

Com’erano le etichetta di una volta? Molto diverse da quelle di oggi? Sembra di no, a voler osservare e commentare questa bottiglia del 1967 a cura del noto produttore valtellinese Nino Negri. L’etichetta, certo, accusa tutti i suoi anni, a livello di consunzione. Ci mancherebbe, si tratta di ben 57 anni! A parte il fatto che negli anni si è rovinata un po’, possiamo notare che la carta di base è preziosa, filigranata, con la parte superiore zigrinata (quindi dotata di una certa ricercatezza). Sul collo troviamo una piccola etichetta aggiuntiva con lo stemma della casa e l’annata. Tornando al fronte-etichetta principale notiamo che il nome dell’azienda ha la massima importanza: Nino Negri è scritto in nero e in grande. Sopra, in rosso, il termine “Riserva” e sotto “Valtellina Superiore”, scoprendo che a quei tempi questo vino non aveva ancora la DOCG, bensì solo la Denominzione di Origine Controllata. Nell’angolo in basso a destra viene ribadito in corsivo “Nino Negri Spa”. Il marketing era già presente e si manifesta con un cartoncino a libretto appeso al collo della bottiglia con un ribbon rosso. Molto visibile, fastidioso al momento della gestione della bottiglia ma interessante nella sua modalità di esposizione delle caratteristiche del vino. Ancora oggi si fa, ma tutto sommato raramente. In alto a sinistra, un po’ sbilanciata, la sagoma nera di una torre, probabilmente il palazzo signorile della sede di Chiuro. Tutto sommato si tratta di un’etichetta ben realizzata (per quei tempi) e con un suo equilibrio formale.

Una Dea Metà Donna, Metà Vite

Deìvaì, Cerasuolo d’Abruzzo, Cantina Tollo.

L’etichetta presenta alcune peculiarità interessanti. Innanzitutto è molto “pulita”, semplice, sia pure nella sua incisività (pochi elementi, ben collocati). La parte alta della cartotecnica è zigrinata, la parte bassa lineare e continua. In alto il nome del vino “Deìvaì”, in bella evidenza e al centro un’immagine ipnotizzante. Alla base la “firma” del produttore, Cantina Tollo. Ma vediamo i dettagli di questa scelta, spiegati dall’azienda stessa nel proprio sito internet: “Il prodotto (che fa parte della linea Anthology) porta il nome della Dea del raccolto e delle messi adorata dalle comunità che anticamente abitavano le terre abruzzesi, della Campania nord orientale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise e dell'alta Lucania. L’etichetta, opera dell’illustratrice milanese Costanza Agnese Matranga e di Gabriele Tosi di Tosi Comunicazione, ritrae la Dea Deìvaì nelle vesti di una fanciulla riccamente vestita, capace di generare dai suoi capelli tralci di vite con grappoli d’uva”. Bello il richiamo alla deità del luogo, ben rappresentato da una figura umana che si manifesta (e si integra) con tralci di vite. Bello anche il colore del vino, un rosato di carattere che nasce dal vitigno Montepulciano (d’Abruzzo). Non facile l’interpretatazione (insomma, la pronuncia, la fonetica) delle due “ì” accentate del nome. Ma se la Dea si chiama così… ne prendiamo atto e ci arrendiamo all’evidenza mitologica.

Un Dolcetto che Non ha Nulla di Artificiale

La Costa, Dolcetto d’Alba, Piero Benevelli.

Piccola azienda famigliare nelle munifiche e magnifiche Langhe che negli ultimi decenni tanta ricchezza hanno portato a molti viticoltori. L’etichetta è di quelle semplici. Forse fin troppo semplici. Ma con un suo carattere “antico” che serve a definire azienda e prodotto. In alto a destra una illustrazione molto classica che raffigura il campanile della chiesa, con davanti un tralcio e un grappolo, oltre a un calice (inspiegabilmente vuoto). Andando con ordine: la Doc Dolcetto d’Alba in alto in bella evidenza (grandezza), al centro in rosso il nome del vino “La Costa”, sotto troviamo il nome del produttore, la località e… l’insolita e per questo sorprendente scritta “famiglia contadina”. Questa puntualizzazione ci ha incuriosito. Sono così importanti, in questo contesto, queste due parole che potevano anche essere “sfruttate” meglio, cioè proposte con maggiore evidenza. In un mondo ormai autogenerato dall’Intelligenza Artificiale, precisare che chi ti vende il vino è una famiglia contadina, ha il suo grande valore. Non è garanzia di qualità, ma l’appartenenza a qualcosa di tradizionale e di genuino manifesta tutta la sua forza in termini di fiducia e rappresentatività. Onore quindi a tutte quelle famiglie contadine (se ne trovano ancora molte, per fortuna, in Italia) che continuano a produrre vino con le nuove tecnologie ma con gli insegnamenti di una volta.