Mai Fidarsi della Volpe, ma del Galluccio sì
Un Rosso che Attira l’Attenzione
Baciamisubito, Barbera del Monferrato, Az. Agr. La Scamuzza.
L’originale nome di questo vino potrebbe parafrasare il celebre film del 1964, del regista Billy Wilder (titolo originale “Kiss me, stupid”), Baciami Stupido, con due protagonisti d’eccezione come Kim Novak e Dean Martin. La storia di questo nome, invece, attiene alla considerazione che questo vino è come un bacio, da cogliere subito, senza esitazioni, così come i piaceri veri, enogastronomici, della buona tavola. Nasce con queste considerazioni un’etichetta sicuramente di grande impatto, non solo per il nome del vino, ma anche e soprattutto per le labbra rosse che emergono da una foto in bianco e nero. Viso di donna, rappresentato da naso e bocca, elementi determinanti per definire la bellezza di un volto, insieme agli occhi, naturalmente, in questo caso abilmente celati. Infatti gli stimoli visivi della bellezza e dell’attrazione devono concedere e privare, in un gioco delle percezioni che si fa memoria. E’ questo il compito di una etichetta delegata a colpire. Ed è per questo che il packaging di questa Barbera del Monferrato colpisce anche a distanza, sullo scaffale e ancora di più su una tavola imbandita e candida. La produzione di questo vino è davvero minima, poche migliaia di bottiglie ogni anno, da parte di un produttore (Laura Zavattaro, a Vignale Monferrato, associata storica delle Donne del Vino) che punta alla qualità e ad una determinazione delle vigne, cioè della provenienza delle uve, da “grand cru”, come si usa dire nella vicina Francia. Un rosso che si fa notare, in tutti i sensi.
Un Rebus in Diebus in Terra Latina
La Lucertola Ribelle di un Domaine del Rodano
Prima, Rosé, Domaine de l’Anglore.
Questo vino estremamente naturale, no filtrazioni, macerazione carbonica a grappolo intero, si presenta con un rosato intenso… anche in etichetta. Anzi, nel packaging i particolari di stampa sono proprio rossi. Rossa è la lucertola che alberga al centro dell’etichetta e che sicuramente sta a rappresentare la biodiversità, insomma la presenza naturale di tutti gli elementi spontanei della fauna e della flora in vigna. Rosso è il nome del vino, curiosamente in italiano, “Prima”, forse ad esprimere il primato della natura sul lavoro dell’uomo. Rosso è il nome dell’azienda, “l’Anglore”, e le scritte di legge alla base dell’elaborato. Bella la carta leggermente goffrata, cioè ruvida la tatto, a sancire una certa manualità che ancora oggi contraddistingue il lavoro di questa cantina: raccolta a mano, lavorazioni artigianali dall’inizio alla fine. E il vino? Ruvido anch’esso, non potrebbe essere diverso. Appartiene a quella categoria di prodotti enologici che vuole essere “anomalo” per definizione, ribelle, ancestrale, scapestrato, anticonformista, mettetela come volete, ma state attenti alla volatile (che non è un uccello, ma il modo in cui i sommelier definiscono quello spunto acetico che a molti dà proprio fastidio). Pace e bere.
Un Folle Unicorno Fattore Primario di Felicità
Un Mora Creativa e Sognante per un Salento Rilevante
Mora Mora, Malvasia Nera, Paolo Leo.
Le estrose etichette di Paolo Leo si riconoscono subito sullo scaffale. E generano curiosità a tavola. Questo vino che si chiama “Mora Mora”, in primo luogo è originale per il vitigno che lo compone, una Malvasia Nera del Salento che non si trova spesso tra le proposte enologiche d’Italia. Originale anche l’etichetta con una somma di particolari che la rendono unica e distintiva. Quello che l’occhio coglie in prima battuta è il viso di una donna. La forma dell’etichetta segue il profilo della testa chiomata generando una insolita, quindi sinuosa, struttura. Veniamo ai particolari “artistici”. La donna (mora di capelli) ha le gote dorate, evidenziate da due cerchi geometrici. C’è anche del viola tra i suoi capelli. Colore che ritroviamo nel nome del vino, dove la prima “Mora” è in viola e la secondo “Mora” in oro. Labbra molto rosse e all’orecchio destro una mora stilizzata. In basso, dopo le scritte didascaliche di legge, vediamo quello che potrebbe sembrare un QR Code, mentre si tratta del logo/stemma del produttore, seguito da nome e cognome dello stesso. Nel complesso si tratta di un packaging che possiamo definire molto creativo. I buoni auspici per un successo di vendita ci sono tutti.
Un Vino Molto Vivo con un Nome Mortifero
Morta Maio, Niellucciu, Antoine Arena.
Certo che in Italia il nome di questo vino potrebbe essere male interpretato. O come minimo considerato come porta sfortuna. Ma tant’è che il naming in questione deriva da questioni topografiche e storiche, facendo riferimento alla vigna dove cresce la vite che dà vita a questo vino rosso della Corsica. Siamo nella Aoc “Patrimonio”, una della più celebrate e preziose dell’isola francese autonomista che conserva ancora oggi molta italianità (anche nei nomi o cognomi dei produttori, che in questo caso è Arena). A parte il nome, siamo di fronte a quale tipologia di etichetta? Molto classica. Con caratteri di scrittura corsivi, graziati, eleganti e “romantici”. In alto due “A” rappresentano le iniziali del produttore. Nome e cognome che viene riportato in chiaro e molto in grande al centro del packaging. Poi la dicitura dell’Appellation (il francese per dire Denominazione). Per il resto scritte centrate, ordine ed eleganza, con il vezzo di una fustella (la forma della carta dell’etichetta) smussata diagonalmente ai quattro angoli estremi. Il risultato è una percezione di qualità, di storicità, di serietà, di tradizione, che è sicuramente quello che vuole trasmettere l’azienda. Produzioni limitate, vino “naturale”, prestigio (a un costo abbastanza elevato) e notorietà tra gli intenditori.
Un Passito d’Altri Tempi, Ancora Oggi
Chiarello di Cirella, Adduraca (Duròc).
Ci sono vini di un tempo (che a quel tempo sono rimasti) che quasi non avrebbero bisogno di etichette. Se non quelle antiche, che il marketing non lo hanno mai conosciuto e considerato. Come questa, che veste un passito molto particolare e raro, che viene dalla Calabria. Ma vediamone brevemente la storia (dal sito “il Calice di Ebe”): “Un vino dolce, profumatissimo e prezioso amato dalle corti rinascimentali e dal Papa Paolo III Farnese: ripercorriamo la storia e la fortuna dell’antico nettare di Cirella, il Chiarello. I Romani la chiamavano Cerillae ma la sua è una storia più antica: nata in epoca magno-greca, Cirella fu una colonia focese fondata tra il VII e il VI secolo a.C. Plinio il Vecchio la identificò come Portus Parthenius Phocensium, ovvero il Porto Partenio dei Focesi perché all’epoca l’abitato si estendeva sulla costa intorno al porto, luogo in cui oggi si trova grosso modo l’attuale Cirella. Di fronte si trova l’Isola di Cirella, una delle poche della Calabria assieme alla vicina Isola di Dino a Praia a Mare (Cs)”. E ancora qualche informazione sul vitigno che compone questo vino: “Viene descritto come un vino giallo dorato e profumatissimo, dolce e molto prezioso; si ricavava quasi sicuramente dalle uve di adduràca che in dialetto locale significa ‘profumata’. L’adduràca, in italiano duraca, è un vitigno autoctono assai antico sul quale sono stati effettuati recenti studi genetici per determinarne l’origine”. Nient’altro da aggiungere se non che questa etichetta sta bene così. Si porta dietro tutta la storia di questa piccola e preziosa eccellenza d’Italia.