Abbiamo più volte fatto notare che se i nomi vengono scritti con caratteri (font di scrittura, in termine tecnico) poco leggibili viene vanificato il loro potenziale comunicativo. L'immediatezza fa il suo gioco, soprattutto in spazi e tempi così limitati come sono l'area di una etichetta e la dinamica della sua fruizione visiva. Questo vino si avvale di un design incisivo, è vero, grazie al fondo nero e alle verbalizzazioni in grande evidenza. Ma il nome del vino in particolare non è immediatamente leggibile. La storia che c'è dietro è comunque interessante: "Eureka" la celebre esclamazione di Archimede, genio matematico di Siracusa, nasce per l'intuizione legata alla misurazione del volume dei materiali per immersione. Sembra che l'aneddoto più accreditato sia quello legato alla richiesta, al noto scienziato, di misurare l'effettivo contenuto di oro di una corona commissionata da Re Gerone II. Il dèspota sospettava che l'orafo avesse inserito rame e argento al posto dell'oro fornito per la manifattura. Archimede ebbe l'intuizione legata al volume degli elementi e provò così la truffa. Nella linea vini del produttore siciliano Marabino, situato tra Noto e Pachino, troviamo anche un Nero d'Avola che con il suo nome omaggia direttamente "Archimede". In questo caso con l'aggiunta di una illustrazione e soprattutto con una modalità di scrittura più leggibile.
Rosati che Osano
Osè, Rosato (Barbera, Nebbiolo), Scanavino.
Il gioco verbale tra Rosé e "Osé" è facile da trovare, da gestire e da proporre. Tanto che di vini con questo nome ce ne sono molti. Basta digitare "osé rosato" su Google e ci si può divertire. Ne abbiamo selezionati un paio che hanno voluto sottolineare anche in visual il concetto di "osé", osare, intendendolo come una modalità sensuale per mettere in evidenza un corpo di donna. Anche in questo caso il "gioco" è facile, forse fin troppo. Fatto sta che queste soluzioni di "impatto visivo" che sfruttano attenzionalità ancestrali, possono anche avere un buon riscontro commerciale. Con buona pace di etica, eleganza formale e anche design di un certo livello. A parziale discolpa di chi utilizza il nome Osè e il corpo di una donna per far notare il proprio prodotto va il fatto che i vini rosati tutt'oggi non riscuotono grande attenzione e quindi successo. Sono considerati decisamente poco maschili, sarà il colore, e per questo, forse, poco amati anche dalle donne. Un fenomeno che in molti si sono messi a studiare, a livello di comunicazione e marketing ma che ancora non trova soluzione. Ci scusiamo per la scarsa qualità dell'etichetta a destra ma è l'unica, ad oggi, disponibile in rete per quel particolare vino.
Nomi Dubitativi Generano Curiosità
Grazie all'instancabile opera di ricerca e analisi di Ioannis Argiris che nel suo ottimo blog recensisce con regolarità vini particolari, spesso spettacolari, abbiamo reperito le foto di questo prodotto davvero insolito. Innanzitutto perché il vitigno calabrese che lo compone al 100% è davvero sconosciuto a molti. Poi perché il produttore si diletta, oltre a dare vita a ottimi vini "di nicchia", a comunicare con un piglio allegro e scanzonato. Ne è prova l'etichetta di questo vino che si chiama "forse sono fiori". Colorata, allegorica, allusiva, divertente ma anche impattante e memorabile. Secondo la poetica analisi di Ioannis, il "forse sono fiori" è da intendersi in questo modo (riportiamo le sue parole): "...giallo carico e velato nel bicchiere, si presenta chiuso al naso inizialmente, con il passare dei minuti si distende ed esprime un carattere diretto e particolare con sentori di nocciola e -forse sono fiori- di campo". Lo stile dell'illustrazione in etichetta è molto contemporaneo. Nulla concede a stilemi tradizionali. Al contrario si spinge su un terreno puramente artistico che possiamo definire "per pochi". Ma probabilmente anche questo vino è per pochi, vista anche l'esigua produzione. E se son rose fioriranno, aggiungiamo noi.
Detti Popolari Diventano Nomi (Commerciali)
Capita qualche volta di incorrere in nomi che "pescano" nelle tradizioni semantiche popolari, sfruttando detti, modi di dire, proverbi e altre locuzioni generate da usi e costumi, locali o nazionali. Questo che commentiamo oggi è uno di questi, tra i più lampanti esempi, essendo il detto in questione tra i più conosciuti e ancora utilizzati. "In bocca al lupo", infatti, è modo di dire che si usa per "antitesi", allo scopo di scacciare un guaio, di evitare problemi, di augurare, in sostanza, vicende fortunate e non trameste. L'origine più probabile di questo detto è quella che fu in uso di chi andava a caccia, una volta anche per questioni di alimentazione, e che poteva in effetti incontrare pericoli cagionati da belve feroci. Ecco quindi che l'azienda Massa Vecchia, decide di attribuire due nomi, sfruttando questo modo di dire, a due propri vini, entrambi prodotti con uve Merlot in purezza: il primo, barricato, si chiama dunque "In Bocca al Lupo", e l'altro vino "risponde", logicamente, "Crepi!". Visto che è proprio questa la più spontanea risposta a chi ci augura del bene con la formula del lupo. Il secondo vino, "Crepi!" è affinato in botte grande. Il produttore specifica che: "A seconda dell’annata le uve possono dare vita all’In Bocca al Lupo, con macerazione e affinamento più lunghi, oppure vengono destinate ad una vinificazione più semplice ed affinamento più breve, da cui nasce il Crepi!". Belle e attenzionali le etichette che mostrano un lupo nero (simbolo e logo dell'azienda) su sfondo rosso. Forte simbologia, apotropaica e anche funzionale alla notorietà di marca e tutto sommato, alle vendite. Unica critica: poco visibili il nomi in questione, potrebbero avere maggiore protagonismo.
Crociati Moderni in Terre Antiche
Bella sorpresa questa etichetta del "profondo Piemonte", nel senso dello spessore storico di quelle terre a ridosso di Alba, che stupisce per la sua grafica modernista, governata da una illustrazione dallo stile insolito, almeno per quella regione ancora molto tradizionalista. Si tratta di un cavaliere, probabilmente un Crociato, visto che porta uno stemma (il medesimo che distingue il logo aziendale) dagli stilemi cristiani. Un cavaliere cubista (in senso artistico, naturalmente), molto colorato, sfaccettato, si direbbe un Re, vista la corona che porta sulla testa. Una raffigurazione creata con uno stile davvero originale, un tipo di comunicazione visiva certo non per tutti che però denota una ricerca particolare nella proposta di packaging di questo Barbera d'Alba. Il nome del vino anche è curioso e da sottolineare. Come abbiamo già spiegato in un altro articolo precedente a questo, la Madonna di Como in questione non si trova sull'omonimo lago a nord di Milano, bensì si tratta di una frazione, di una zona viticola, nei pressi di Alba, storicamente nota per essere particolarmente adatta alla coltivazione di uve Barbera e Dolcetto. Ed ecco qui confezionato il nome "Madonna Como", che potrebbe confondere, ma che è anche dotato di una sua, peculiare, curiosa identità. Una storia da raccontare, insomma, legata al nome del luogo che come sempre male non fa alla caratterizzazione di un vino. E poi il Crociato con la Madonna concettualmente ci sta. P.S.: l'immagine dell'etichetta qui riportata non è di buona qualità ma per ora non siamo riusciti a reperire di meglio, né in rete, né nel sito dell'azienda produttrice.
Il Curioso Caso della Pallottola Vagante
Bala Perdida, Alicante Bouschet,
Bodegas Arraez.
Bodegas Arraez.
Può un vino chiamarsi "Pallottola Vagante"? Ne abbiamo l'esempio qui davanti. E può avere una colt in bella evidenza in etichetta? Certamente, perché non c'è dubbio che ognuno ci mette quello che vuole sulle proprie etichette, salvaguardando, come logico, le norme sulle diciture di legge. Ed ecco quindi il curioso caso di un produttore spagnolo, sicuramente estroso, che propone una label a dir poco particolare. Il caso è da analizzare per diverse ragioni. Il nome originale in spagnolo è "Bala Perdida", che tradotto letteralmente sarebbe "Pallottola Vagante", la pistola conferma questa possibile interpretazione. Andando però a leggere nel retro-etichetta e nel sito del produttore troviamo anche un'altra possibile sfumatura del concept. Ecco le parole del produttore nella traduzione in inglese: "With this wine we continue our project of elaborating native varieties in their place of origin, working the grapes with which my grandfather worked but with our authentic and current style. Obtaining a wine nonconformist, rebellious, unique and surprising... in definitive a MAVERICK!". E allora andiamo a prendere la definizione di "Maverick" da Wikipedia: "Questo vocabolo veniva utilizzato dai cowboys delle grandi pianure statunitensi per indicare i giovani capi di bestiame privi di marchio partoriti dalle vacche nei pascoli in cui vivevano in condizione di semi-libertà. Il termine venne, pare, coniato dal noto avvocato Samuel Maverick (1803-1870) e ne viene testimoniato l'utilizzo a partire dal 1867. Nei pascoli prossimi all'area linguistica ispanica, il maverick era chiamato con il termine spagnolo orejano. La parola è passata a significare "anticonformista", "ribelle", probabilmente perché il non marchiare i propri capi di bestiame veniva visto come assurdo dai vicini di pascolo di Maverick". Bello il concetto di ribelle attribuito a questo vino attraverso queste sfumature di significato. Per il resto, come già detto prima, la grande pistola in etichetta non può che attirare l'attenzione, in modo un po' "violento" anche dal punto di vista del design, ma sicuramente efficace. Un'altra curiosità che non siamo riusciti però a risolvere è che il nome del vitigno in etichetta è scritto "Alicante Bouchet" mentre si tratta, a livello enciclopedico, dell'Alicante Bouschet. Potrebbe trattarsi di una dicitura regionale della zona di Valencia dove ha sede l'azienda. Il caso è (forse) chiuso.
Se è Divertente, è Anche Promettente
Barbagianna, Albana - Famoso - Trebbiano, Bragagni.
Che simpatica la “Barbagianna”, vino bianco (più arancio che bianco) di un produttore romagnolo, Andrea Bragagni, che evidentemente si diverte con i nomi (un'altra sua creazione è il "BuboBubo", uve Famoso in purezza e un altro ancora il "Rigogolo", uve Albana in purezza). Il produttore cita in etichetta l'origine di questa stranezza (il Barbagianni è il noto uccello rapace notturno, la Barbagianna probabilmente è la sua signora): il testo di una canzone di un gruppo musicale capitanato da tale Alessandro Ducoli, "Il barbagianni si muove preciso nell'aria. La sua evoluzione di essere puro consente accurato comando di volo. Bianco e assoluto, ripete la sua esposizione planare..." (dall'album Brumantica, 2006). Nell'etichetta di Bragagni il tutto è virato al femminile. Forse per gioco, forse per far notare la differenza. Abbiamo anche un'altra ipotesi in merito, ma non possiamo scriverla qui, per decenza. Certo i romagnoli sono simpatici e certo anche che la Barbagianna si fa notare, anche perché il design dell'etichetta è ben riuscito, equilibrato, ben impaginato, forse fin troppo serio per accompagnare un nome giocoso come quello attribuito a questo blend di vitigni romagnoli. E in più, gli intenditori, dicono anche che è molto buono.
Lucciole per Lanterne: il Buon Lambrusco Dialettale Mantovano
Pjafòc, Lambrusco Ruberti - Lambrusco Salamino - Ancellotta, Cantine Virgili.
Il nome del vino che trattiamo in questo articolo non è stato facile da "intercettare". C'è voluto l'aiuto esterno di qualche linguista padano. Sfidiamo chiunque (che non sia di origini mantovane) a capire che "Pjafòc" (sarebbe con l'ümlaut ma per la "o" non riusciamo a trovarlo sulla tastiera e poi è una roba da tedeschi) significa (in dialetto mantovano) lucciola. E non quelle "lucciole" che stanno in bella mostra sulle provinciali, bensì quella più piccole e timide, che volano nei prati e che significano campagna non inquinata. Gli insetti intermittenti, insomma. Qualche linguista, in proposito, dice anche che "Pjafoc" o "Pjafòc" andrebbe scritto così: "Piafoch" o "Pisafoch". Ma insomma, in ogni caso, che nome romantico "lucciola", se non fosse che scritto così, in forma dialettale, sembra una parola straniera. Ma le logiche regionali non hanno logica e bisogna prenderle così. E allora ci fermiamo qui, aggiungendo solo che il vino in questione, un lambrusco mantovano di uno stimato produttore di quelle sottostimate zone, ha anche una versione "imperiale" (quasi che fosse uno Champagne), versione della quale riportiamo il cartiglio proprio qui sotto.
Nel Meno c'è il Più (e non si Tratta di Matematica)
Brecce di Tufo, Bianchello del Metauro,
il Conventino di Monteciccardo.
A volte basta qualcosa di particolare, purché ben riuscito, a caratterizzare un'etichetta. Diceva l'architetto e designer tedesco Ludwig Mies van der Rohe che "Dio è nei dettagli". Dunque, il protagonista grafico di questa etichetta, non può sfuggire, è quel sole al centro di essa. Non il solito sole perché realizzato in modo "particolare". Un mix di modernità e di arcaicità fusi insieme. Un occhio (di Dio?), un sole, certo, costituito da raggi retti e da raggi curvilinei, arricciati, sinuosi e curiosi. Questo mix di elementi visivi, tutto sommato molto semplice direbbe qualcuno, genera attenzione, ricordo, emozione. E tanto basta, tanto per iniziare, a caratterizzare questa etichetta e chi la produce. Vediamo il resto: sfondo nero, bene, eleganza e visibilità degli elementi applicati su di esso, e molte parole, forse troppe ma ben "distribuite". In alto il nome dell'azienda "il Conventino di Monteciccardo" (in onore al Convento dei Servi di Maria eretto in loco nel 1517) viene scritto con una modalità creativa, graficamente interessante ma con il difetto di essere non immediatamente leggibile. Il problema, difficile da risolvere in questo caso, è quello della lunghezza di questo nome (parliamo sempre del nome aziendale in alto). Subito sotto al sole grafico commentato prima troviamo il vero e proprio nome del vino, cioè "Brecce di Tufo". Evidentemente descrittivo di una caratteristica del terreno e in questo molto valido in quanto rappresenta uno storytelling ristretto in tre parole. Sotto al nome le definizioni "di legge": notare che non è facile reperire il Bianchello del Metauro in purezza, vitigno poco noto, nativo della zona di Fano, nelle Marche, dove scorre appunto il fiume Metauro. Bella etichetta, tutto sommato. Aggiungiamo che il produttore utilizza altri "soli" stilizzati per gli altri vini della propria gamma. Tutti molto puliti graficamente e ugualmente attenzionali.
Cornovaglia, Canada o Campania?
Devon, Greco di Tufo, Cantine Antonio Caggiano.
Questo vino da vitigno autoctono del sud Italia si chiama "Devon". Si tratta di un Greco di Tufo che nasce e cresce in provincia di Avellino, in Campania. C'è da dire che Devon, se si effettua qualche ricerca nel web, risulta essere una regione della Gran Bretagna (esattamente: "La contea di Devon è una delle contee più estese dell'Inghilterra. È bagnata a nord dal Mare Celtico, ad est confina con il Somerset ed il Dorset, a sud si affaccia sulla Manica ed a ovest confina con la contea di Cornovaglia, la quale costituisce l'estremità più occidentale della penisola dove si colloca il Devon stesso" wikipedia dixit). Oppure, a scelta, potremmo scoprire che si tratta di una cittadina del Canada, situata nella regione dell'Alberta. Inoltre, curiosamente, la Devon Spa (in inglese Devon Corporation), è una società fittizia presente nel mondo immaginario dei Pokémon. Vediamo invece cosa dice, testualmente, Il produttore di questo vino nel retro etichetta: "Devon. Circolo Polare Artico, ghiaccio, ghiaccio, ovunque ghiaccio che scivola, scricchiola, ringhia, ulula. Devon è il mio Greco di Tufo Docg, ottenuto dalla vinificazione in purezza di uve provenienti dei vigneti di Tufo...". Ognuno libero di trarre le proprie conclusioni. Certo si tratta di un nome strano, in quando con assonanze straniere, per un vino "regionale" italiano. Forse una passione personale, forse un rimando. "Così è se vi pare", citando un grande scrittore siciliano.
Letteratura Tedesca per Lettering Italiano
Questo produttore laziale con sede sul Lago di Bolsena, nel proprio sito web enuncia chiaramente le origini dei nomi della propria gamma di vini, tutti legati da un concetto abbastanza omogeneo. Ecco la descrizione dell'azienda: "I nomi dei nostri vini non sono casuali, ma nascondono della storia. Sono nomi legati a personaggi della letteratura tedesca che conoscevano e amavano l’Italia; Johann Wolfgang von Goethe, Heinrich Heine, Rainer Maria Rilke, Thomas Mann. Filippo: Filippo Muller pseudonimo usato da Goethe nel suo viaggio in Italia; Faustina: amante italiana di Goethe; Maddalena: nome di battesimo di Faustina; Letizia: maitresse descritta nell’opera “I bagni di Lucca” di H. Heine; Eleonora: dall’attrice Eleonora Duse di cui si innamorò perdutamente Rainer M. Rilke; Tadzio: il bel fanciullo raccontato nella novella “La morte a Venezia” di Thomas Mann; Lorenzo: lo spumante di Villa Caviciana". Come già detto altre volte non è consueto trovare una spiegazione chiara, sia pur breve, dei nomi dei vini di un'azienda. Si tratta questo di un caso ancora abbastanza raro. Lo riportiamo sperando che possa essere un esempio. In generale le etichette di questo produttore sono attenzionali, pulite, iconografiche, caratterizzate non solo dai nomi sopra descritti, ma anche da cromie differenziate e ben studiate, applicate a una grafica "family feeling", sempre della medesima matrice. Bello il grifone che caratterizza il marchio aziendale e tutta la produzione.
Vini e Volatili: Eno-logiche della Semantica
Fagiano, Barbera, Guerci.
Abbiamo (facilmente) scoperto che ci sono molte etichette di vini che "inneggiano" al fagiano, il nobile e gustoso volatile selvatico che tanti appassionati gourmet accolgono volentieri sulle loro tavole. Niente di strano, tradizioni del nostro bel paese. La stranezza semmai la fa questo produttore pavese, Guerci, che estrae dal cappello un fagiano dal design originale. Curioso notare che le altre etichette di questa azienda sono molto classiche, molto nella normalità. Per il barbera che si chiama appunto "Fagiano", l'azienda ha deciso di proporre un'etichetta dalla grafica moderna, inconsueta, soprattutto per la zona dell'Oltrepò Pavese, ancora ferma su posizioni "storiche" per quanto riguarda il packaging, almeno nella massima parte dei competitor. Colori forti su sfondo nero, carattere di scrittura (del nome) fantasioso e anch'esso non consueto, pulizia grafica, gradevolezza della percezione e quindi efficacia della comunicazione che, a nostro parere, anche nel piccolo spazio di un'etichetta può e deve agire. Aggiungiamo che il fagiano iridescente raffigurato in etichetta è dinamico, sinuoso, elegante, di valenze quasi artistiche. Alla base dell'articolo riportiamo un'altra etichetta interessante, anch'essa fuori dagli schemi classici, dove il soggetto è sempre un fagiano ma è uno di quelli che ha osato meno: insomma un fagiano che non ce l'ha fatta (i vini "fagiani" sono tanti, basta googlare la parolina e sbucano come funghi, che poi anche nel piatto ci stanno bene).
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