Tre Allegre Comari di Campagna

Champagne Blanc de Noirs, Pinot-Chevauchet.

Che il Pinot Meunier, tra i vitigni a disposizione di chi produce Champagne, possa risultare quello più campagnolo ci può stare. Che un produttore di Champagne potesse decidere di mettere in etichetta tre improbabili comari, risulta meno plausibile. Certamente l’etichetta in questione si fa notare. Allegra, colorata, giocosa, dissacrante. Improbabili anche i vestiti delle tre figure femminili protagoniste di questa fantasiosa label di Champagne. Curiosi i loro nomi che troviamo sopra le rispettive teste: Pierrotte, Marie-Mulotte e Neuville. Sulla borsetta di quella col cappello, quella più a destra, vediamo scritto “Extra Brut”. Hanno le gote rosse, probabilmente sono delle ottime degustatrici. Generano simpatia, attenzione, e in un certo senso, affetto. Siamo sicuramente molto lontani dallo stereotipo delle etichette di Champagne, ma non ce la sentiamo di bocciare questa etichetta. C’è dell’ironia. C’è il coraggio di essere diversi. E di non prendersi troppo sul serio. Una particolarità: il produttore si chiama Pinot (come la nota famiglia di vitigni) Chevauchet. Un segno del destino.


Sotto al Cappello c’è di Più

Ribolla Gialla, Klanjscek.

L’originalità di questa etichetta non è in discussione. Innanzitutto la cartotecnica: un taglio decisamente particolare, appuntito nella parte bassa, fustellato sulla destra, intagliato al centro. Un tipo di packaging che potrebbe far arretrare chiunque, anche solo a progetto. E invece, questo piccolo produttore di Oslavia, nel Collio Goriziano (ad oggi solo 15.000 bottiglie/anno) si cimenta nella produzione di una etichetta difficile da realizzare e anche da far capire. Ma guadagna in attenzione e distinguibilità. Il vino non ha nome, per la dichiarata intenzione del titolare di valorizzare il cognome di famiglia e quindi la tradizione storica e produttiva del nonno. L’etichetta è un omaggio all’avo vignaiolo, ecco cosa leggiamo nel sito internet dell’azienda: “Se ora produciamo vino è grazie al lavoro iniziato da nonno Federico, per noi tutti Mirko, contadino solido, uomo tutto d'un pezzo, che non ha mai lasciato la vigna durante la sua vita. Un'eredità la sua non certo solo concreta, ma di valori che vogliamo tramandare, che esprimiamo con il nostro impegno, con i nostri vini ma anche dedicandogli la loro etichetta. Nonno Mirko indossava sempre il suo “slamnik”, forse non l'abbiamo mai visto separarsi da quel cappello di paglia! Le nostre etichette portano il nome di famiglia e il ricordo di nonno Mirko con questa pennellata incisiva, greve, che però è dolce ad un tempo e quasi accarezza il suo volto con il cappello in testa”. Un bel racconto, una bella storia, anche se vicenda di molti, ma che in questo caso acquista simpatia e riconoscibilità grazie alle sottolineature narrative e cromatiche che diventano un tutt’uno in etichetta. Un ottimo esempio di coraggio e determinazione.

Parole Come Riccioli d’Oro

Sofia, Chardonnay, Molino Vini.

Questa donna (e questo vino) si chiama Sofia (nell’etichetta è scritto in minuscolo: “sofia”). Il profilo femminile dorato, nella parte dei capelli, si dipana in una serie di “riccioli di parole” che da lontano vengono percepiti come chioma fluente, ma avvicinandosi alla bottiglia (o ingrandendo l’immagine) si riescono a leggere. Purtroppo la curiosità viene subito ridimensionata: le parole sono ripetitive e di fatto si tratta di solo tre accezioni, Morbido, Vellutato, Armonico che si inseguono all’infinito. Sarebbe stato bello leggere qualcosa di più, fornire cioè a questi capelli d’oro la possibilità di raccontare una storia, o di esprimere più concetti. L’immagine della donna sognante dai capelli parlanti è purtroppo “sporcata” da 4 pallini neri, una specie di costellazione della quale non comprendiamo fino in fondo le finalità. Il marchio del produttore, posto alla base dell’etichetta, si presenta con una grande M (la famiglia si chiama Molino) affiancata dalla stilizzazione di una torre antica e i “soliti” 4 pallini, questa volta allineati in basso. Potrebbe essere che queste presenze puntinate possano fare riferimento ai 3 fratelli (più un nipote che fa 4) che compongono ufficialmente la compagine professionale dell’azienda. La bottiglia è caratterizzata dalla classica scritta “Albeisa”, in rilievo, nella parte alta subito sopra all’etichetta. Ottima idea di comunicazione adottata anni fa dall’associazione dei produttori di Alba (albesi) per distinguersi elegantemente.

American Girl in Italian Label

Hey Girl!, Pinot Nero (rosé), Old Boy.

L’azienda si dichiara apertamente négociant, cioè collabora con i vignaioli ma in sostanza non produce vino, lo commercializza, sia pure assistendo attivamente a tutte le fasi di allevamento delle uve e di lavorazione del vino. Due fratelli, bocconiani, Alberto e Valeria, che usciti dalla dimensione “milanese imbruttito” si sono lanciati in una avventura più bucolica (sia pure con le leve del marketing ben presenti). A conferma di quanto scritto sopra e affermato dai titolari, sotto al marchio “Old Boy” si legge “wine négociant”. Il nome aziendale, secondo quanto affermato dai fondatori “si ispira al film coreano vincitore del Gran Prix della Giuria al festival di Cannes nel 2003. Un film diretto, un po’ torbido, che ti si conficca nell’anima. E questo è lo stile del nostro marchio e dei nostri vini. Le nostre passioni e i nostri modi di esprimerci vengono reinterpretati nel vino che facciamo”. Il nome del vino invece è “Hey Girl!”. Molto americana l’etichetta, nei colori e nella grafica. Sicuramente fuori degli schemi, certamente attenzionale, a suo modo innovatrice e trainatrice di un certo modo di fare comunicazione, soprattutto per quei vini “beverini” che soddisfano bene le moltitudini aperitivanti. Un particolare: “rosé” è scritto in etichetta con l’accento invertito (“rosè”), forse un errore, forse si intendeva riferirsi a “osé”, come indica il cromatismo in rosso della scritta. Sebbene errato anch’esso. Non giudichiamo, ma segnaliamo.

Moscato in Musica per Anime Gaudenti

SiFaSol, Moscato Bianco 
di Canelli, Scagliola.

Stiamo parlando di una tipica azienda vinicola famigliare del Piemonte. Il nonno inizia l’attività e oggi nipoti e pronipoti la portano avanti innovando nel segno della tradizione. In Piemonte, infatti, più che in altre regioni d’Italia, il “come si è sempre fatto” è un aspetto ancora molto rispettato. Qualcuno però prova a cambiare le regole, se non nella produzione del Sacro Nettare, almeno nella comunicazione, a partire dalle etichette. Questo packaging, dedicato al classico Moscato Dolce di quelle zone, si fa notare per anticonformismo, originalità e, giustamente, frizzantezza creativa. Attira il lay-out di sfondo che presenta le bollicine del vino e le colline che le originano con delle artistiche pennellate e macchie di colore. Non è bellissimo e nemmeno ben integrato nell’elaborato, il nome del produttore in alto. Ma soprassediamo. Anche perché il nome del vino, messo in bella evidenza, ha il pregio di fornire un’altra “scappatoia” alla mente: SiFaSol, tre note, si immagina allegre, che concettualmente si collocano su quello spartito artistico e pittorico dello sfondo e che,  in questa successione, dicono anche qualcosa di più: “si fa sole”. Il calore del sole trasforma la linfa in succo zuccherino e l’uva “si fa di nuovo sole”, nel vino, in bottiglia. Un sole che si ritrova nel calice e che fa risplendere i sorrisi di chi lo sa apprezzare con animo gaudente. 

Un Nome Senza Cuore

O.N.S. (One Night Stand), Colle del Bricco.

Si avvicina, come ogni anno, San Valentino. Il fatidico 14 febbraio. E con esso i negozi, i prodotti e anche le etichette, si riempiono di cuori, angioletti e ammiccamenti vari. Non trovando riferimenti in internet riguardo a questa etichetta di Colle del Bricco, immaginiamo possa essere una edizione speciale proprio in occasione del “Santo degli Innamorati”. Tutto sommato il vistosissimo cuore rosso al centro del design parla da solo. Risulta anche simpatico, quell’angioletto pingitore che sta completando la sua opera. Sorretto da una nuvola si allunga verso il cuore (si direbbe) con una specie di pennello telescopico. Fin qui tutto bene, sfondo blu notte, originalità, simpatia. Ma giungendo ad analizzare il nome del vino arrivano i problemi. Perché in inglese? Primo dubbio. E perché presentarlo con un acronimo (O.N.S.)? Si perde la poesia costruita con l’illustrazione. Il nome diventa qualcosa di “tecnico” e il tutto perde armonia. Tra l’altro, graficamente, la scritta del nome in alto sembra disassata (non centrata) rispetto all’illustrazione al centro. Insomma, una maggiore coerenza avrebbe giovato al romanticismo.

Quel Gran Tocco di Rosatello

Mormaj, Colline Pescaresi Igt Rosato, Tocco d’Italy.

L’analisi di questa etichetta non è facile. Non c’è niente da dire e forse ci sarebbe molto da fare. La semplicità, certo, è una delle chiavi di volta del packaging. Ma in questo caso viene espressa con elementi che non incidono e con qualche discrepanza. Quello che vediamo è una collina rosa (il vino è un rosato: ci può stare) che potrebbe rappresentare anche il fluido stesso contenuto nella bottiglia. Il nome del vino, scritto con un carattere poco leggibile, richiama assonanze orientali, nipponiche, fuorviando la comunicazione. Come nasce questo nome? Dall’unione di Monti MORrone e MAJella, dalla toponomastica dove ha sede l’azienda vinicola in questione. Nome di fantasia ma “pescato” un po’ a caso, generando un nome sicuramente fonetico (rotondo) ma poco significativo, quindi poco memorabile, se non viene spiegato. “Mormaj” richiama, “ormai”, oppure un “mormorare” e anche la parola “mai”. Insomma, leggendolo, il cervello cerca appigli e non trova nulla di interessante. Per il resto l’etichetta si presenta in bianco con scritte di legge centrate. Ultima osservazione: il nome del produttore “Tocco d’Italy”. A parte il suo significato esplicito, deriva anche dal fatto che la sede dell’azienda si trova a Tocco da Casauria (nome di località alquanto particolare). Avremmo preferito un più lineare Tocco d’Italia, avrebbe avuto senso e comunque leggibilità anche all’estero, senza imitare per forza i noti Eataly e Vinitaly.

Gli Amici del Nemico sul Lago di Nemi

Nemico, Malvasia di Candia e Trebbiano, Icaro (I ca ro) Vino.

Sotto il cappello concettuale del claim “Vini imprudenti dei Castelli Romani”, presentato nel sito web, si cela questo bianco dall’etichetta quanto meno bizzarra. Ma vediamo prima i nomi che caratterizzano questa proposta. “Nemico” è il nome del vino: deriva dal Lago di Nemi che si trova nei pressi della cantina a Genzano di Roma. Icaro è il nome dell’azienda produttrice. Non abbiamo idea della ragione per cui viene scritto in questo modo (I ca ro), si presume prendendo parte dei nomi dei tre amici fondatori. Veniamo alla grafica dell’etichetta. La modalità con la quale si è deciso di proporre le informazioni può ingannare: il nome Icaro più in grande farebbe pensare al nome del vino, mentre Nemico in piccolo e in basso potrebbe essere il nome della cantina. Invece è l’opposto. In alto vediamo una specie di logo: un grappolo fumettato con gli occhiali da sole. Un grappolo “rock” con le gambette e le braccia. Non bellissimo, piuttosto techno. I caratteri di scrittura dei testi presenti nel packaging sono molto duri, squadrati, tipografici, statuari. Richiamano una certa rigidità grafica. Alla base un tassello colorato, giallo pallido, dello stesso colore del grappolo in alto. Che dire? Non vogliamo utilizzare parole scomposte per esprimere giudizi: l’etichetta è già abbastanza “scomposta” di suo.

Un Viaggio Andata e Ritorno

Portami Via, Ciliegiolo, Podere Sassi.

Tra le etichette coraggiose, innovative, senza remore, annoveriamo sicuramente questa, relativa a un Ciliegiolo in purezza, nato ai confini tra Umbria e Lazio. Piccola azienda biologica che ha scelto la simpatia per caratterizzare le proprie etichette. Valga come esempio questo “Portami Via”, corredato da un razzo extraplanetario (gli altri nomi dei vini in gamma non sono da meno: Coraggio, a Riveder le Stelle, i Sogni, a Piccoli Passi, Evviva). Il packaging è semplice: fondo nero sul quale appaiono il nome del produttore, il nome del vino, un razzo che si allontana dalla terra, la dicitura vino rosso. Al posto del classiamo puntino, sulla “i” di “Portami” c’è una stella, probabilmente quella polare, ad indicare la via. Il senso di tutto ciò cerchiamo di definirlo noi: il vino genuino, quello che non fa male, come veicolo di “viaggi” sensoriali e psicologici che attuano il distacco da una realtà a volte ingombrante. In ogni caso un viaggio tra i colori, i profumi, la storia, la cultura e la tradizione del vino. Certo che questo allontanamento da Madre Terra fa pensare. Diciamo che è previsto anche il ritorno, come nelle moderne navicelle spaziali che hanno esplorato il cosmo negli ultimi anni.

Pino, Pigne e Pinot inTerra Alsaziana

Pino, Blend di Pinot, Geschickt.

Questo vino si chiama “Pino”. La rima non è voluta, anzi è una stranezza perché a fronte di un nome in italiano il produttore è francese. Se francesi si possono considerare gli alsaziani (loro sono più contenti se li definiamo tedeschi: il cognome del produttore è eloquente). Siamo dunque di fronte ad una etichetta particolare, anche nella grafica, come si può vedere. Il modo di scrivere il nome, il suo colore, la disposizione degli elementi: davvero poco classica, davvero molto “antagonista”. Ma perché chiamare un vino “Pino”? La risposta sta nella composizione dell’uvaggio: Pinot Auxerrois, Pinot Blanc, Pinot Noir e Pinot Gris. Più “Pinot” di così non si poteva. Tutti insieme. Si sa che le uve Pinot in genere, prendono questo nome per la conformazione del grappolo, a forma di pigna. Tornando al nome di questo vino e a come viene presentato in etichetta notiamo che la “i” di Pino può essere anche una “t” svelando, in un certo modo, l’arcano. Certo che l’etichetta risulta molto diversa da quelle in uso in quella zona vinicola. E anche il coraggio di chi l’ha pensata e adottata è encomiabile. 

La Perfezione dell’Imperfezione

Imperfetto, Cabernet Sauvignon, Imperiale.

Nulla è perfetto o almeno niente dovrebbe esserlo, a voler guardare a certe filosofie orientali che molto hanno da insegnare in Occidente. Diciamo subito che il vino in questione costa attorno ai 50 Euro (a bottiglia, non a “cartone”) e questo, forse, è il primo segnale di “imperfezione” (del tutto soggettivo, logico). Il nome del vino, “Imperfetto” viene concettualmente confermato da una delle più strane etichette in commercio, in quanto incollata storta. Quindi non tanto per la grafica che si presenta molto normale, classicheggiante, senza guizzi se non, appunto nel nome, a denunciare una imperfezione (negative approach, si chiama, in comunicazione). Quindi abbiamo un’etichetta storta, asimmetrica, diagonale, tangenziale, anomala, sincopata. Anche il rettangolo in alto (unica concessione a una forma illustrativa), contenente il profilo di una donna, molto fashion, è posto in modo disassato. Per il resto, scritte centrate e ordinate. Se vogliamo cercare un’altra imperfezione la troviamo nel fatto che, come spesso accade nelle aziende vinicole, ci sono molti nomi ai quali fare riferimento: il dominio del sito è “Imperiale Bolgheri”, il nome ufficiale dell’azienda sembra essere “Imperiale”, ma si trova spesso, anche sulle etichette, il nome del titolare, Matteo Frollani. Sarebbe molto meglio prendere una direzione unica e definitiva. Della presunta ed eventuale imperfezione del vino (cioè a cosa sia legato il nome in questione, oltre alla “stortatura” della cartotecnica) non vi è traccia nel racconto che troviamo nel web del produttore. Troviamo però una cosa curiosa nello shop on-line: un merchandising a marchio aziendale che propone T-shirt e occhiali da sole: il mondo è bello perché vario (e con idee sempre nuove).