Del culatello abbiamo conoscenza tutti, almeno qui in Italia. Ma del culaccino? E soprattutto perché chiamare con un nome così buffo un vino? Al di là delle simpatiche battute che potrebbe provocare questo nome, a tavola, vediamo da dove nasce la questione. Prendiamo subito la definizione di Treccani e la riportiamo fedelmente (e ringraziamo la Madre di tutte le Enciclopedie): “culaccino s. m. [der. di culo]. – 1. Parte terminale di salami, salsicce e sim.; anche la parte inferiore di un cetriolo, accanto al gambo. 2. non com. a. Ciò che resta nel fondo di un bicchiere o di altro piccolo recipiente. b. Segno che lascia un recipiente bagnato sul luogo dov’è stato posato”. Ed ecco rivelato l’arcano. Il nome di questo vino, che potrebbe risultate ridicolo o canzonatorio, ha una precisa origine nella lingua italiana. Anzi, più di una. E sono tutte interessanti: il “culetto” del salame (chi non vorrebbe appropriarsene per godere di un boccone prelibato?) o del cotechino, quel che resta, l’ultimo “goccio”, nel bicchiere, e infine quella macchia a semicerchio che tutti conosciamo, lasciata dal “sedere” (a ridaje) della bottiglia o da un calice sulla tovaglia. L’etichetta in questo senso conferma: su un fondo cremisi vediamo, oltre al nome del vino in bella evidenza, alcune macchie di vino. Una di queste forma la “C” iniziale del nome. Che dire? Approvato con sorriso.