Mannaro, Trebbiano e Malvasia, Sassopra.
Si sa che “Mannaro” è il lupo, quello delle leggende e dei racconti. In questo caso sembra che il concetto prevalente sia quello della trasformazione: cioè il passaggio dalle uve “fresche” a un vino supermacerato (si parla di 130 giorni) dal colore e dalla personalità “orange”, ad alcuni piacendo. Certo che quel nome così fortemente espresso in rosso e a grandi lettere (soprassediamo sulla leggibilità, senza dubbio difficoltosa) mette un po’ di soggezione (oltre che l’eventuale, e in qual caso positiva, suggestione). L’immagine evoca un buio boscoso e misterioso, qualcosa come nel racconto di Cappuccetto Rosso, ma anche da Profondo Rosso, celebre film del regista Dario Argento. Tra l’altro le scelte cromatiche in etichetta potrebbero adattarsi di più a un vino rosso, piuttosto che a un bianco (mascherato di arancione). Qualche osservazione anche sul nome dell’azienda, “Sassopra”, che ha sede nel Lazio (5 ettari ad opera di Marta e Federico, la coppia di proprietari, nonché Mala e Temu, i loro due cavalli). Molto probabilmente si tratta di una fusione tra “sasso” e “sopra”, ad indicare una sporgenza, un rocca, un masso, dall’alto prominenti. Il neologismo funziona a livello fonetico, un po’ meno a livello mnemonico. L’azienda è condotta a regime agronomico biodinamico. I nomi degli altri vini in gamma sono: Bianco di Sassopra, Rosso di Sassopra, Turresti (Malvasia e Bombino), Ramoso (Sangiovese vinificato in bianco insieme alla Malvasia) e Mosso (Malvasia e Trebbiano).