Castello di Monsanto.
Regna un po’ di confusione in questa etichetta figlia di quel “Regno del Sangiovese” che il Chianti da secoli si vanta di essere. Partiamo proprio dal nome “Sangioveto”, una arcaica denominazione che risale al 1590, quando nei primi documenti che parlano di questo vitigno si leggono anche altre varianti come “Sangiogheto” e “Sangioeto”. A tal proposito vi sono ancora oggi discussioni sul fatto che il vitigno toscano per eccellenza sia in realtà originario della confinante Romagna, prendendo il proprio nome dal Monte Giove, nei pressi di Sant’Arcangelo. Passando a una disamina specifica dell’etichetta, in ordine “di apparizione” dall’alto in basso (e quindi non in ordine “di grandezze” che vedremo poi) leggiamo Castello di Monsanto (marchio, anche se nella home del sito internet il “di” viene tolto), poi Fabrizio Bianchi (il fondatore e proprietario) quindi “dai vigneti di Monsanto” (ridondanza), poi l’annata, a seguire Sangioveto (nome del vino), Rosato (definizione), Toscana Igt e, inserita in una foglia di vite in basso a sinistra, la dicitura “Enotria tellure allatum” (in un certo senso, “Enotria terra perfetta”). Troppi elementi, tutti verbali tra l’altro. L’attenzione, insomma l’occhio, cade sì sulla parola più grande, Sangioveto, poi si perde nelle altre definizioni cercando un riferimento sicuro per quanto riguarda il logo. Il pregio di questa etichetta? Forse la classicità. Messa in discussione dal prodotto stesso, un insolito rosato da Sangiovese.