Tradizione e Innovazione nel Roero Storico
Una Sferzata di Arancione in Quarta Posizione
Quarto Colore, Pampanuto,
La cantina in oggetto, pugliese, è nota soprattutto per il Primitivo che vinifica in vario modo, da rosso riserva a rosato. Ha attirato però la nostra attenzione questo vino “orange” per alcune curiose caratteristiche, del vino stesso, nascendo da vitigno Pampanuto, e dell’etichetta. I nome è “Quarto Colore” e subito siamo portati a osservare la pennellata arancione che campeggia sulla quasi totalità del packaging. Vino “orange” etichetta arancione, tutto torna. Ma perché “Quarto Colore”? Osservando il catalogo vini dell’azienda notiamo che ci sono altre 4 etichette con pennellate di colore: una nera, una rossa, una viola (per i tre vini a base Primitivo) e una verde (per il Fiano). Evidentemente nell’ordine espositivo che il produttore ha in mente, il vino orange viene dopo i tre Primitivo ma prima del Fiano, cioè in quarta posizione. Accettiamo questa interpretazione (anche perché non ne abbiamo un’altra). Alcune osservazioni: sotto al nome del vino leggiamo la frase “cambiamo le regole” (forse un grido di protesta) e ancora sotto “Bio” (dovuta precisazione). In basso a destra il nome e il logo del produttore. Nel sito dell’azienda notiamo anche il pay-off: “i giardinieri del vino”. Tutta la produzione è a regime biologico e l’azienda ci tiene in particolar modo a sottolineare questo impegno produttivo. L’etichetta, concludendo, si presenta d’impeto con uno stile moderno, la pennellata di colore non è originalissima nel mondo della comunicazione del vino ma riesce comunque ad essere distintiva e ad attirare l’occhio.
La Forma e la Sostanza: Etichetta in B/N dal Colorado
Pinot Bianco, Wander + Ivy.
Si tratta forse di un profumo? Di un’acqua di Colonia? Di una lozione? No, come sempre in questo blog si tratta di vino. Questa volta in una confezione, una veste, un packaging decisamente insoliti (in formato da 187ml). La società che produce questo bianco è americana (la sede è a Denver, in Colorado) ma come si può leggere in questa etichetta, l’azienda produce (in verità imbottiglia) anche vini italiani. Oltre alla forma della bottiglia e alla sua “misura” ridotta, anche il design in etichetta ricorda qualcosa di cosmetico o di farmaceutico. Come afferma l’azienda, siamo di fronte a una precisa scelta di marketing. Per distinguersi dalla concorrenza attraverso elementi di qualità che rispecchino il valore del prodotto stesso (almeno così affermano nel sito dedicato). I vini in gamma provengono da varie parti del mondo, dalla California (Chardonnay) alla Spagna (Bobal e Merlot). Per l’Italia viene proposto il Pinot Bianco. Ogni tipologia di vino viene accompagnata dalla illustrazione di un animale: un orso per la California, un Toro per la Spagna, un Lupo per l’Italia. Gli animali sono nell’atto di interagire con un grappolo d’uva. Il risultato, in generale, è una percezione di cura, eleganza e qualità, sia pure per mezzo di canoni comunicativi che in Europa probabilmente risulterebbero strani. Per il mercato americano, australiano, giapponese… chissà, forse questo stile anacronistico potrebbe sortire effetti commerciali positivi. Noi continuiamo a preferire una bottiglia vera e propria e un tappo di sughero. Ai posteri l’ardua sentenza. Alla tavola il piacere del gusto.
Lupi Laziali dalla Livrea Arancione
Mannaro, Trebbiano e Malvasia, Sassopra.
Si sa che “Mannaro” è il lupo, quello delle leggende e dei racconti. In questo caso sembra che il concetto prevalente sia quello della trasformazione: cioè il passaggio dalle uve “fresche” a un vino supermacerato (si parla di 130 giorni) dal colore e dalla personalità “orange”, ad alcuni piacendo. Certo che quel nome così fortemente espresso in rosso e a grandi lettere (soprassediamo sulla leggibilità, senza dubbio difficoltosa) mette un po’ di soggezione (oltre che l’eventuale, e in qual caso positiva, suggestione). L’immagine evoca un buio boscoso e misterioso, qualcosa come nel racconto di Cappuccetto Rosso, ma anche da Profondo Rosso, celebre film del regista Dario Argento. Tra l’altro le scelte cromatiche in etichetta potrebbero adattarsi di più a un vino rosso, piuttosto che a un bianco (mascherato di arancione). Qualche osservazione anche sul nome dell’azienda, “Sassopra”, che ha sede nel Lazio (5 ettari ad opera di Marta e Federico, la coppia di proprietari, nonché Mala e Temu, i loro due cavalli). Molto probabilmente si tratta di una fusione tra “sasso” e “sopra”, ad indicare una sporgenza, un rocca, un masso, dall’alto prominenti. Il neologismo funziona a livello fonetico, un po’ meno a livello mnemonico. L’azienda è condotta a regime agronomico biodinamico. I nomi degli altri vini in gamma sono: Bianco di Sassopra, Rosso di Sassopra, Turresti (Malvasia e Bombino), Ramoso (Sangiovese vinificato in bianco insieme alla Malvasia) e Mosso (Malvasia e Trebbiano).
Nero d’Ossidiana, Rosso di Pantelleria
Rosso dei Sesi, Terre Siciliane,
Questa austera ma elegante etichetta viene da Pantelleria e da un produttore che coltiva un piccolo patrimonio di tre ettari e mezzo di vigne ad alberello. Rese bassissime, passione altissima. Si tratta di un rosso composto dai vitigni Pignatello e Carignano. Solo 1000 bottiglie. Ma le sue particolarità non finiscono qui, anzi iniziano proprio dal suo nome: “Rosso dei Sesi”. Si va infatti a scoprire che la civiltà dei sesioti abitò l’isola 2000 anni prima di Cristo per lavorare l’ossidiana, una pietra vetrificata vulcanica, a lungo considerata l’oro della preistoria. Un omaggio alla storia millenaria di questa piccola isola dalle risorse inesauribili, minerali sotto terra, meteorologiche alla luce del sole. Ma torniamo a questa etichetta dal colore di fondo nero (come l’ossidiana) e dai caratteri gentili. Al centro il nome del vino (non molto leggibile, cromaticamente, forse poteva essere reso in rilievo), in alto l’annata, in basso il nome e marchio del produttore. Nient’altro. Solo essenza, come del resto dentro la bottiglia: niente solfiti (e niente lieviti) aggiunti. Per quanto riguarda le vigne, solo vento e sole (e sottosuolo): le scelte estreme del produttore non concedono alcun tipo di concimazione. D’altro canto con una terra così sarebbe ridondante.
Dipende dai Punti di Vista
Unione d’Intenti (e di Assonanze) tra Siviglia e Sicilia.
Griddu Verde, Grillo, Dos Tierras (Badalucco).
Il progetto aziendale prevede una specie di scambio culturale e colturale tra Spagna e Sicilia. I due titolari dell’azienda che ha sede a Petrosino, tra Marsala e Mazara del Vallo, si chiamano Beatriz De La Iglesia Garcia e Pierpaolo Badalucco. Lei dalla Spagna ha portato vitigni iberici, lui ci ha messo i vigneti di famiglia. Non si sono però dimenticati degli autoctoni siciliani, come il Grillo che presentiamo qui a sinistra. Il nome del vino, per chi non è avvezzo all’’idioma dell’isola, potrebbe ingannare: “Griddu” non è un grido, bensì il nome del vitigno in dialetto. E “Verde” è un chiaro richiamo alla viticoltura biologia e biodinamica che caratterizza l’azienda. Sul lato sinistro dell’etichetta, in verticale, una citazione di Leonardo Sciascia: “Non so perché, dei paesi e delle città della Spagna non ho memoria (…) e anche a Siviglia mi pareva a momenti di camminare per le strade di Palermo intorno a piazza Marina…”. Un omaggio a Sciascia ma anche a Beatriz che è proprio originaria di Siviglia. La comunanza, di coppia, di vitigni, di terre, di paesaggi e magari anche, in parte, di tradizioni, forse di temperature, è compiuta nel segno del vino, che non conosce “limiti e confini” (citando a nostra volta Mogol). La grafica in etichetta è semplice, diretta, ma riesce comunque ad attirare l’attenzione.
La Tribù dei Vini Pallidi
Il Pallido e l’Altro Pallido,
L’azienda vinicola dell’attuale proprietario ed enologo Enrico Orlando deve il suo nome alla trisnonna Enrichetta. Laddove “Ca’ Richeta” significa “Casa di Enrichetta”. A proposito di nomi originali, a dirla tutta, il nome completo della trisavola è Enrichetta Amandola Morando. Anche i nomi dei vini in gamma non smentiscono l’indole creativa della famiglia con nomi come ModetMonet (Chardonnay e Riesling), Dlà (Nebbiolo), Crussi (idem) e per le due etichette qui raffigurate, “il Pallido” (rosato da Pinot Nero e Cabernet) e “l’Altro Pallido” (spumante rosé da Nebbiolo e Pinot Nero). Evidentemente questi due nomi derivano da una osservazione ottica dei vini che risultano particolarmente eterei (di colore), salvo il fatto che in italiano essere pallido (emaciato) non è qualificante. Per i rosati, comunque, anche un tono tenue di colore (alcuni dicono “buccia di cipolla”) può essere caratterizzante. Curiosa l’escalation semantica che accomuna i due vini. Attira l’attenzione. Graficamente le due etichette si connotano con archetipi classici, decorativi, e con il nome del produttore che prende molta importanza, in alto, con una dimensione certamente notabile. Qualche riserva sull’impaginazione generale e sullo stile, permane.
I Merli dei Castelli non Sempre Sono Marroni
Monterosso Val d’Arda, Cantine Casabella.
Alcune particolarità di questo vino e della sua etichetta: la Doc è davvero poco conosciuta, si tratta della denominazione “Colli Piacentini Monterosso Val d’Arda”. Prende il suo nome da una collina che si trova alle spalle del noto borgo di Castell’Arquato, logicamente in provincia di Piacenza. Si tratta di un vino bianco che può avvalersi dei vitigni Malvasia Aromatica di Candia, Moscato Bianco, ma anche, all’occorrenza, di Trebbiano Romagnolo, Ortrugo, Sauvignon e dello sconosciuto Bervedino (o Berverdino che dir si voglia): l’uva di questo vitigno assume, a maturazione, colori ambrati un po’ come per l’Erbaluce (con il quale, infatti, venne per molto tempo confuso). Una particolarità, davvero sorprendente e conseguente, è che a fronte di una Doc che si chiama “Monterosso”, abbiamo un vino bianco. Cortocircuito mentale e gustativo. Per quanto riguarda l’etichetta notiamo l’originalità di una costruzione (un castello) di colore verde mare. Per un vino bianco ci può stare, anche se il colore è davvero insolito (nota positiva: si distingue subito sullo scaffale di vendita). Etichetta davvero “ottica” con scritte molto marcate, visibili, con uno stile moderno, forse fin troppo impattante ma sicuramente efficace. Insomma c’è poca tradizione, se non nei merli del castello color “acquamarina”, però l’etichetta recupera in leggibilità e impatto.