Chi Dice Donna Dice Rosato


Donna (Francesca Di Vaira), Cerasuolo d’Abruzzo, Fattoria Di Vaira.

Etichetta molto vistosa per il Cerasuolo (Montepulciano d’Abruzzo il vitigno) di questa estesa fattoria (530 ettari: la più grande azienda agricola del Molise) che produce moltissimi prodotti dell’agroalimentare, poi veicolati (anche) attraverso la catena di negozi Natura Sì. Packaging molto attenzionale per diversi motivi: innanzitutto il colore fucsia che compone la grafica nella sua interezza; poi il profilo di una donna, sulla sinistra, “scavato” nel taglio dell’etichetta e contornato in oro; quindi il nome del vino che ufficialmente è “donna”, scritto in oro, sottolineando una femminilità in rosa che si rispecchia nella tipologia del vino (rosato). Il luogo è comune: il vino rosa, in tutte le sue declinazioni, è un vino adatto alle donne (e da loro molto richiesto, si presume). Stereotipo che più a nord viene rifiutato ma che nel sud Italia forse permane, come per altre tradizioni patriarcali. Ma non vorremmo inoltrarci in questioni politico-sociali che non attengono a questo blog (alla comunicazione, comunque, sì). Tornando alle tecniche di packaging e della comunicazione, questa etichetta sicuramente si fa notare. Può piacere sia agli uomini che alle donne. Può fare buon lustro sulla tavola di tutti i giorni come su quella di occasioni speciali. Diciamo che una certa ricercatezza non fa mai male. Ultima notazione ma non per importanza: il logo Demeter in basso a destra. Una garanzia in più (per molti ma non per tutti). 

L’Alberello Pantesco, l’Etichetta Bianca e la Pietra Nera


Pietranera, Zibibbo, Marco De Bartoli.

Un’etichetta “tecnica” ma al tempo stesso semplice e iconografica. Divisa in due parti: a sinistra, cioè in pratica nella parte centrale, un fondo bianco con il nome del vino, “Pietranera”, l’annata, e la foto di una pietra lavica. In alto troviamo nome e logo del produttore (non granché il logo, con la “M”, la “D” e la “B” stilizzate). A lato in un tassello verticale nero, tutte le necessarie diciture di legge, con un innovativo QR code che porta all’etichetta ambientale. Un packaging facile da interpretare per un vino difficile da produrre. Stiamo parlando infatti di uno Zibibbo coltivato in condizioni (ventose) estreme sull’isola di Pantelleria. A questo proposito il produttore scrive nella scheda digitale del prodotto: “…una natura incontrastata, “burbera” forse come Marco. Ma da quella natura riuscì a capire, per primo, che vinificando le uve di Zibibbo, coltivate nella zona più esposte a Nord, in Contrada da Cufurà e Contrada da Ghirlanda, era possibile produrre un vino bianco secco dalle spiccate note minerali, aromatico, intenso e complesso.” E ancora: “2,500 ceppi per ettaro, coltivati ad alberello pantesco. pratica agricola dichiarata dall’Unesco Patrimonio Mondiale dell’Umanità. 50 q. di resa per ettaro vendemmiati la prima settimana di settembre. Dopo una selezione dei grappoli manuale, l’uva viene diraspata e delicatamente pigiata per avviare una macerazione a freddo per circa 24 ore. Dopo la pressatura soffice, il mosto, a bassa temperatura, resta a decantare per 48 ore. La parte limpida si avvia alla fermentazione in vasche di acciaio a temperatura controllata, a opera di lieviti indigeni. 6 mesi in vasca di acciaio”. Un vino bianco contraddistinto da una pietra nera. Non male come dicotomia di comunicazione. Il resto è passione e duro lavoro. Tradizione e decoro: perché anche e il fattore estetico di queste vigne ha la sua importanza.

La Solerte (e Soleggiata) Cura di un Vignaiolo Siciliano


Solerte, Zibibbo, Vino Lauria.

L’azienda Vino Lauria (facile l’assonanza con il nome del produttore, Vito Lauria) ha sede ad Alcamo, vicino a Palermo. La gamma dei vini si caratterizza con etichette molto vistose e davvero originali. Ad esempio questa, che veste la bottiglia di uno Zibibbio coltivato su terreni calcarei nei dintorni di Salemi. Nel packaging vediamo un viticoltore “armato” di zappa, intento a lavorare la vigna (di fronte a lui una vite con grappoli d’uva). Lo stile dell’illustrazione è vagamente futurista. Una serie di strisce colorate simulano i raggi di sole con un effetto grafico di sicura attenzionalità. Ma veniamo al nome del vino, anch’esso originale: “Solerte”. Parola desueta che Treccani commenta così: “dal latino sollers -ertis, composto di sollus "tutto" e ars artis "arte, attività". Di persona che compie il proprio lavoro o affronta i propri impegni con prontezza e rapidità”. Quindi ecco la rappresentazione di un viticoltore solerte. Attento e metodico nello svolgimento delle sue mansioni. E di questo la vite ha bisogno (l’azienda è in regime biologico) per generare uve che a loro volta sono chiamate a dare “forma” a vini di grande qualità. Una parola antica, con un concetto sempre attuale. Del quale il prodotto finale, naturalmente si avvantaggia.

Il Tesoro Enologico del Cilento


Fianoro, Fiano, Tenuta Macellaro.

Il nome di questo vino racconta tutto (o quasi): il vitigno, il colore, il valore, la passione soprattutto di questa piccola azienda famigliare da 7 ettari. Il produttore, Ciro Macellaro, inizia la propria attiività nel 2011, sulle orme del nonno agricoltore. Le vigne e la produzione sono a Postiglione, in provincia di Salerno, nel Parco Nazionale del Cilento. Perché “Fianoro” quindi? Per il vitigno, il Fiano Igp Paestum (uve sovramaturate, con macerazione delle bucce) e per il suo colore dorato (oro intenso). E aggiungiamo noi, per quel valore aggiunto che viene dato dalla passione per la viticoltura, in questo caso in regime biologico. Cosa possiamo aggiungere riguardo il packaging di questa bottiglia? Il nome spezzato non facilita la lettura ma la grandezza delle lettere incuriosisce e induce ad una maggiore attenzione. Bella e originale la rappresentazione di un grappolo d’uva sulla destra: tra arte moderna ed elaborazione grafica a contrasto. In alto a sinistra vediamo il logo e il nome aziendale, giustamente con inchiostro dorato, così come la dicitura del vitigno alla base dell’etichetta. Nel complesso siamo di fronte a qualcosa di semplice e diretto, ma anche originale e moderno. Un ottimo mix nel campo della tradizione e dell’innovazione.

Uno Stupefacente Franciacorta Biodinamico (e Domestico)


Ellesseddì, Franciacorta, 1701.

Queste bollicine bresciane che affermano di essere “il primo Franciacorta biodinamico” sono state battezzate in un modo bizzarro, cioè facendo riferimento a una nota droga sintetica: LSD. In uso soprattutto negli anni ‘60, la Dietilamide dell’Acido Lisergico è un allucinogeno creato da Alfred Hoffmann per la farmaceutica Sandoz di Basilea. L’uso “ricreativo” prese piede molto più di quello terapeutico. Ma torniamo alla stranezza di chiamare un vino “Ellesseddì” (questa è la dicitura esatta stampata in etichetta): la psichedelica proposta, che si manifesta anche con colori molto accesi, fa riferimento alla produzione del vino con “Lieviti Solo Domestici” (da qui la giustificazione della sigla, che però viene scritta per esteso). L’alcool non dovrebbe essere considerato come una droga (o forse sì? Ultimamente le precisazioni in merito si sprecano…) ma in ogni caso il riferimento a veri stupefacenti è molto rischioso. Diciamo coraggioso, azzardato. Certo se l’intenzione è quella di farsi notare, sia a livello cromatico che semantico, questa azienda è riuscita nel proprio intento. Per la cronaca, questa “droga legalizzata” costa 33 Euro a bottiglia. Il nettare spumeggiante viene prodotto con l’85% di uve Chardonnay e con il restante 15% di uve Pinot Nero. 30 mesi di permanenza sui lieviti, zero dosage. Al centro dell’etichetta, in alto, il logo dell’azienda che sostanzialmente è un numero: 1701. Apprediamo che si tratta di una data “…che si deve proprio alla prima annata di un vino prodotto dal “Brolo”: un suggestivo vigneto domestico cinto da mura dell’XI secolo”. Quanto meno qui la “sintesi” non è chimica, ma naturale!

Le Uve Mascarate di Vittoria


Maskarìa. Cerasuolo di Vittoria, Terre di Giurfo.

L’etimologia del nome di questo vino è davvero complessa e merita di essere approfondita. Alcune fonti dicono che potrebbe trattarsi di un’antica forma derivata dal latino tardo, del settimo secolo, per “masca”, che significa “strega”, o dall’italiano antico “màscara”, cioè “maschera”. In effetti in questa etichetta vediamo due maschere contrapposte, una rossa e una solo tracciata. Semanticamente si tratta di accezioni volte a indicare qualcosa di oscuro, come un volto coperto o camuffato. Questa stessa etimologia è propria anche dell’italiano “mascàra”, il noto trucco cosmetico per occhi usato per allungare, ispessire e, soprattutto, scurire le ciglia. In Sicilia, non solo una persona, ma anche il tempo può “mascariarsi”, cioè annerirsi quando il cielo terso si annuvola; così come l’uva, che si “mascaria” se diventa rancida e scura. E ancora: mascariaturi è chi imbratta qualcosa o infama qualcuno, mentre mascarò è un segno di sporco e mascarittedda è detta scherzosamente una donna brunetta, scura. Può anche capitare che qualcosa “si nun tinci mascarìa”, cioè “se non tinge sporca”, ossia che pur non facendo del tutto male lascia comunque un segno (tratto dall’interessante sito, SicilianPost, storie dalla Sicilia e dal mondo). Il Cerasuolo di Vittoria (nominato DOCG non molto tempo fa) si compone in effetti di due vitigni siciliani classici, il Frappato e il Nero d’Avola. Forse fa riferimento anche a questo la grafica in etichetta, con due personaggi che si confrontano mescolando le proprie caratteristiche. Resta ai consumatori un nome originale, che si fa notare, e che per ragioni di registrazione presenta una “k” al posto di una “c”. E un’etichetta scura, elegante, a tratti misteriosa, che rende il tutto memorabile. 

Un Bacio Svedese sulle Colline Maremmane


Rosato, Az. Agr. Prato al Pozzo.

Questa azienda famigliare toscana, sita in Cinigiano, in provincia di Grosseto, lavora solo 1 ettaro e mezzo di vigna e produce un numero limitato di bottiglie di vino (principalmente con i vitigni Sangiovese, Cabernet Sauvignon e Vermentino). Tra le altre etichette abbiamo scelto questa, del Rosato Igt, l’ultimo nato. Ci ha colpito logicamente quel “bacio” rosso al centro dell’etichetta. La traccia di due labbra che hanno rilasciato, al contatto, un rossetto. Può sembrare banale, e di fatto lo si è già visto in molte modalità, ma qui rappresentato, su fondo bianco, in modo se vogliamo sfacciato, è in grado di attirare attenzione e formare così un’ottima memorabilità. Design semplice, di pochi elementi: il colore rosso delle labbra lo ritroviamo nella data soprastante che indica l’annata. All’apice il nome dell’azienda, “Prato al Pozzo”, che indica chiaramente l’origine di questa scelta. Vino rosato uguale labbra femminili? Anche questo potrebbe apparite come uno stereotipo. Ma a volte i percorsi lineari, a livello di comunicazione e quindi di percezione, sono quelli che funzionano. E allora perhé non adottarli? Per la cronaca: i due titolari dell’azienda, Francesca e Fabio, sono italiani, mentre Olle Anderson, il creatore delle etichette di questa azienda, è un designer svedese. Unione di intenti e brindisi per tutti quanti.

Come uno Champagnino ha Perso la Sua Francesità


Sampagnino (ex Champagnino), Bianco Ancestrale, Bulli.

La strana ma comprensibile storia di come un vino “mosso” italiano ha perso il suo “accento” francese. Questo vino frizzante ottenuto da vari vitigni bianchi delle Colline Piacentine una volta si chiamava “Champagnino”. Le motivazioni sono facilmente intuibili: un piccolo Champagne… di campagna (le dolci colline che incorniciano la Pianura Padana a sud di Piacenza). Ma si sa che i francesi sono suscettibili, soprattutto quando si tratta di andare a ledere interessi elevati come quelli legati alla produzione e alla commercializzazione di Champagne. In questi casi dalle vigne saltano fuori avvocati come funghi. E allora è meglio scendere a compromessi magari andando a pescare in inflessioni dialettali locali come per “Sampagnino”. Per il resto, Bulli, questa piccola azienda piacentina (solo 10 ettari allo stato attuale) ha mantenuto inalterate tradizioni ed emozioni, con una agricoltura rispettosa dell’ambiente e niente chimica (o comunque pochissima) sui grappoli. L’etichetta si presenta all’antica, con caratteri di scrittura graziati, cornici decorative classiche, logo che richiama sensazioni di secoli passati. Ma il mondo del vino secondo gli usi e costumi del luogo è proprio quello lì. Così come fanno anche molti produttori francesi dello Champagne che prima di abbandonare certe etichette vintage ci pensano bene. E allora avanti con le bollicine del Bel Paese: onore alle tradizioni enogastronomiche del nostro lato delle Alpi. E salute!