Una Goccia di Nettare Laziale, Rosato e Dorato

Rosato, Gotto d’oro.

Che dire? L’allegorico carretto che è stato eletto a simbolo di questa grande cantina cooperativa è ormai nell’immaginario collettivo. La maggior parte del popolo italiano si è abituato a vedere questa etichetta sugli scaffali della grande distribuzione. Molto colorato il soggetto illustrato, molto colorato in generale il packaging, capace di attrarre l’attenzione grazie alla prevalenza del giallo, un “codice colore” poco utilizzato in Italia (tipico, ad esempio, per i vini alsaziani). Il nome dell’azienda e di conseguenza di questa linea di vini è “Gotto d’oro”: il richiamo è alla tradizione, a una certa antichità, con la parola “gotto”, dal latino “guttus”, cioè recipiente di vetro utilizzato per bere, bicchiere, boccale, tazza o vaso. Ma troviamo anche un’origine in “gutta”, cioè goccia, stilla. Insomma, è una parola “vecchia” ma bella, e per di più è breve e suona bene. E poi c’è l’oro, che nobilita, aggiunge valore, immancabilmente. Per il resto l’etichetta tradisce caratteri di scrittura graziati e arcaici, con buon ordine grafico e delle proporzioni, nonchè possiamo notare una cornice antica che contiene e raggruppa gli altri elementi. Il risultato è gradevole, il prodotto non perde di valore, nonostante il posizionamento di prezzo e di marketing. Per quanto riguarda l’invito all’assaggio, lasciamo fare agli affezionati e fedelissimi clienti di questo marchio.

Un Futuro un po’ Troppo Futuro

Alba, Blend di Rossi, Luigi Drocco.

Diciamo subito che di vini che si chiamano “Alba” ce ne sono molti, forse troppi. Tra il riferimento al sorgere del sole e quello alla cittadina, capitale italiana del Nebbiolo. In questo caso quella piccola ma molto visibile variazione, la “a” finale rovesciata specularmente, consente di ottenere una furtiva attenzione, permettendo alla bottiglia di distinguersi meglio (tra tutti gli altri vini che si chiamano “Alba”). L’etichetta è tutta molto particolare, si potrebbe dire anche strana. Le sagome di una bimba e di un bimbo giocano a palla. La sfera dorata che vola sopra le loro teste potrebbe essere anche il sole. Sullo sfondo ombre plumbee e onde collinari. Il tutto in una situazione modernista che non convince. Saranno i toni scuri, l’ambientazione fantascientifica, lo stile molto asciutto, fatto sta che la grafica non conquista. Sembra di essere in un mondo post-atomico dove gli esseri umani somigliano molto a degli automi. E dove la natura ha dovuto cedere il passo a qualcosa di tecnocratico. In basso, inciso dentro a un mezzo globo tutto nero, leggiamo il nome/marchio del produttore. In generale si è forse cercato di ottenere una spiccata originalità forzando la mano verso mondi percettivi che non appartengono al settore del vino. La tenerezza di due bimbi, i nipoti del fondatore, futuro dell’azienda, come spiegato nel sito del produttore, diventa una posa plastica, un po’ artificiosa e senza quell’emozione che ci si auspicava.

Un’Alta Langa che Vuole Fare la “Modella”

Limited Edition, Brut Alta Langa, Fontanafredda.

Questo spumante Metodo Classico piemontese è una limited edition senza esserlo. Potrebbe sembrare un gioco di parole ma è la realtà. Il vino si chiama effettivamente “Limited Edition” ma la sua produzione non è limitata e non rientra in quella tipologia di vini che viene prodotta “una tantum”. Ma il nome rende l’idea, cioè sposta la percezione su qualcosa di prezioso e di unico. Un nome scaltro, che sfrutta il significato che ormai è stato sdoganato internazionalmente dall’inglese: viene accolto come un prodotto speciale, da portare in tavola nelle grandi occasioni. Forse è proprio questo il suo unico limite. Per quanto riguarda il packaging nel complesso si presenta molto elegante, ordinato, con scelte legate al carattere di scrittura molto studiate. Il nome del produttore, alla base, è in grande evidenza, forse più del nome del vino. Una scelta di marketing. Grafica moderna ma con stilemi che richiamano la tradizione. Unica sporcatura, la scritta in alto a destra dove si legge “ottenuto con uve Pinot Nero e Chardonnay”, si tratta di una giusta precisazione, valorizzante, ma che nell’equilibrio ottico della grafica in etichetta, sbilancia un po’ la vista complessiva. In generale etichetta ben studiata e ben riuscita.

Una Bella Storia Italiana in Brasile

Vinho Bettù, Cabernet Franc.

La storia di questo produttore brasiliano trova le sue radici in Italia, come rivelano i cognomi coinvolti nella saga famigliare. Una gran bella storia. Vediamola in sintesi: sbarcato in Brasile nel 1886, l'immigrato italiano Pietro Bettú, nato nel 1842, a Scandolara, in provincia di Cremona, si stabilì con la sua famiglia nel comune di Garibaldi, nel Rio Grande do Sul (proprio così, il nome della località, ancora oggi è “Garibaldi”, e siamo nel Sud del Brasile). La famiglia piantò nel 1889 le prime vigne: la varietà coltivata a quel tempo era di uva Isabel, ceppo originario degli Stati Uniti. Il figlio del fondatore, Dionigi Ferdinando Bettú sposò Joana Soldi ed ereditò la proprietà. Ferdinando fu uno dei soci fondatori della Cooperativa Vinícola Garibaldi. Morì all'età di 64 anni, lasciando la moglie e dodici figli, che iniziarono a gestire la proprietà. Nel 1999, Vilmar Bettú, pronipote del fondatore iniziò il progetto che gli avrebbe cambiato la vita: nasce così il marchio Bettú, oggi portato avanti anche dalle figlie Larissa e Catenca. Un marchio che è anche etichetta, con una sintesi ed una efficacia comunicativa da encomio: una foglia di vite, sagomata, cioè realizzata con una fustella che percorre il suo profilo, con solamente due parole “Vinho Bettù”. Unico vezzo l’inchiostro dorato per le scritte e i profili grafici della foglia. Splendore e semplicità di una storia e di un packaging esemplari.

Da Secoli l’Argento di Strasburgo è il Vino Bianco

Argentoratum, Blend di Bianchi, Charles Muller.

Il nome di questo vino attira subito l’attenzione. Sarà per come viene scritto (in modo criticabile, in verticale, poco leggibile nell’immediatezza), o per il suo significato che riporta all’argento. Ma la storia è più complessa di quanto si possa immaginare in prima battuta. “Argentoratum” nasce in Alsazia, nei dintorni di Strasburgo, da uve Riesling e con il contributo di altre uve bianche della zona. Viene prodotto da 11 aziende vinicole con la medesima etichetta (cambia solo il nome del produttore in alto a destra). Ogni produttore decide come comporre il blend, sempre a maggioranza di Riesling. Veniamo nello specifico al nome: Strasburgo, che in alsaziano si dice Strossburi e in latino Strateburgus (città delle strade), in antichità si chiamava Argentoratae e successivamente Argentoratum ed era un castrum romano. Il nome risale dal gallico “ratiu”, recinto fortificato, e da argento per bianco, rilucente. Sullo sfondo dell’etichetta si intravede una trama grafica goticheggiante, forse riferita alla maestosa cattedrale di Strasburgo. Nel complesso si tratta di una storia raccontabile e che “pesca” nell’antichità: il legame col vino ci può stare, laddove la coltivazione della vite, anche in quelle zone poco temperate, vanta una tradizione millenaria.

Il Polpo non è Guercio e il Guercio ci Vede Benissimo

Tinto, Alicante Bouschet, 
Tenuta di Carleone.

Ecco l’ultima (la più recente) invenzione del Guercio. Sarebbe a dire Sean O’Callaghan, impiantato nel bel mezzo del Chianti Classico, in quel paradiso di ulivi e vigne che si chiama Radda. A sorpresa si tratta di un vino “frizzante”, o anche “mosso”, come direbbero in Oltrepò dove quella tipologia di vini è tradizione. Certo il vitigno non è di quelli classici (e si ricollega al nome del vino, “Tinto”): l’Alicante Bouschet è un incrocio tra Petit Bouschet e Grenache che da vita a un’uva “tintoria”, come di dice in Spagna, cioè molto scura, come un inchiostro. Un esperimento l’incrocio (diffuso soprattutto in Spagna, Portogallo e Cile), un esperimento questo vino pet-nat che il Guercio e il suo socio austriaco Egger, decidono di tappare con la chiusura metallica a corona. Veniamo al packaging. Il nome del vino, come già detto, è “Tinto”. Dallo spagnolo. Insomma, vino rosso. Discutibile per il mercato italiano, ma trova il suo rational nel colore del vino e nelle origini del vitigno che lo compone. Questione risolta. E cosa dire della piovra che campeggia in primissimo piano sull’etichetta? Bella l’illustrazione, ispira simpatia al primo sguardo. Il mollusco cefalopode regge con un tentacolo lo stemma aziendale, per il resto ammicca attonito forse in attesa di essere messo in pentola. Che il polpo sia un consiglio di consumo? O più probabilmente il riferimento a quella particolare caratteristica di questa specie che consente loro di emettere una sostanza nera come l’inchiostro per autodifesa. 


Idee Chiare nell’Oscurità

Fear No Dark, Cabernet e Oseleta, Pasqua.

L’etichetta è “oscura” ma le intenzioni sono chiare. Si tratta di un progetto che nasce con un concetto coraggioso ma lucido, soprattutto alla luce dei cambiamenti climatici in atto. Parte tutto da una sezione di vigneto, di circa 5 ettari, esposto a nord-est, cioè, praticamente quasi in ombra. Parcella viticola decisamente fresca ed esposta ai venti provenienti dai Monti Lessini, come precisato dal produttore. Due grandi “balze” alternano le zone d’ombra sul vigneto generando tempi diversi di maturazione. Il tutto viene gestito agronomicamente e tecnologicamente in modo da ottenere in ogni caso un vino “maturo”. Siamo comunque all’interno del progetto “Mai Dire Mai” per cui si rischia di confondere il nome del vino, che effettivamente è “Fear No Dark”, insomma una metaforica sfida al buio. Una sfida esperienziale e qualitativa. Veniamo ad una analisi più particolareggiata di questa strana etichetta: in alto alla base del collo leggiamo il nome del vigneto, Monte Vegro, e della località, Iliasi. Siamo nell’area dell’Amarone e anche per questo, un Cabernet rappresenta una sfida anche alla tradizione. Nella parte ampia dell’etichetta, tutta molto scura, leggiamo quello che potrebbe essere definito come un nome di linea, “Mai Dire Mai”, anch’esso, concettualmente sfidante. Subito sotto, con un “andamento collinare”, il nome “Fear No Dark”. Poi l’iconografia della sede e il nome del produttore alla base. Certamente sarà difficile un “colpo d’occhio” sullo scaffale con questi toni notturni, ma l’originalità c’è, soprattutto per quanto riguarda lo storytelling.

Acini che Sorridono nella Piana Rotaliana

Majerla, Chardonnay, Dorigati.

Questo vino nasce in località Ischia, ma non siamo nella soleggiata isola di fronte a Napoli. Siamo nella piana Rotaliana, patria del Teroldego, che in questo caso ci dona un vino prodotto col un vitigno ormai figlio del mondo intero, lo Chardonnay. L’etichetta è spartana, ma sa distinguersi ad un’occhiata generale e anche nel particolare. Caso raro tra le aziende vinicole italiane, troviamo una dettagliata spiegazione del packaging nel sito internet del produttore: “…è la riproduzione di una xilografia eseguita da Remo Wolf, noto artista trentino. Sulla sinistra il suggestivo castello di Mezzocorona, sulla destra, l'emblema della natura maestosa di queste montagne, il Sassolungo della Val Gardena. Al centro spicca uno stupendo grappolo d'uva, di cui ogni acino è un piccolo sole. Sole che è un momento di unione fra la Val Gardena e la Piana Rotaliana ed elemento di vivificazione del frutto da cui si ottiene questo ottimo vino bianco”. E troviamo anche una spiegazione del nome del vino, “Majerla”: “…deriva dal nome del corso d'acqua che scorre adiacente al vigneto, il Ri del Maerla” (accezione dialettale). Bella l’idea dell’artista di umanizzare (o se vogliamo di “solarizzare”) gli acini d’uva con un sorriso. Peccato, nostro parere, che il soggetto artistico sia in bianco e nero, forse a colori avrebbe reso più vivace e attenzionale il concetto e l’etichetta stessa.

La Pioggia Batte sul Ciglio del Vigneto

Rain, Riesling, Alois Lageder.

Siamo in Alto Adige, ma di poco. Magré sulla Strada del Vino è il primo paese della provincia di Bolzano, arrivando da sud, quindi dalla provincia di Trento. Qui si trovano la sede e la produzione di Alois Lageder, noto e stimato viticoltore altoatesino. Di conseguenza la lingua comunemente parlata è il tedesco. Il nome di questo vino, un Riesling, è un caso linguistico. Ebbene, “Rain” in tedesco significa ciglio, bordo, confine. Probabilmente si fa riferimento a un confine agronomico, forse geologico, probabilmente geografico. Ma per i più “Rain” riporta all’inglese che sta per “pioggia”. Non solo all’estero ma anche in Italia dove, ad esempio, la celebre canzone di Prince, Purple Rain, ha reso molto noto il termine. E’ necessario aggiungere che la pioggia non è propriamente un fattore positivo per la vigna, tranne quando ci si trova in periodi di siccità, logico. In generale però la pioggia porta umidità, che per la salubrità del grappolo non va molto bene. La scelta quindi di chiamare il vino “Rain”, diventa discutibile di fronte al prevalente significato tratto dall’inglese. Di certo questo vino non vorrà limitarsi al mercato dell’Alto Adige, davvero piccolo in termini commericiali. Per il resto l’etichetta è spartana ma elegante, molto lineare e di sintesi, con una bella rappresentazione grafica, in basso, dei profili delle montagne, o forse dell’andamento dei vigneti ai piedi di esse. 

Un Vino Sugli Scudi e Sugli Scogli

Scoglio Nero, Ansonica, 
Tenuta Isola nel Giglio.

Non si tratta di un errore di trascrizione, l’azienda in oggetto si chiama proprio “Tenuta Isola NEL Giglio”. Certo che se si cercano notizie su questa bellissima isola tirrenica Google ti dice subito che forse stai cercando qualcosa riguardo l’Isola DEL Giglio. E’ quindi un vezzo linguistico rischioso. Ma passiamo oltre e vediamo di commentare l’etichetta di questo nuovo vino, un bianco da vitigno Ansonica, tipico di quella terra, frutto della coltivazione di solo un ettaro di vigna. Da considerare che in totale, la superficie vitata dell’isola è di soli 20 ettari per 10 produttori. Tutte vigne ad alberello, per adeguarsi agronomicamente alle frequenti giornate di vento. Questo vino si chiama “Scoglio Nero”, e il riferimento è marittimo e geologico al tempo stesso. Terre scogliose, scoscese, rocciose, granitiche, dove i pendii diventano sabbia scura sfaldandosi sulle piccole spiagge. Il colore scelto per questo packaging è particolare: un grigio-azzurro che sa distinguersi. La trama grafica ci porta alla vista l’isola circondata da onde argentate, con inchiostro in rilievo. Curioso il sottolineare, in grande, la parola “nero” laddove si sta parlando di un vino bianco. Forse un altro vezzo creativo di chi ha progettato l’etichetta. In summa il packaging è pulito, gradevole, distintivo, originale nelle forme, nel croma e nel lettering. Il vino, per la cronaca, si colloca molto in alto a livello di prezzo. E quindi anche di aspettative!

Il Curioso Caso della Cuba Renana

Adriana, Pinot Bianco, 
Weinhaus Cuba am Rhein.

Non ci si aspetta di vedere, su una bottiglia di vino tedesca, produzione della Renania-Palatinato, un bella cubana con tanto di sigaro. E nemmeno ci si riesce a spiegare, di primo acchito, il nome di questo produttore: “Cuba am Rhein”. Cerchiamo di capire. La sede e i vigneti di questa azienda vinicola famigliare si trovano a Kaub, piccola cittadina sulle sponde del Reno. Ebbene, sembra che in precedenza questo paese veniva citato come “Cuba Villula”, cioè “piccola Cuba”. Il proprietario dell’azienda giustifica l’adozione del nome “Cuba sul Reno” dicendo che “Molte persone associano Cuba ai Caraibi, ai sigari, al rum, alla danza e alla musica! Uniamo il suono del nostro vino, che cresce su ripidi pendii di ardesia, con il "Suono di Cuba" che delizia le persone e entra nella loro anima come salsa, rumba, mambo e cha-cha-cha…”. Molto bello evocare i ritmi caraibici, allietano tutti, anche senza vino, ma in realtà l’origine di questa “Cuba germanica” viene così raccontata dal Wikizionario tedesco: “Kaub fu menzionato per la prima volta nel 983 come "Cuba villula", il piccolo villaggio "Cuba". Da questo si è sviluppato l'attuale nome Kaub. Il nome Cuba consente diverse interpretazioni etimologiche. I primi ritrovamenti di tombe celtiche nell'area parlano del celtico "cabi" (ingl.: piccola casa). Un'origine latina derivata dal verbo “cubare” (ingl.: to camp) è facilmente ipotizzabile a proposito di un possibile avamposto romano sul Reno. La spiegazione in forma di leggenda, propone una terza possibilità che fa derivare il nome dal sostantivo latino “cupa” (coppa o anche il tino e la botte). Dopo essere stato lapidato a Magonza, si dice che San Teonesto sia stato spinto lungo il Reno in una vasca bucata e salvato dai residenti locali vicino a Kaub”. Alla fine ci ritroviamo con una etichetta davvero bizzarra (lo è anche il titolare, Marcel Farcas, di origini Rumene, trapiantato in Germania), un vino che si chiama Adriana, e una bellissima frase che rappresenta la filosofia dell’azienda (che apre il sito internet): “Il lavoro è amore reso visibile. E se non puoi lavorare con amore, ma solo con riluttanza, allora è meglio lasciare il tuo lavoro e sederti alla porta del tempio per chiedere l'elemosina a coloro che lavorano con gioia”. (Khalil Gibran)